Commento all’articolo apparso su La Repubblica il 20 ottobre 2015
ECCO PERCHE’ TUTTO IL MONDO DICE MAMMA (E PAPA’)
L’Autore, l’antropologo Marino Niola, ci fa notare come, sorprendentemente ed eccezionalmente, la parola “mamma” e, un po’ meno, “papà” si ritrovi molto simile o uguale nelle lingue più diverse, anche ben al di fuori della grande famiglia indoeuropea: cinese, samoano, swaili…
Questa parola dunque con la sua universalità potrebbe costituire una eccezione nella analisi del segno classicamente formulata da De Saussure, che indica come il legame fra uno specifico significante – la parola – e il relativo significato – l’oggetto denominato – non sia naturale, non sia necessario, bensì arbitrario.
(Breve e sommario inciso: non è questa, tuttavia, una posizione universalmente condivisa: Rousseau ad esempio indicava la possibile e necessaria derivazione delle parole, per successive modificazioni, da quello che chiamava “il grido di natura”, l’urlo “strappato da una specie di istinto nelle occasioni pressanti, per implorare soccorso nei grandi pericoli e sollievo nei mali violenti”; altri hanno sottolineato la radice onomatopeica di almeno parte delle parole).
Ma, qualunque teoria sposiamo circa l’origine delle parole, ci appare convincente il vedere come arbitrario il loro legame con gli specifici significati: pare mostrarlo l’estrema varietà dei vocabolari propri della diverse etnie. Considerando ciò, la parola “mamma” è un’eccezione.
Riconsideriamo la posizione di De Saussure avendo presenti le persuasive considerazioni di Niola: le vocali “a”, “m”, (e “p”) nascono spontaneamente nei vocalizzi dell’infante, sollecitando nell’adulto un commosso ascolto per questi suoni, il riconoscimento di una parola che anche per lui è stata la prima (e che anche per sua sollecitazione andrà strutturandosi e consolidandosi come termine verbale vero e proprio, elemento di un codice). Ma allora il legame ci appare proprio necessario e naturale, non potrebbe che essere così, in quanto il significante “mamma” nascerebbe inevitabilmente dalle nostre strutture vocali, e non potrebbe essere diverso da com’è: qualcosa di vicino al “grido di natura” rousseauiano. Nulla, dunque, di arbitrario anche nella genesi.
Del resto, non so se la madre reale può essere propriamente definibile come ”significato”, poiché questo è quasi per definizione qualcosa di non immediatamente evidente, che il significante ci indica e cerca di mostrarci; può ciò applicarsi a una presenza totalizzante e onnipresente come la mamma dei primi mesi, che si impone con immediatezza?
E allora: la parola “mamma” fa propriamente parte del linguaggio, riproducendo la sua formulazione più arcaica, e/o se ne trova al limite, vicina com’è alla sfera dei segnali non verbali, carichi di emotività e almeno in parte “culture-free”, un po’ come il riso, il pianto, l’urlo? A differenza delle altre parole, è fondamentalmente a-storica e pre-culturale? Fa parte ancora di quell’ area “naturale” che fa le menti di tutti i lattanti simili fra loro, qualunque sia l’etnia di provenienza? E’ scontato ricordare che soltanto con gli anni gli apporti culturali ne differenzieranno progressivamente i contenuti, almeno i più superficiali, anche con la formazione di diversi vocabolari; si può anche ipotizzare che nel mito della Torre di Babele riecheggi il ricordo di questa vicenda.
Si tratta dunque di una parola particolarmente affascinante e non solo per i lattanti, poiché pare collocarsi al crocevia fra natura da una parte, storia e cultura dall’altro: azzardando un po’, potremmo dire che nasce dalla natura e introduce alla cultura.
In termini più vicini al nostro mestiere, non si può eludere un riferimento al lavoro di Donald Meltzer e al suo discorso sullo sviluppo del linguaggio in “language and psychoanalysis”: in una prima fase il bambino realizza la propria capacità istintuale di realizzare un linguaggio interno destinato a esprimere, all’interno ma anche all’esterno, stati della mente; in una seconda, questo linguaggio si adatta alla descrizione verbalizzata di realtà esterne. Coerentemente, in altro contributo egli cita il tardo Wittgenstein, quando scrisse che le parole non solo significano qualcosa, ma sono legate a qualcosa dentro la persona, qualcosa che dà loro significato. Forse noi possiamo giustificatamente ritenere che la parola “mamma” appartenga ancora alla prima fase e sia quindi necessariamente interculturale, mentre le parole successive, rivolte a una descrizione condivisa della realtà esteriore, sono per ciò stesso aperte agli influssi della cultura di appartenenza che le impone e modella.
Può essere interessante ricordare con Jacobson che un altro campo caratterizzato da non – arbitrarietà è la poesia: dove non è un qualunque significante a rinviare a un significato, ma proprio quel significante che (per caratteristiche, ritmiche, sonore o altro) riesce a rappresentare, ricordare, incarnare meglio quel significato (fra parentesi, ciò ci riporta all’intraducibilità della poesia). Del resto, ancora Meltzer nel chiedersi se sia possibile verbalizzare esperienze che appartengono al periodo preverbale, definisce poetica la capacità dell’analista di verbalizzare le proprie emozioni primitive, il proprio controtransfert. L’emotività primitiva, centro di ogni esperienza significativa, richiede trasformazione in forma simbolica per essere comunicata.
E’ questo che si realizza in quel proto-linguaggio, o pre-linguaggio che è la parola “mamma”, che ci porta anche al bivio iniziale fra linguaggio definitorio-digitale ed espressione poetica?