Commento all’
articolo di Anais Ginori
Qualcosa è cambiato le donne non tacciono più
Molestie sessuali e miti antichi e moderni
Argomento scivoloso e territorio minato quello della “violenza sessuale”. Si necessita infatti di tenersi a debita distanza dagli “opposti” eppure “convergenti”, alla fine, stereotipi di genere femminile e maschile con relativi pregiudizi al seguito per sopravvivere all’accusa di “maschilista fallocrate” o di “postfemminista da salotto”, o à la page.
È facile incunearsi nei meandri del politically correct, ma non altrettanto semplice uscirne con le ossa intere. Non si intravede forse in certo afflato maschile l’ennesimo risvolto del millenario paternalismo di cui gli uomini fanno oggetto le donne da sempre? Uomini che poi hanno pure la pretesa di “spiegare” la questione “femminile” alle “femmine”? Ma dopo tutto, non è che “per parlare di aborto bisogna essere incinte o per discutere di figli bisogna essere genitori o per sapere se un uovo è fresco bisogna essere una gallina”. Ma tant’è! E dopo questo tocco di sano “surrealismo” pecoreccio mi giova intanto tributare il mio doveroso sostegno ad un certo “sconfortato entusiasmo”: dunque, l’umanità nonostante tutto si evolve pur sempre sebbene la sua evoluzione non è mai lineare. È anche vero che viviamo in territori dove è maturata una concezione della dignità dell’essere umano che fa fatica purtroppo ad affermarsi in altri contesti (ma le cose sono un tantino più complesse qui da noi senza dover per forza buttare la croce addosso ad altre culture).
In aggiunta, abbiamo attualmente anche la fortuna di trovarci in una parte del globo dove si susseguono le denunce per “molestie sessuali”. Dico “fortuna” non per fare della satira a buon mercato. Anche se a tratti mi servirò di una qualche “leggerezza” di toni per mitigare un argomento molto serio e spinoso che spero di reggere a sufficienza. Ma d’altra parte il ricorso ad una sconsolata ironia è quasi d’obbligo quando si deve reagire a certa “bestialità retorica”. “Reagire all’ignoranza con un sorriso”, a volte, si deve o può essere necessario anche soltanto per non farsi venire il mal di fegato dalla rabbia.
Voglio dire che il fatto che oggi più che in altri momenti si parli di “molestie sessuali e sessiste” è un fatto positivo, paradossalmente, perché, “certi comportamenti umani dovrebbero venire alla luce più facilmente e incominciare a fare davvero scandalo soltanto quando sono in declino”, almeno in linea di principio (in tal senso mafia e corruzione ce le terremo ancora per qualche secoletto o giù di lì, temo).
Come è noto lo stupro e gli “atti di libidine” sono confluiti nella fattispecie di reato rubricato dall’ art. 609 bis c.p. come delitto di “violenza sessuale” il quale indica che “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire “atti sessuali” è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. Quindi, qui non si parla soltanto di “violenza carnale”, che aveva come presupposto necessario una qualsiasi forma di “compenetrazione” carnale (vaginale, anale, orale).
Qui si parla di una forma di violenza più nello specifico verso le donne più subdola e strisciante in taluni casi, ma in altri sfacciatamente esibita dai suoi aggressori, che ancora tende a rimanere sommersa o tale lo è stata in passato, almeno.
Che le donne oggi trovino il coraggio di denunciare e senza provare vergogna le “molestie sessuali” è un fatto oserei dire rivoluzionario se pensiamo che certo genere di “violenza sessuale” e più difficile da provare in giudizio, si espone sovente al sommo sprezzo del ridicolo (nel senso che viene ridicolizzata) e gode soprattutto di una diffusa tendenza alla minimizzazione da parte di una vasta opinione pubblica. Adesso, a parte i sospetti di legittimità costituzionale per la vaghezza dell’espressione “atti sessuali” per cui pare si finisca per punire in egual modo tutti i “comportamenti sessuali caratterizzati dalla violenza, dalla minaccia e dall’abuso di autorità” (ma non sono un tecnico di materie giuridiche quindi lascio a voi ulteriori precisazioni se ne avete voglia) sembra proprio discutibile il principio stesso per cui uno che “toccava il culo a una signora e toccava e ritoccava…neanche fosse lui il padrone” sia punito allo stesso modo di uno stupratore. Sinceramente da profano mi aspetterei che al reo di stupro venga applicata una pena di gran lunga superiore a quella comminata al reo di un “atteggiamento libidinoso”.
