Commento alla notizia AdnKronos Salute del 25 giugno 2016
A me sembra che di rado il suicidio di un paziente colga totalmente di sorpresa noi operatori psichiatrici: di solito ci sono dei segnali che possono lasciarlo presagire. Ma può essere importante, recuperando esperienze passate, parlare delle dinamiche che ci rendono difficile coglierli e soprattutto fruirne così da organizzare una risposta adeguata al rischio che si sta profilando.
Stiamo parlando della frontiera più inquietante del nostro lavoro, quella che ne mostra i limiti, che sollecita vissuti di inadeguatezza e di colpa. La morte di chiunque ispira sempre questi vissuti: ci rimproveriamo di non averla saputa impedire, ciò che non è poi così lontano dalla fantasia di averla provocata.
Da qui le angosce che si incarnano nella mitologia di minacciosi fantasmi, delle case infestate, degli zombies, dove collochiamo proiettivamente le nostre pulsioni aggressive supposte omicide; da qui, anche, le varie cerimonie funebri, parenti dei cerimoniali ossessivi, che cercano di chiudere i conti con il defunto anche nascondendolo alla vista con vari rituali che non risparmiano postumi elogi, in un tentativo di riparazione.
Le dinamiche descritte acquistano nuove valenze nell’operatore sanitario che ha proprio come mandato centrale la lotta contro la morte; esse hanno dimensioni specifiche nell’operatore psichiatrico. Egli infatti ha a che fare con minacce mortali particolarmente insidiose poichè non provengono dal mondo esterno, ma dall’interiorità del Sé. Viene in mente l’angoscia dell’Innominato magistralmente delineata da Alessandro Manzoni: “Non era la morte minacciata da un avversario mortale anche lui: non si poteva respingere con armi migliori e con un braccio più pronto: veniva sola, nasceva di dentro”.
La conseguente necessità di allearsi con parti sane contro questo nemico interno rende difficile e complessa la nostra risposta, particolarmente quando il rischio mortale è cronico. E’ centrale la qualità del rapporto personale con il candidato suicida, la capacità empatica di non lasciarlo solo in questa sfida suprema.
Centrale dunque il prendersi cura, che può includere anche un incremento delle misure di sicurezza; ma ciò comporta il trasmettere in qualche modo al paziente (ed eventualmente ai suoi parenti) la nostra percezione del rischio. Fino a che punto questa comunicazione – certamente traumatica – deve essere esplicita? L’incremento della sicurezza può giungere fino al ricovero; misura però utile soltanto nelle crisi acute, molto meno nelle condizioni di rischio cronico.
L’uso dei farmaci richiede, come sempre ma particolarmente in questo caso, una accurata valutazione critica; è noto il rischio connesso all’uso degli antidepressivi e anche degli antipsicotici. Ricordo una paziente delirante allucinata che descriveva una tormentosa “orribile voce” . Questa con l’uso degli antipsicotici si è taciuta; ma dopo qualche settimana di “miglioramento” è seguito il suicidio. Forse il collocare proiettivamente l’”orribile” fuori del Sé era la sua sola chance di sopravvivenza.
E ancora: è possibile che il terapeuta si senta impotente di fronte a un paziente la cui vita devastata gli appare, di solito inconsapevolmente, non degna di essere vissuta. Può trattarsi di un controtransfert potenzialmente mortale, che mina l’efficacia dell’intervento curativo e preventivo?
E qui il discorso si salda con quello della liceità etica dell’atto suicida, del diritto al suicidio e addirittura degli interventi di terzi, di quel suicidio assistito che lo rende meno doloroso e in qualche modo lo facilita; più volte ne hanno parlato i giornali, di solito giustificandolo con l’umana esigenza di evitare penosi declini o sofferenze intollerabili, o addirittura implicitamente accostando tali atti ai suicidi etici degli stoici, adeguata conclusione di una vita ben condotta.
Si è trattato di persone ritenute psichicamente sane, e comunque non lontane dalla fine naturale della vita; ma qual è il discrimine? Fra queste persone e lo psicotico grave che cerca la morte con motivazioni da noi non condivisibili, non può non esistere una zona grigia anche abbastanza ampia. Un criterio grezzamente medico – legale che valuti la capacità del singolo di decidere validamente sulla propria vita può avere una qualche utilità pratica; ma non risolve certo la nostra perplessa inquietudine.