Vaso di Pandora

Razionalità, populismo, follia.

Commento all’articolo di Michele Mari: Atlante universale della follia & all’articolo di Alessandro Baricco: Critica della ragion politica.

Repubblica nell’inserto Robinson pubblica contemporaneamente, per caso o forse non per caso, due contributi assai diversi ma in qualche modo convergenti, che guardano da prospettive diverse lo stesso tema.

Quello di Michele Mari sul volume di W. Davis “Stati nervosi” mette in guardia contro la contrapposizione frontale, in campo politico e sociologico,  fra la razionalità e  una emotività che impregna  quella che chiamiamo “reazione di pancia”, quasi intendendo che il cervello non vi ha a che fare: tema attualissimo.

La  critica all’approccio razionale e razionalistico giunge qui ad eccessi non condivisibili, almeno nella versione che ne dà l’articolo: pare assurdo definire le statistiche “splendido esempio di non-sapere utile al dominio” (anche se evidentemente sono state usate anche così): non si vede come tante valutazioni storiche, sociologiche, politiche, economiche, mediche possano fare a meno del procedimento statistico, insostituibile strumento di verifica.

L’Autore ricorda poi giustamente che il primato della ragione è un dato non eterno bensì storicamente determinato, particolarmente in quel suo aspetto più radicale che è il voler conoscere la realtà tramite i numeri; ma  improbabilmente  sostiene che ciò ha avuto inizio con la guerra dei trent’anni, come risposta a quelle devastazioni e come tentativo di cercare  sicurezza in nuovi rassicuranti parametri: per consentire a ciò  bisognerebbe dimenticarsi la proposta di Pitagora di 2000 anni prima.

E’ vero che la forza dei numeri rischia di diventare, e in parte è diventata, “un giochino riservato a una elite di esperti”,  e che ciò suscita la reazione populistica,” culturale” in senso lato prima che politica, fatta di diffidenza verso gli intellettuali e i tecnici, di predilezione per le proposte semplificatorie, di ricorso a Internet e ai Social come fonte di presunte verità alternative e scomode per l’establishment, di spazio lasciato alla riposta emotiva anche in campi che non dovrebbero esserle propri …  Ma ritengo limitativo l’approccio di Davis che pare trovare il nocciolo del problema nell’uso che il capitale finanziario fa del sapere economico e non economico: questo aspetto è reale, e tuttavia credo che il discorso sia ben più ampio.

Penso che, di nuovo come ai tempi di Pitagora, il sapere scientifico, pur basato su parametri oggettivi come quelli numerici, sia divenuto di fatto esoterico, autorizzando Davis a paragonarlo a una religione come del resto aveva fatto a suo tempo Bernard Shaw: questo, non per maligna volontà di qualcuno, ma inevitabilmente perché l’immensa mole di conoscenze non può renderle accessibili tutte a tutti. Siamo tutti convinti dell’esistenza dei  buchi neri: ma forse uno su un milione fra noi saprebbe dire in modo convincente per quale percorso logico – conoscitivo giunga a crederci: con ciò, beninteso, non li metto in dubbio, ma so che anch’io divengo così  un “credente”.

Perfino nella fruizione dell’arte il pubblico non  si fida più di sé stesso e della propria intuizione estetica, dopo che  tante volte  gli esperti gli hanno  dimostrato che sbagliava, che non comprendeva il messaggio di nuovo conio offertogli, magari volutamente oscuro. Anche nel varco offertogli da questa sua incompetenza si è infilata la particolare versione del capitalismo costituita dal mercato dell’arte, in cui l’abilità del mercante è spesso fattore decisivo, e in cui il valore venale di un’opera è spesso funzione del suo valore venale futuro probabile: in un’ottica francamente speculativa.

Un fattore, diciamo così, di equilibrio è dato dal fatto che il nuovo sapere misterico  da molto tempo non è proprietà di una sola casta, ma frammentato e distribuito fra più sottocaste. Fra esse, quella degli economisti è forse quella il cui sapere ha il potenziale più incisivo nell’orientare (o giustificare) le scelte politiche.

Se le cose stanno così, potrebbe essere utile il diffondere, per quanto possibile, nella collettività le conoscenze, specialmente quelle politicamente più significative: forse così si potrebbe ridurre quel sentimento di incompetenza e incapacità che contribuisce reattivamente  alla risposta populista fatta anche di diffidenza verso i tecnici. Platone nel Protagora affermava che la “virtù”, intesa come competenza relazionale, sociale e politica, era patrimonio di tutti, non di specialisti; ma temo che oggi ciò vada considerato più come una giusta aspirazione che come una realtà acquisita.  Quale il ruolo della scuola per avvicinarvisi? E c’è un modo per far sì che in Internet e nei Social  prevalgano infine le valenze positive e utili?

Per inciso, anche sotto questo aspetto è tuttora importante la lezione della psicanalisi: nella seduta il tecnico mette fra parentesi le proprie nozioni teoriche (anche se implicitamente le utilizza) per cercare con il paziente un incontro in cui la consapevolezza dei reciproci ruoli non impedisce il perseguimento di uno sguardo comune a livello cognitivo ed emotivo, di una forma di condivisione.

Una diversa aggressione all’ordine razionalmente garantito è quella descritta da Borges, citato nell’articolo di Michele Mari: il personaggio descritto disegna ossessivamente carte geografiche in cui  la geografia vera si mescola a quella fantastica, impregnata di immagini anche mostruose allusive a realtà interiori dell’autore. Potrebbe essere una descrizione della creazione artistica psicopatologica, la cui specificità  qui è il riferimento a carte geografiche che cessano di essere obbiettive e reali,  rappresentando così visivamente  il potenziale destrutturante della follia.

Naturalmente, il populismo non è follia, e anzi ne è quasi l’opposto: manca di quella carica creativa a volte presente nella follia, e all’opposto di questa è caratterizzato da condivisione di posizioni ampia e addirittura acritica, come descritta in tante opere sulla psicologia di massa. Ma può offuscare la capacità di valutazioni realistiche giungendo, come nel classico esempio del nazismo, a follie collettive guidate da capi non di rado francamente e personalmente folli.

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