Con questo senza nulla voler togliere alla gravità degli atti sessuali diversi dalla violenza carnale, in quanto rappresentano comunque condotte gravi che meritano severa sanzione soprattutto perché dietro la molestia sessuale si cela sempre uno sfacciato “abuso di potere” esercitato su una persona che si trova in una – condizione oggettiva di “inferiorità” tale da impedirle comunque di opporsi alla coartazione -. Verosimilmente, qui sussiste la necessità di dare comunque al fenomeno della “violenza sessuale” un’espressione “politico-simbolica” prima di tutto oltre che una connotazione di natura “morale”.
Assume cioè maggiore importanza la preoccupazione per la generalità e la “neutralità” quasi del reato in modo tale che le norme che lo disciplinano all’interno dell’ordinamento giuridico si trasformano poi nella coscienza civile in “legge naturale” espressa contro ogni discriminazione basata sulla razza, sull’inclinazione sessuale, sulle origini nazionali, sulle differenze di ceto o di genere. Questo per dire che il delitto di “violenza sessuale” si svela ogni volta non soltanto come un efferato delitto sulla persona debole, ma segna anche l’oltraggio ai più basilari principi di democrazia, violata nelle sue fondamenta più sacre: la tutela dei diritti inviolabili della persona.
Ora se è vero che la pratica della sessualità e la morale che l’accompagna possono dirci molto sul grado di evoluzione di una civiltà, in quale punto del percorso evolutivo ci troviamo noi oggi, dunque?
È pur vero che storicamente lo stupro fu a suo tempo semplicemente la “sessualità” come testimoniato già nel Medioevo quando la posizione giuridica della donna era equiparata pur sempre a quella di un qualsiasi bene di proprietà e persino la sua verginità era da garantire in quanto “bene” da tutelare in funzione di terzi (uomini ovviamente) futuri ed eventuali. Tuttavia, non è necessario andare così indietro nel tempo per capire l’esatta misura dei cambiamenti intercorsi, ma è sufficiente andarsi a rivedere “Processo per stupro” del 1979 trasmesso con grande e giustificato clamore dalla Rai in cui si vede quanto fosse comune nell’ordinamento processuale del tempo “trasformare la vittima in imputata”.
Da allora di passi avanti ne sono stati fatti sebbene recenti fatti di cronaca ci riportano le imprese di “valorosi principi del foro” che in materia di ”violenza sessuale” pare non abbiano perso quel tipo di “vizietto”. E anche le motivazioni di certe sentenze non consigliano un grande ottimismo.
Chiunque abbia assistito ad un processo per “violenza sessuale” potrebbe avere l’amara sensazione che in questo tipo di delitto la vittima “non è innocente” o comunque non può esserlo fino in fondo “a prescindere dal fatto che una abbia subìto violenza oppure no”. Come a dire che se uno è stato assassinato è anche un po’ colpa sua in fondo (del cadavere voglio dire. “Ah se i morti potessero parlare”) Si ha un po’ l’impressione piuttosto amara e surreale che il pubblico ministero stia lì non per comprovare la colpevolezza del reo presunto, ma per dimostrare l’innocenza della vittima presunta che si deve discolpare, quest’ultima, dal “fatto naturale” di “essere donna” prima ancora che una “bugiarda nata”. Mi pare che ci sia un ribaltamento assurdo di prospettiva.
Come se allo scopo di far trionfare la “verità” in questo tipo di delitti o per il tipo di materia “osé”, per così dire, ivi trattata, il dispositivo giudiziario non possa prescindere dallo sbeffeggiamento impudente e crudele della Parte lesa o che tale si presenta nella “dialettica” processuale. Mah! Bizzarro! Eppure, sembra davvero, a volte, (ogni volta?) che se ne faccia una questione personale.
Qui ovviamente non può essere in discussione la figura della donna in quanto appartenente alla categoria delle donne. È sempre dai fatti che dovrebbe scaturire la sentenza, mi pare. Seppure in questo tipo di processi forse sono proprio i fatti che sembrano suscettibili di essere rivoltati come si vuole.
