Lettera ad un amico
Perdona la dimensione pubblica che vorrei dare, se me lo consentirai, alla risposta al tuo delicato e comprensivo commento al mio” Luglio pensoso: in cerca dell’arte e della parola che cura” breve scritto cui tengo in particolare per l’intreccio di amici coinvolti nel dialogo. Siccome in questo periodo ti occupi in modo pregnante del tema che anche a me coinvolge e impegna , cioè la dimensione costitutiva dell’alterità, così mi piacerebbe allargare in un più ampio contesto questo tipo di riflessioni.
Vorrei proporre una risposta che parte da una recente presentazione alla radio di Quaderni di Mosca di Osip Mandel’Štan.
Mi pare che questo grande poeta ,come peraltro Shostakovich in musica , si metta (eroicamente) alla prova per ritrovare uno spazio espressivo, col tentativo di dissodare il tempo storico per arrivare ad una condizione esistenziale ancora fertile, fungibile nella sua patria e con i suoi contemporanei. Tentativo , concretamente peraltro fallimentare, che lo conduce in un vortice terribile dove vivere a Pietroburgo è come “dormire in una bara” e sulla vita a Mosca deve esprimersi così “Ripararmi non posso…dal gazzabuglio di un tempo atroce” a fronte di un progetto che in qualche modo propone usando le sue parole di “Riattrezzare la psiche dei compagni rimasti indietro…” Partendo da un doloroso insight: “la rivoluzione di ottobre mi ha tolto la mia biografia” Mandel’Štan si adopera appunto per dissodare il tempo storico confrontandosi con la sua poesia , assolutamente inattuale , che lo stigmatizza e si sente profondamente solo perché per lui il dialogo è essenziale come la consapevolezza che gli altri sono fonte di vita , di ispirazione, di possibilità e di conoscenza , se pure nel tragico e orribile contesto storico dove si è trovato a vivere e morire di inedia mentre “il montanaro del Cremlino” otteneva, scrive Mandel’ Ŝtan, “i favori dei mezzi uomini che lo circondano” e di cui ,possiamo aggiungere, si deve contentare a causa del terrore che procurava a Stalin la libertà e la vita in genere come anche lo spaventavano gli ingegneri dell’anima , così chiamava (in momenti più tranquilli) gli scrittori.
Terrore che ha, a sua volta ,seminato in gran copia, terrore che ancora, da vicino, vediamo rinascere in forme sempre uguali.
Insomma, in quel periodo la poesia di Mandel’ Ŝtan “assomiglia ad un atto suicida” così vien detto da Pasternak , ma è ben evidente che per Mandel’ Ŝtan il suicidio sarebbe stato anche TACERSI tanto profonda e vitale, essenziale quanto necessaria era per lui l’alterità , fonte di ispirazione.
Allora caro amico nelle visioni estreme che la poesia di Mandel’ Ŝtan ci mostra e nel suo stesso trascinarsi nell’inedia, quasi assiderato , declamando Dante e Petrarca, come hanno raccontato testimoni della sua fine, sento una delle chiavi di lettura sul tema de l’altro e di cosa può essere o no anche il suicidio o, come dici tu ,“Il suicida interrogante”.
Mandel’ Ŝtan considera l’opera di Dante uno strumento per leggere il futuro, ecco che mi pare anche questa una sorta di illuminazione e un modo di questo grande poeta di immaginare il proprio futuro ,al di là della realtà che lo circonda , il suo futuro che possiamo anche essere noi che lo leggiamo .
Le domande che ci poniamo e il dialogo che intrecciamo con gli ALTRI potrebbe essere quasi concretamente esteso a tutta l’umanità che riesce o è riuscita a esperirlo?
A questo punto anche l’enigmatico verso “ l’inacessibile, com’è vicino!… acquista nuova luce e mi pare rimandarci alle dimensioni della COMPRENSIBILITA’ quale dispositivo antropologico generativo e centrale per ogni cura , come chiaramente ci appare nella lezione e rilettura jaspersiana del grande psicopatologo che è stato Arnaldo Ballerini.
