Lavorare in una Comunità Terapeutica richiede, tanto più quanto la struttura è aperta e “leggera” come si dice, competenze relazionali che, seppure necessarie in ogni lavoro sanitario, sono centrali e imprescindibili nell’operare psichiatrico. Potremmo sintetizzare queste doti nel concetto di mentalizzazione, in una particolare accezione però, che è quella di fare esperienza dell’altro come vivente, e quindi con un legame e una reciprocità che ci apre all’essere coinvolti emotivamente, a confrontarci coi nostri difetti (che divengono poi i nostri migliori strumenti di cura e di comprensione clinica), e a volte con i nostri istinti più nascosti.
Questo è particolarmente vero nelle cosiddette Comunità Terapeutiche, dove il contatto è stretto e duraturo e si entra profondamente nelle storie difficili e complesse degli ospiti.
Tuttavia non è il caso di addentrarci qui in una ampia dissertazione su questo tema, che rappresenta un elemento di confronto da sempre, ma vorremmo invece semplificare un po’ il cammino e cercare di identificare alcune caratteristiche che un operatore di comunità deve avere per poter lavorare in struttura e rischiare un po’ meno incidenti di percorso, sempre possibili.
Competenze a caratteristiche dell’operatore per lavorare in comunità terapeutica
Abbiamo visto nel contributo precedente come l’operatore psichiatrico sia un operatore della relazione, e come sia nella relazione che si realizza la sua identità professionale, questo dal medico fino all’operatore socio sanitario. Questo significa stare in una dimensione dialogica, nel senso buberiano del termine, e nel paradigma del vivente, direbbe Bateson.
Ma in comunità terapeutica tutto questo assume delle caratteristiche particolari, legate al fatto che il paziente, o meglio, l’ospite, è meno acuto, e quindi meno diverso da noi, e passiamo con lui molto più tempo che in qualsiasi altro luogo della psichiatria. Questo fa sì che la reciprocità nella relazione è molto più forte, nel bene e nel male, in un luogo dove la dimensione psichiatrica, medica, lascia avanti a sé la dimensione psicoterapica. E questa quella educativa, che diventa quella prevalente, laddove per educativa si intende non tanto la riabilitazione, quanto la possibilità di far fare all’ospite delle esperienze di cambiamento e di crescita personale che emergono dal setting di una vita quotidiana, di incontri e di azioni piccole e ripetute, di affetti e di legami che si creano.
La complessità del lavorare in Comunità Terapeutica
Se si vedono le cose da questo punto di vista, ed è ciò che abbiamo fatto per molti anni, si vede bene quanto sia complesso lavorare in Comunità Terapeutica, e quanto richieda a chi ci opera dentro.
Per aiutarmi a rappresentare le caratteristiche che un operatore dovrebbe coltivare lavorando in comunità terapeutica mi è venuto in aiuto un capitolo di un libro sulle comunità terapeutiche edito da Routledge, in cui venivano definite le caratteristiche principali di un operatore di comunità. Queste caratteristiche erano:
- stare con se stessi
- stare con il paziente
- definire i confini
A queste ho aggiunto:
- autonomia
perché uno degli aspetti specifici per gli operatori del lavoro istituzionale è quello di passare molto tempo senza il medico e quindi dover prendere decisioni in autonomia.
Vediamole un po’ più da vicino.
Stare col paziente
Che effetto mi fa stare con Giovanni? Perché sto bene con Giovanni, che tanti detestano, e invece non mi va tanto di stare con lui, perché è noioso, che invece è così popolare? Questa breve vignetta, fatta di cose che fanno parte della vita istituzionale di ogni giorno, ci dice però tante cose su che cosa vuol dire stare col paziente.
Innanzitutto che non tutti i pazienti sono uguali, ma neanche tutti gli operatori, e ci dice anche che le differenze sono importanti perché ci aiutano nel processo diagnostico, che naturalmente non si riduce ad un inquadramento nel DSM di turno, ma invece serve a pensare al paziente in modo utile. Ma naturalmente parla anche dell’operatore, dei suoi sentimenti positivi verso il paziente, su cui non abbiamo difficoltà, ma anche e soprattutto di quelli negativi, in particolare la rabbia e la pura, ai quali come operatori sanitari non ci sentiamo deontologicamente abilitati, e che invece sono altrettanto importanti, perché conoscerli e riconoscerli ci aiuta ad evitare distrazioni ed agiti pericolosi. E questo ci porta verso lo:
Stare con se stessi
Stare con se stessi significa conoscersi, riconoscere quello che si sente, nei suoi aspetti positivi e negativi, la paura, la rabbia, ma anche il legame e il sentire vicina una persona che sembra così lontana. Rappresenta uno strumento clinico fondamentale, per l’operatore è ancora di più per il gruppo, dal momento che il pensiero comunitario è un pensiero gruppale, non individuale.
Definire i confini
Definire i confini significa sapere che cosa mi sento di condividere di me col paziente, che cosa posso permettermi di fargli sapere me, il mio compleanno, dove vado in vacanza, che libri leggo e così via. Ognuno ha i suoi limiti, oltre a quelli dettati dal buon senso e dalle regole della struttura. Certamente ci sono situazioni, come per esempio in situazioni traumatiche, dove rispettare i confini è fondamentale, per evitare di trovarsi coinvolti in situazioni molto pericolose, è il caso della seduzione per es, i cui confini sono a volte molto labili.
Autonomia
L’autonomia ripresenta una risorsa molto legata al setting istituzionale, che permette di gestire le regole, ed eventualmente le eccezioni in modo sicuro, secondo il detto “a casa si sbaglia sempre ma non troppo”.
Conclusioni
Come vedete si tratta di cose in un certo senso semplici, che sembrano anche un po’ scontate. In realtà sono la base del lavoro insieme in comunità. Perché per essere sviluppate e mantenute hanno bisogno di essere condivise, discusse o meglio dialogate. Ma sono anche la la ragione per cui lavorare in struttura è complesso e richiede delle doti e delle competenze specifiche e in un certo senso sofisticate.
E che cosa richiedono queste competenze? Mentalizzazione innanzitutto, vale a dire la capacità di entrare in relazione con un Altro vivente, e quindi con l’opportunità e il rischio di creare dei legami, ma anche richiedono anche la capacità di guardarsi dentro e di accettare i propri difetti e le proprie fragilità, di riconoscere le emozioni che le diverse situazioni ci suscitano, specialmente quelle negative, e di saper gestire la distanza tra noi e l’altro, a volte compito difficile quando s9no i nostri punti più delicati e fragili ad essere contattati. Tutto questo ci permette di sviluppare e stare in una dimensione educativa, nel senso in cui lo dicevamo prima, una dimensione in cui non veniamo cosi tanto preparati e che dobbiamo sviluppare col tempo, e non da soli.