I fatti sono le prime vittime, forse. Probabilmente, in questo tipo di delitti più che in altri non può essere la “verità” in gioco. Forse non sapremo mai ciò che è realmente accaduto tra l’uomo e la donna in quel particolare frangente (a meno che non ci siano dei segni evidenti di una qualche violenza subita. Ma quali sono i segni “evidenti” – processualmente validi – della violenza morale scaturita da un corpo “violato”? Qui è davvero un tecnico che dovrebbe spiegarci meglio certi aspetti giuridici) Spesso non si hanno che le dichiarazioni dell’accusatore e dell’accusato.
La verità solo le parti la conoscono e anche questo non è propriamente scontato. Ma lo scopo della giustizia non è acclarare la verità, mi dicono. Ma riaffermare una “verità processuale” cioè ribadire i principi della legge che ci richiamano a ciò che è lecito e a ciò che non è lecito e punire di conseguenza. E alla fine andiamo avanti con i processi nella speranza che la “verità” venga fuori almeno in Cassazione. Questo è ciò che ci auguriamo, se non altro. Tuttavia, “temo” che sia innanzitutto fuori dalle aule dei tribunali che dobbiamo cominciare a convincerci e a riaffermare ciò che è ammesso e ciò che non lo è. Chi ci darà l’abbrivio?
Tuttavia, oggi, nonostante certi operatori del diritto con le lancette dell’orologio puntate sul secolo scorso, possiamo dire che è maturata sufficientemente nell’ordinamento giuridico (meno forse in quello giudiziario visti certi dibattimenti) e, spero, nelle coscienze collettive, soprattutto l’idea, oserei dire morale, che lo stupro non soltanto è un reato grave contro la persona, ma innanzitutto è una violazione del diritto “naturale” della persona a sentirsi tutelata nella propria intimità fatta di corpo e mente.
Oggi non direi che “la molestia sessuale è la sessualità dei tempi moderni”. Tuttavia, la “molestia sessuale” costituisce uno “spartiacque” e le azioni che intraprenderemo e la sensibilità che svilupperemo da qui in avanti nei confronti di tale diffusa e spesso colpevolmente taciuta violenza, segnano forse la meta ultima di un processo evolutivo in campo non soltanto sessuale, ma oggettivamente morale più in generale di una società che fa ancora fatica a liberarsi di disuguaglianze e discriminazioni e nonostante le mirabilie del progresso tecnico e tecnologico ci facciano sentire ultramoderni e molto “cool”.
Adesso ciò che più conta è: l’indignazione morale della gente intorno a questi fenomeni è autentica? O si tratta in realtà soltanto di un moto di risentimento e vendetta? È una reazione momentanea “massmediatica” provocata dall’identità pubblica delle persone coinvolte più che dalla gravità (percepita) dell’azione in sé? È il gossip pruriginoso che accompagna i personaggi coinvolti a scatenare l’allarme in tempi in cui di scandaloso c’è ben poco e tutto viene perdonato con relativa facilità? E quando si arriverà al processo, pardon al patteggiamento, la faccenda si sarà già sgonfiata da sola per essere sistemata secondo la prassi con una bella iniezione di denaro?
O si tratta dei soliti pruriti scatenati da certa “morale sessuale”? Riflesso condizionato soprattutto da certo “bacchettonismo” d’oltre oceano? Lo scandalo nasce dall’esigenza di una comunità di criticare finalmente il livello squallido della propria etica collettiva? O assistiamo all’ennesimo “spettacolo” dove va in scena la “riduzione della morale a semplice morale sessuale”? Col risultato paradossale quest’ultimo di ridimensionare viepiù la gravità di certa “violenza sessuale”? Voglio dire che in fondo abbiamo perdonato personaggi che ospitavano in casa “staffieri malavitosi” per farsi difendere da altrettanti personaggi della medesima risma e li abbiamo pure premiati e continuiamo a farlo con eminenti cariche pubbliche. Allora perché dovremmo sussultare di fronte a uno che “poveretto” si limita a farti la mano morta in autobus? O ti impone “soltanto” di spogliarti per girare un film? O che trasforma un’ “ispezione ginecologica” in un’inesauribile fonte di libidine a tradimento? O che ti assume in fabbrica a patto però che ti “impegni” a non rimanere incinta per i successivi, che so io, tre anni? L’intimità delle persone immolata alle esigenze della “produttività”.
