Vaso di Pandora

Femminicidi: la forza del penale, la cultura dei “normali” rapporti uomo/donna

Già alcuni prima di me (Andrea Narracci e Franco Corleone) sono intervenuti in merito alla trasmissione televisiva sul caso di Luca Delfino. Su molti punti da loro sollevati concordo, in specie sui limiti della rappresentazione mediatica e sulle contraddizioni del trattamento penale di Delfino. Scelgo però un diverso punto di partenza della discussione. Luca Delfino ha commesso uno o più femminicidi, si è macchiato di un reato di genere. Ricordiamo che la parola stessa “femminicidio” è relativamente recente (così come i mutamenti legislativi cui si riferiva Corleone): al di là della trascrizione normativa, va ricordato che l’introduzione del termine è il (recente) risultato di una battaglia politico culturale per l’affermazione della differenza nel diritto penale (rappresentato come neutro universale, in realtà discriminatorio e sessista dietro la falsa neutralità: invito a rileggere il bel libro di Tamar Pitch, Un diritto per due. La costruzione giuridica di genere, sesso e sessualità, del 1998. E sottolineo la data di uscita del volume per cogliere il lungo corso della battaglia).

La rappresentazione dei femminicidi

Dunque, Luca Delfino è un femminicida, e nominare con chiarezza questo ci permette di mettere a fuoco un elemento importante di contesto: la rappresentazione del femminicidio e il dibattito pubblico sul tema, notando che i media scelgono di raccontare la questione attraverso storie di donne vittime di femminicidio. Proprio ieri sera ho seguito la prima delle nuove puntate televisive intitolate “Amore Criminale”.

A partire da questo segno di genere, cercherei di individuare le priorità nella riflessione. Per me sono importanti queste domande: per chi (giudici e magari terapeuti) abbiano a che fare coi singoli uomini che hanno ucciso donne, come possono tener conto del contesto culturale sopra descritto del femminicidio? Come questo contesto li aiuta nella comprensione (e poi nel trattamento) di quei particolari uomini che hanno ucciso le loro mogli o compagne?

L’esposizione mediatica del dolore

E ancora: alcune chiavi di lettura “classiche” di temi che hanno dominato e dominano il dibattito in tema di giustizia e carcere reggono ancora, così come “generalmente” inquadrate? Pensiamo ad esempio alla critica verso l’eccesso di esposizione mediatica del dolore delle vittime, giocata per sostenere la risposta ultra- punitiva del carcere: se pensiamo alla violenza sessuale, fino a non molti decenni fa questa era iscritta come reato contro la morale, non contro la persona. E anche le miti previsioni penali erano amministrate in modo tale che gli stupratori la facevano più o meno franca.  

A me non piace affatto il “femminismo punitivo” (intenso nodo di dibattito fra le femministe stesse), lo dico a scanso di equivoci; ma neppure mi piace bollare i familiari e soprattutto le donne (madri, sorelle, amiche) che reclamano voce in luogo di una donna ammazzata dal compagno come gli ultimi arruolati nell’indistinto esercito di quelli che invocano di “buttare via” la chiave del carcere. Insomma, la differenza di genere introduce contraddizioni nel tradizionale modo di discutere sulla “giustizia giusta” che andrebbero meglio esplicitate.

Tornando alla prima domanda, circa la tensione fra il femminicidio (nella sua espressione di fenomeno culturale e di costruzione di reato) e le sue ricadute sul “trattamento” (mediatico, giudiziario, di presa in carico) dei singoli uomini autori di femminicidio: a me sembra (sottolineo il sembra in ottica dubitativa) che proprio questa tensione sia poco presente. E invece ne farei un punto di discussione importante.

Il rapporto fra femminicidi e la normalità dei rapporti

E comincerei col segnalare quella che a mio avviso è una complicazione: il rapporto non semplice fra il reato (che affonda le radici in una cultura patriarcale del “corpo femminile a disposizione”) e la “normalità” dei rapporti uomo/donna. E’ vero che molto è cambiato in quei rapporti “normali”, ma non si può dire che questa antica cultura sia del tutto sconfitta; e neppure si può dire che il nuovo porsi delle donne come soggetto abbia portato a un mutamento radicale del posizionamento maschile, tale da favorire relazioni più soddisfacenti.  O almeno non sempre è così, anche dei cambiamenti in positivo si parla troppo poco. E pure su questi converrebbe scavare di più, se non altro per meglio capire lo stato dei rapporti uomo/donna.