Riferimenti per la lettura:
Gaetano Fornaro “Il suicida come interrogante”POL.IT Psychiatry on line
Osip Mandel’Štan “Quaderni di Mosca” Giulio Einaudi Editore
Arnaldo Ballerini”Esperienze psicotiche: percorsi psicopatologici e di cura”Giovanni Fioriti Editore
“Ho provato, ho fallito. Non discutere. Fallisci ancora. Fallisci meglio”, così Beckett in Molloy (1951). La notissima citazione di Beckett mi viene in mente leggendo le tue riflessioni, cara Caterina. La passione che ho per i testi e la vita di Mandel’stam, così come per quella di Brodskji, (meno per il velo di opportunismo con cui ho sempre percepito Pasternak, anche nel suo pensiero riguardante Mandel’stam, che non ha aiutato quando avrebbe potuto), mi fanno pensare che dobbiamo andare fino in fondo. Un modo, seguendo la tua riflessione, è relativizzare alcuni estremi: libertà è ricerca e relazione, non conquista definitiva. Il 1789 ci ha consegnato un salto di civiltà ma non abbiamo portato avanti una ricerca come avremmo dovuto. Quella ricerca si può muovere efficacemente verso una direzione, non avendo una meta che pretenda di realizzarla una volta per tutte, la libertà. Il suicidio esige il silenzio, per quello che posso dire. C’è una via, allora? Anche la generatività della solitudine, o l’alveo generativo dei pochi che si parlano e cercano di comprendersi, possono essere una via sulla quale incamminarsi. Sto trascorrendo un certo tempo di questi giorni nello studio (lettura e rilettura) di un testo che non riesco ad allontanare da me, Prendere vita nella stanza d’analisi, di Thomas H. Ogden, pubblicato da Raffaello Cortina Editore. A pagina 70 Ogden scrive: “Il divario tra la soggettività del paziente e la mia non è un impedimento da superare; è uno spazio in cui la dialettica tra separazione e intimità può dare origine all’espressione creativa”. Per far emergere i nessi dobbiamo parlarci, continuare a parlarci e nel dialogo cercare. Il futuro è già qui, in mezzo a noi, e attende conversazioni e ricerche in grado di accoglierlo.
Cara Caterina,
mi permetto di ringraziarti per l’attenzione che hai voluto indirizzare al mio scritto e di farlo del pari qui, in modo pubblico, superando in questo caso la ritrosia che peraltro opportunamente deve limitare e temperare la spinta egologica.
Ma tengo a ringraziarti soprattutto per aver condiviso queste tue illuminazioni che vanno ad arricchire, in modo arborizzante, linee dialogiche che s’intrecciano. A conferma di ciò che tu stessa scrivi, ovvero che “il dialogo è essenziale come la consapevolezza che gli altri sono fonte di vita, di ispirazione, di possibilità e di conoscenza”. E ancora più radicalmente è il “ruolo costitutivo dell’alterità”, inteso come costitutivo della soggettività, che solo così si può sottrarre al rischio dell’abisso solipsistico, al “venerdì santo della solitudine” (utilizzando un’espressione di Emanuele Severino tuttavia in altro contesto) in cui rischia di ridurla la visione di un Io dato innanzitutto senza un mondo (il che equivale a far coincidere l’io col mondo). Da qui il tentativo di rintracciare una perdurante scena relazionale, un ostinato (perché primigenio) ed essenziale riferimento all’altro anche in quell’apparente estremo della solitudine che sembrerebbe essere il suicidio. Tu non solo l’hai colto delicatamente intrecciandolo al riferimento a Mandel’štam e alla sua vicenda luminosa e tragica, ma l’hai arricchito di valenze che solo dal gioco dei riflessi e dei rilanci provenienti dall’altro potevano sortire, oltrepassando (ma al contempo conservando, portando in grembo) ciò che originariamente si era voluto comunicare.
E mi piacerebbe concludere questo scambio rinviando alle parole che a Mandel’štam rivolge un altro poeta, Erich Fried, anche lui ebreo, anche lui costretto dallo spirito di gravità della Storia (stavolta quella del nazismo) a forzare la sua traiettoria esistenziale, senza per fortuna lo stesso esito tragico patito dal poeta russo.
“Il poeta Osip Mandel’štam fu visto l’ultima volta in un campo di smistamento prigionieri presso Vladivostok nel dicembre del trentotto
mentre cercava resti commestibili in un
cumulo di immondizie. Morì prima ancora che finisse l’anno”.
I suoi assassini a quei tempi amavano parlare del ‘cumulo di macerie della storia sopra il quale sarà gettato il nemico’.
(..)
Se l’umanità avrà fortuna gli archeologi delle macerie della storia porteranno alla luce ancora qualcosa della nostalgia di una cultura universale.Se l’umanità avrà ancora fortuna saranno uomini
gli archeologi sulle macerie della storia”.