L’ “ovulazione al tempo della “produzione industriale” per così dire; e il periodo imposto di soppressione della fertilità verosimilmente dipende dal tipo di contrattazione collettiva cui aderiscono datori di lavoro e sindacalisti, assortiti. Consiglio a certi “padroncini” di annoverare tra le clausole contrattuali l’imposizione della cintura di castità per tutte le donne ancora in età fertile e la reintroduzione dello “ius primae noctis” sulle mogli dei dipendenti e liberi professionisti, eventualmente. Ma sforziamoci di essere ottimisti!
Il molestatore non è un ignoto criminale magari affetto da qualche disturbo mentale. Alcuni, non esclusa qualche protofemminista, ci dicono che in realtà noi (maschi) lo conosciamo bene quel tipo lì e non soltanto perché trattasi di un personaggio più o meno noto più o meno pubblico: quel molestatore sarebbe nient’altro che un “mito maschile una sorta di Archetipo sepolto in fondo agli istinti e ai pensieri di ogni uomo.
Di tanto in tanto l’antenato del “Paleolitico inferiore” che è in noi riaffiorerebbe non più per “necessità”, ma per obbedire a dei “cifrari universali indefiniti” (e anche abbastanza “inconsci”) di “virilità” che pervadono l’uomo e da cui l’uomo si sente asservito e manovrato senza sapere bene da cosa e perché e senza comprendere che al di là della donna concreta che ha davanti con le sue responsabilità, le sue motivazioni, le sue intenzioni sono i suoi stessi ideali che lo sollecitano e gli impongono di agire in certi modi. Insomma, si aggirerebbero nelle nostre contrade dei residui evolutivi, mai rottamati.
Cioè, una sottospecie di “Homo NonSapiens” molto più evoluto dell’Australopithecus, posteriore all’Homo Neanderthaliensis e tuttavia non ancora Homo Sapiens a tutti gli effetti seppure si segnali giusto al punto di demarcazione dal ramo filogenetico che ha condotto alla comparsa dell’Homo Sapiens Sapiens. Codesta sottopopolazione di ominidi pare sia sopravvissuta negli anfratti dell’inconscio di certi moderni discendenti maschili che popolano, tra gli altri, certi Universal Studios hollywoodiani o che attecchiscono come la gramigna dovunque si eserciti la “clava del comando” e il cui successo evolutivo si deve al fatto che sono grossolanamente onnivori o di bocca buona in quanto addentano qualsiasi donna gli capiti a tiro preferibilmente col culo grosso (che ha più calorie).
E apprezzano serie televisive del tipo “Uomini e Donne al tempo dei Flintstones”. I paleontologi annoverano questo tipo di ominide all’interno di una famiglia di primati degenerati volontariamente e lo catalogano come “Homo Inutilis”, Classe Infimus Pleonasticensis, Sottordine Carognissimus eccelsis.
A parte le “supercazzole evoluzionistiche”, è vero che certe notizie di cronaca sembrano emergere dal nostro inconscio come depositi stoccati lì da sempre. Non è semplice abitudine o rassegnazione alle brutture della vita. Alla fine non ci scandalizziamo più e finiamo per minimizzare tendenzialmente gli eventi quasi che una sensazione di “déjà vu” venga avvertita dalla nostra coscienza: una cosa già vista, già conosciuta emerge come se lo sapessimo da sempre per la serie “sono cose che sono sempre accadute e sempre accadranno”. Questa sensazione deriverebbe dalla perfetta convergenza di due fattori: la nostra “intuizione” inconscia e la figura reale protagonista di certe efferatezze che si accorda per chissà quale sortilegio con le nostre attese inquiete (alias “sensi di colpa filogenetici”poco elaborati).
Plausibile, e tuttavia onestamente questa mi pare una conclusione “esageratamente riduttiva” e anche poco “scientifica” che forse rivela in un colpo solo che non ci abbiamo capito granché né di Darwin, né di Freud, eventualmente. Concordo che esistono dei “cifrari universali indefiniti”, sorta di “manuale inconscio” di “virilità” che per la sua astrattezza può essere accomunato ad una forma di “inconscio collettivo” del pregiudizio (di genere) di “natura biologica e soprattutto di cultura sociale” che ha finito per sedimentarsi nelle motivazioni alla base dell’educazione cui siamo esposti fin da piccoli (aspettative del gruppo familiare e sociale) e che regolano dalla notte dei tempi le relazioni tra uomini e donne, relegandoli a certi ruoli fissi di genere.