Comunque sia, seguendo il filo della cultura, si può leggere un continuum fra il femminicidio (che sta all’estremo limite di una cultura di sopraffazione) e le relazioni uomo/donna “normali”, poiché anch’esse segnate in modi e livelli differenti dai rapporti storici di potere uomo/donna. Una logica di continuum, giova ripeterlo, piuttosto che di aut aut. In linea di principio, ciò dovrebbe evitare, o almeno indebolire, la “mostrificazione” del femminicida. Ma a contrastare questo movimento, interviene la logica esclusiva del penale: che ha bisogno di identificare in maniera precisa e “oggettiva” il reato e, insieme, di separare l’infrazione dalla norma/normalità. Con la conseguenza di separare nettamente chi viola la norma dalla maggioranza  che la rispettano.

La figura del femminicida

In parole povere, la logica del penale – unita alla volontà di sanzionare un reato che prima non era considerato tale – fa sì che una buona parte dell’opinione pubblica, in primis femminile, cerchi di identificare una figura ben precisa di femminicida, distinta dalla “normalità”: quella del “maschio violento”, del “maschio maltrattante” come pericolo pubblico per le donne: l’anticamera psicologica del maschio che uccide. Che è bene identificare già agli inizi della relazione, e da cui scappare prima che si può, perché “tanto un uomo così non cambia”. E qui, nel discorso dei media, i facili psicologismi si sprecano nella descrizione dei “rapporti patologici e disfunzionali”, quali caselle preordinate per cacciare dentro a forza le particolari esperienze delle persone. Ciò che più mi ha infastidito nella citata trasmissione di “Amore Criminale” è stato l’eccesso di protagonismo di psicologhe e criminologhe a “interpretare” le intenzioni, le motivazioni, i pensieri della vittima.

La preoccupazione pedagogica

Gioca in questa rappresentazione del maschio femminicida anche una preoccupazione pedagogica nei confronti delle donne, in chiave preventiva dei reati: che d’altro canto capisco bene, visto che le istituzioni preposte poco o niente riescono a fare su questo piano.

E tuttavia osservo che dalla psicologia del “rapporto patologico/maltrattante” si scivola facilmente a immagini semplificate e distorte delle relazioni affettive “normali”; peggio, dell’Amore idealizzato con la maiuscola, quali: il vero amore è ben distinto dal possesso, l’amore è volere il bene dell’altro e non il bene di sé stessi. Da Freud in poi, sono teoremi che lasciano perplesse e perplessi. Soprattutto, sono utili alle donne? E ci aiutano a capire quanto succede?

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Commenti su "Femminicidi: la forza del penale, la cultura dei “normali” rapporti uomo/donna"

  1. Concordo con le considerazioni di Grazia Zuffa, soprattutto per quel che riguarda le rispettive posizioni di donna e uomo, viste separatamente.
    Io penso che l’unica possibilità di fare passi avanti passi attraverso il confronto diretto delle rispettive posizioni, situazione per situazione, abbandonando l’idea che sia possibile un confronto tra categorie di appartenenza, fin’ora rivelatasi piuttosto sterile. Si tratta di legami di cui fanno parte due persone che possono cambiare, ascoltando ognuno la posizione dell’altro

    Rispondi
  2. Micidiale intreccio fra desiderio di possesso, rivendicazione di una perduta supremazia, orgoglio ferito, nell’ambito – credo – di una impostazione narcisistica maligna con trasformazione dell’altro in oggetto – sè, e di un malessere con una carica di angoscia confermata dai non rari casi di femminicidio – suicidio. Questo sul piano psicologico individuale; sul piano storico e sociologico, non è passato moltissimo tempo da quando il maschio in virtù del suo ruolo dominante e regolatore si sentiva non solo in diritto, ma addirittura in dovere, come Otello, di uccidere la donna infedele e-o abbandonante. Il marito di Anna Karenina vive il conflitto fra la propria spinta (cristiana?) a capire e perdonare, e il diverso mandato sociale: in quel caso, non invito al femminicidio ma certo a una punizione dell’adultera.
    Sul piano pratico operativo: che fare in situazioni evidentemente cariche di minaccia? La denuncia troppo spesso non serve, e non credo per colpa di chi è chiamato a intervenire. Il divieto di avvicinamento non può impressionare chi è pronto a tutto, anche a devastare la propria vita. Il braccialetto elettronico, se funziona, spesso lo fa quando è tardi per intervenire. Minacce e molestie, pur segnali inquietanti, non potrebbero giuridicamente motivare una reclusione preventiva sine die del reo. Interventi protettivi per la donna, rieducativo – terapeutici per l’uomo: tutte cose da fare, pur se di efficacia a volte incerta.

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