Ma non credo che ci siano queste “leggi astratte” alla base degli abusi e della prevaricazione di genere. Non credo che nell’uomo moderno alberghi latente uno stupratore o un molestatore seriale. Io quantomeno non mi sento tale dentro e non ho una bestia dentro di me da tenere a bada all’occorrenza di fronte all’ “ondeggiamento di una minigonna”: “I miei sguardi non sono così neutri da escludere un godimento estetico, ma sono sufficientemente sereni da escludere una vocazione priapica”. Non c’è un barlume di ragione tantomeno evolutiva maschile o femminile nello stuprare, nel deturpare volti con l’acido, nel ricattare o minacciare qualcuno al fine di soddisfare certa “foia istintuale”. Mi convince di più la teoria secondo cui tutti siamo vittime di stereotipi e pregiudizi. L’unica differenza è forse che alcuni di noi sanno riconoscere tali distorsioni cognitive e sanno bloccarle sul nascere. La – normalità umana attuale è già fin troppo stomachevole di suo talune volte senza bisogno di appellarsi a fissazioni di stampo psichiatrico o a un mal interpretato significato dell’ Evoluzionismo -.
Come’è ovvio, qui non si tratta dell’azione di un maniaco isolato, di uno che ce l’ha con le donne dello spettacolo, ad esempio, preferibilmente dai capelli biondi, eventualmente. Qui stiamo facendo l’ennesima esperienza intollerabile di un vasto settore della società (gli uomini che detengono “potere” a qualsiasi titolo o comunque si ritrovano in una posizione di superiorità a qualsiasi titolo e che per qualsiasi ragione ne abusano) che opera discriminazioni e soprusi a danno di uno stesso gruppo di persone che trae una parte consistente della sua identità dal possesso di una certa caratteristica o dall’appartenenza ad un gruppo. In questo caso la caratteristica principale è quella del “genere femmina” e l’appartenenza è quella al “gruppo delle donne”, si potrebbe dire.
Quindi, non pazzi furiosi, non uomini dalla doppia e tripla personalità. Ma uomini dalla doppia e tripla e quadrupla morale. Tante morali quanti sono i ruoli che ricoprono in società. Ecco qui servito forse uno di quei “cifrari universali indefiniti” questa volta unisex cui obbediamo più o meno consapevolmente donne e uomini. Più gli uomini che le donne perché queste ultime non ricoprono ancora la stessa quantità e qualità di posti di potere, verosimilmente.
Tutti figli devoti e eredi acritici del crollo della “morale comune” quella con la “M” maiuscola, quella che dovrebbe regolare gli interessi comuni degli individui e della collettività nel suo complesso, a favore di una pluralità di morali professionali che trovano la loro massima espressione nella “morale tecnica” che le annovera tutte. In sostanza l’idea è che con molta facilità ci sentiamo sollevati dalla responsabilità delle conseguenze delle nostre azioni nell’ambito delle relazioni umane perché impregnati in certo qual modo di quel cifrario universale indefinito” dato dall’ “impersonalità del fare tecnico” che favorirebbe una sorta di “Dissociazione” interna e che si rivelerebbe in ogni ambito del vivere sociale. I suoi effetti spesso sfuggono ad ogni forma di controllo etico perché certi esiti “non scaturiscono dalla volontà umana ma sono il risultato di procedure innescate e metodiche rodate”. Insomma agisce di default senza istruzioni umane. Assunto discutibile oltre che comodo.
Però, concordo che nessuna personalità si esaurisce nella sua funzione (non siamo, per fortuna, soltanto quello che facciamo) quindi sotto questo punto di vista non sarebbe poi così bislacco che lo stesso individuo possa indossare al mattino la morale impietosa del direttore di produzione cinematografica che insidia giovani donne e che poi la sera possa indossare la morale del genitore benevolo o del marito fedele e del parrocchiano devoto e senza alcun senso di disgusto.
Tuttavia, io penso che non è propriamente vero che i nostri strumenti morali sono poi così vetusti e in quanto tali quindi incapaci di regolare l’ “amoralità” del “fare tecnico”. Secondo me il punto è che utilizziamo impropriamente la metafora dell’ “agire tecnico” per spiegare certe aberrazioni umane, perché di per sé “l’agire tecnico” non basta per interpretare il tentativo spesso calcolato di “sottrarre l’attore, l’azione e il suo effetto alla condizione umana”. L’unico risultato che otteniamo è soltanto quello di obbedire inconsciamente ad un altro di quei “cifrari-mitici impalpabili”, “l’agire tecnico”, che dimostrerebbe al massimo la nostra colta conoscenza oltre che l’ “irrinunciabile eredità” heideggeriana di cui sono impregnati certi nostri processi di pensiero. Predomina ancora la logica dicotomica del capro espiatorio che è il solito modo di distrarre l’attenzione dai problemi reali: Non è la tecnica il solito mostro da cui dobbiamo difenderci, ma è mostruoso, semmai, il modo in cui “educhiamo” adulti e piccini.
La tecnica, quella sì, dello “straniamento” è utilizzata invece massicciamente dal molestatore che ritiene evidentemente, come tutti i carnefici, di essere totalmente estraneo all’ “oggetto” che perseguita e ed è felice soltanto quando può dichiarare – Quella donna è “mia”! Io la possiedo! -.
Ecco allora che urge ancora una volta la presenza di uno Stato che riaffermi l’esigenza di una “Morale” e di una politica che promuova ancora una volta un “principio di realizzazione del bene comune” e che non si limiti semplicemente ad intervenire sulle condizioni che permettono solo di “limitare il male”. E poi finiamo per lamentarci che i provvedimenti giudiziari hanno il sopravvento su quelli legislativi operando quasi in regime di supplenza.
Quindi ben venga eventualmente la proposta della ministra francese Marlène Schiappa che propone che “lo Stato deve mettere nero su bianco che pedinare una donna per strada, chiederle dieci volte il suo numero di telefono, tentare di approcciarla fisicamente è semplicemente illegale”.
Ma sussiste anche, e forse ancor prima,una condizione di giustizia morale che si occupa del benessere della collettività diversa dalla giustizia legale che si interessa di “limitare il male”. Sebbene sia spesso necessario cominciare a “limitare il male” attraverso una legge per accorciare i tempi lunghi dell’evoluzione morale, forse.
Occorre pretendere che le istituzioni che rappresentano la nostra vita sociale esprimano e simboleggino le relazioni che intendiamo avere tra di noi persone comuni. Esse (le “Istituzioni”) ci comunicano e simboleggiano in modo chiaro e ufficiale “la nostra pari dignità umana, la nostra autonomia e capacità di autodeterminazione”.
Deve essere sottolineata l’importanza di un interesse politico ufficiale per determinati problemi. Va rimarcata l’urgenza di esprimere, consolidare, concentrare e legittimare le nostre azioni e i nostri interessi privati e pubblici in tali questioni.
Nel funzionamento delle istituzioni democratiche saranno allora espressi i valori che ci stanno a cuore e ci tengono legati insieme. Se lo Stato sottovaluta certi obiettivi comuni privandoli della loro connotazione di “interesse pubblico” allora questi tenderanno ad apparire indegni della nostra attenzione, e quindi saranno percepiti come dotati di scarso valore.
Il simbolismo è di importanza vitale com’è ovvio a tutti, dunque. Ecco perché urge l’introduzione sistematica nelle scuole dell’ “Educazione sessuale” che, non sarà sfuggito, non è soltanto una guida su come evitare di rimanere incinte o sul significato da attribuire alle polluzioni notturne maschili o una banale descrizione di certi rituali di accoppiamento. Ma soprattutto è il simbolo del grande interesse che le nostre autorità nutrono non soltanto per il principio secondo cui tutti siamo uguali di fronte alla legge, ma che siamo uguali prima di tutto di fronte agli altri esseri umani: “uguali nella differenza”. La “differenza” è una ricchezza di tutti e non una risorsa di cui pochi possono abusare impunemente o un male da aggredire rabbiosamente perché ci sentiamo minacciati e senza motivo plausibile, oltretutto.
“Educazione sessuale” è prima di tutto educazione ai rapporti umani, è formazione al rispetto reciproco, è trasmissione di una sana e serena idea dei rapporti tra donne e uomini. Perché stupirsi se l’esercizio sereno di una sana sessualità può contribuire a renderci più democratici oltre che meno nevrotici, eventualmente?
Insomma, quello che voglio dire è che dietro certe “violenze sessuali” si celerebbe ancora la colpa implicita di una società androcratica, sempre imbevuta al tempo stesso di “cerebralismo raffinato ed astrattezza mielosa misti impunemente a norme morali che si rivelano di fatto repressive”. La critica a una cultura intrisa di “falsi e subdoli ideali dannosi”, rimane opportuna anche oggi in un momento in cui gli ex-postfascismi e i revanscismi di tutte le risme tendono a riemergere e pretendono di indottrinare ancora la società compresa quella italiana.
Sarà anche vero che le donne sono più altruiste degli uomini, perché è una “questione di cervello” come “dimostra” uno studio pubblicato su Nature Human Behaviour condotto dagli immancabili neuroscienziati questa volta del dipartimento di Economia (e sottolineo “Economia”) dell’università di Zurigo, secondo il quale il sistema della ricompensa del corpo striato le spingerebbe ad atteggiamenti meno egoistici.
Sembra quasi che anche le neuroimmagini siano state piegate a una mentalità inquinata dall’ideologia basata sulla morale “economica” dell’interesse individuale. Ma si dimentica che il carattere precipuo che contraddistingue l’essere umano non è l’Io, ma il “Noi” cioè l’interrelazione ovvero la “consonanza affettiva” tra gli individui. Ma la risonanza magnetica pare che non riesca a misurare questo tipo di reciprocità. Quindi, si può anche affermare che l’universo sentimentale è antropologicamente e culturalmente appannaggio del femminile. Oppure che la donna abbia una vocazione alla “cura” (da qui anche la massiccia presenza del genere femminile nel settore delle “professioni di aiuto” o di “servizio” alla persona). E tuttavia, tranquille! Non è un destino, né questione di natura, ma di apprendimento di modelli sociali. “Conseguenza diretta, forse, di una società maschile che per millenni ha tagliato fuori la donna dagli affari dello Stato, ha demandato alla femmina, come suo precipuo campo d’azione, il mondo privato della casa e degli affari domestici e, nel contempo, quello altrettanto privato degli affari sentimentali e di cuore”.
Adesso per non rischiare di lasciare nel lettore l’amaro sapore di un “destino di conflittualità permanente” “rimaniamo al centro contro gli opposti estremismi” e diciamo che uomini e donne siamo tutti oppressi alla fine da un nemico comune seppure molto astratto: il mito della “struttura sociale” che ci vuole tutti sottomessi; tutti “condannati ai rispettivi talenti”. Tutti prigionieri stereotipati nell’ordine del “discorso maschile”.
Tutti forgiati ad immagine e somiglianza di un fiabesco “erotico” in cui si dibattono confusamente come in un incubo figure di cavalieri serventi perennemente affranti, costretti quasi ad un vincolo di “venerazione” nei confronti della donna, ma che al contempo sono capaci anche dell’autoritarismo patriarcale più bieco e violento. È proprio vero che l’ “Idealizzazione” è il vestito della festa che il razzismo indossa per agire indisturbato e invisibile nei pensieri e nelle azioni umane. Uomini-bambini che hanno sempre bisogno di essere “approvati”.
Narcisisti fragili e patetici la cui autostima è funzione del numero di orgasmi che riescono a procurare alle loro donne. Insieme a ideali di donne, dee magiche e meravigliose, dispensatrici di salvezza, ma pur sempre irraggiungibili; virago impietose e perfide profittatrici che “all’uomo di potere perdonano anche l’impotenza”.
Fragili donnine eteree che assumono una falsa aria afflitta di condiscendenza per sopravvivere in un mondo di uomini o per raggirare o per non spaventare gli “uomini-bambini” o forse soltanto per disinnescarne preventivamente l’aggressività. In alternativa all’ “incubo”, vi propongo come rimedio una sorta di rivalutazione in chiave Deleddiana della dimensione corporea (si veda ad esempio “Il paese del vento”, 1931) o il rifiuto di “ideali astratti e mistici… tisici e impotenti” per concedere “una più larga parte alle forze animali e naturali dell’uomo”.
Ovvero, l’esaltazione della dimensione concreta della vita, essenziale ma non povera e tuttavia piena anche di gioia e di responsabilità da vivere con entusiasmo. Ma ammetto che anche questo potrebbe risuonare come l’ennesimo melenso richiamo ad un “volemose bene” generico e fintamente riparatorio o come l’abile (oltremodo “labile”) escamotage di chi pretenderebbe di equiparare i ruoli e le responsabilità di tutti, “carnefici e vittime”. In realtà, si tratterebbe soltanto di un’esortazione a liberarci tutti di certe coercizioni interiori ed esterne e si può farlo soltanto insieme, a quanto pare. Non c’è scampo! E poi, scusate! Che pretendete? L’avevo detto che da certi “labirinti” si rischiava di uscirne con lo scheletro fracassato.