di Beatrice Morabito e Stefano Pirrotta
Norma Jeane
Ralph e Marilyn, Romeo e Giulietta, l’analista che voleva essere attore e l’attrice che voleva essere mente oltre che corpo.
Con questo intricato scenario, fatto di legami quasi incestuosi, di invidia mista ad ammirazione, simbiosi e giochi di specchi, il legame a doppio filo spinato tra Marilyn e il suo analista (l’ultimo e il solo uomo, a parte il sostituto, il Dottor Wexler, che Greenson scelse per Marilyn quando lui partì, lasciandola, per l’Europa) serpeggia e si fa strada.
Greenson incontra Marilyn in un Hotel e già dalla prima seduta il transfert e il controtransfert è massiccio: i due parlano per ore in una stanza d’albergo anonima e poi, in seguito, in casa di lei, in altri alberghi, in casa di lui: quasi a voler significare che, in un rapporto così arcaico, “padre in Do’ maggiore”, come lui amava definirsi, e figlia piccola e abbandonata, il setting non avesse importanza, come in una recita quasi Beckettiana dove il dolore è espresso in parole e in silenzio, senza necessità di un contenimento oltre.
Letti, sedie, poltrone ma mai un lettino e case, luoghi diversi ma mai un posto definito dove riporre le proprie angosce e mettere i propri pensieri al caldo e al sicuro.
Come due amanti che si lasciano e si riprendono, che si amano ancestralmente ponendo i propri bisogni gli uni negli altri, senza soluzione di continuità e senza possibilità di scissione del legame, Greenson abbandona Marilyn per qualche mese e Marilyn paventa l’ipotesi di abbandonare l’analisi, alla fine.
Marilyn non avrà più altro analista, Greenson tenterà di non soccombere al suo lutto “inelaborabile” scrivendo ma mai direttamente di Marilyn: inizia un libro, vorrebbe parlare di se stesso, della sua scelta di essere medico della mente, del perché ha scelto di non chiamarsi più Romeo (il vero nome di Ralph Greenson era Romeo Greenschpoon), una forma di Diario intimo dedicata a suo padre, lui che si considerava il padre della Monroe, ma non lo termina così come altri scritti sulla difficoltà nel prendere in cura persone ricche e famose o donne che vorrebbero essere attrici, così come un libro sul fallimento dell’analisi: lui, che iniziava le sue conferenze, prima del dolore, la morte e il lutto con un “siete molto fortunati ad essere qui e poter ascoltare me”, non riesce più a rimettere le mani nelle lacrime a rimestare nel dolore suo proprio e quasi simbolicamente, perde quasi del tutto la parola e si ammalerà di “cuore”.
Scrive, invece, completandoli, due libri che rimangono tra i testi fondamentali della psicoanalisi, mostrando la sua grandezza come scienziato e ammonendo circa possibili errori.
Marilyn, da canto suo, lascia invece al Dottor Greenson dei nastri con la sua voce registrata: forse in un ultimo tentativo di mostrare a se stessa e agli altri che può farcela, ora, da sola, forse per tentare di rompere quel legame troppo stretto e concreto e che, a dispetto delle fantasie di entrambi, non potrà mai essere tra padre e figlia, madre e figlia, o forse, come dice lei per “regalare al Dottor Greenson” un nuovo metodo di psicoanalisi che lui poi potrà utilizzare con altri pazienti, Marilyn, sola nella sua stanza, al buio, senza nessun occhio scrutatore, nemmeno quello del suo analista, regala a Ralph le sue emozioni più segrete, i progetti, le sue paure come mai era riuscita prima.
Marilyn che mai aveva conosciuto il padre e che mai ha conosciuto una madre nel vero senso della parola, Gladys fu internata in manicomio sin dalla più tenera età della figlia e le sopravvisse per molti anni, una madre quindi che non può contenere nella sua mente gli elementi frammentati beta della figlia e restituirli come pensieri pensabili, forse non riusciva ad essere veramente libera nelle sue sedute con il Dottor Greenson; dopotutto la figura paterna è all’origine anche dei dettami morali, e davanti ad un padre è complesso parlare di storie di sesso, di uomini, donne, pratiche sessuali che ricordano fin troppo da vicino l’accudimento madre-figlio malato; è complesso mettere in scena il nevrotico “come se” una persona sia come il tuo padre buono quando dentro di Marilyn non vi è nessuna figura di padre buono, ma solo di uomini di passaggio, uomini che la guardano con desiderio ma senza amore.
Solo Joe di Maggio le rimarrà accanto fino alla fine ma lui desiderava lei fosse solo Norma Jeane mentre, ormai, la sua recita era andata troppo oltre e Marilyn non poteva più tornare in dietro, mai più in dietro alla solitudine e alle persone che non sanno della tua presenza; Joe rimase ma il matrimonio naufragò.
Marilyn, che non aveva mai avuto una famiglia, che non riuscì a diventare madre, che non conobbe mai i suoi fratellastri, visse una famiglia che non era la sua, quella di Ralph, e la ferita del non aver avuto mentre altri potevano avere, diventò insanabile: sognava di poter andare a vivere con loro, di poter essere adottata dai Greenson ma come ultima fantasia, prima di morire, raccontò ai suoi nastri che avrebbe voluto rimettere in scena il dramma di “Romeo e Giulietta” : lei sarebbe stata Giulietta e Giulietta, lo sappiamo, muore perché non può avere l’amore che vorrebbe, come Marilyn, e trascina con se Romeo, come Romeo era, in verità, Ralph; lo trascina se non nella morte nel dolore, nella colpa, nelle accuse della stampa, lo rende “assassino” per molti e per molti altri “un uomo ormai invecchiato” che gli amici e pazienti stentano a riconoscere, in un uomo che torna dalla figura materna per essere consolato, accudito, Anna Freud, con la quale continuerà un fitto carteggio per anni e dalla quale riceverà le condoglianze per la morte della sua “paziente”.
Greenson, che era entrato nel mondo del cinema in più modi, dall’essere lo sceneggiatore di “tenera è la notte” di F.S. Fitzgerald (dove ricordiamo che un medico si innamora di una donna mentalmente instabile), dall’aver scritto un romanzo da cui fu tratto il film “Capitano Newman” , che era stato analista di Vivien Leigh, di Frank Sinatra e altri ancora, diventa colui che scandisce la vita di Marilyn dedicandosi solo a lei come farebbe una madre con la figlia piccola, come molti hanno detto in una sorta di “folie à deux”: si può uccidere una persona a forza di cura, disse il Dottor Wexler in una intervista postuma, così come ci si può separare da qualcuno solo morendo.
Greenson fu l’ultima persona a vedere Marilyn viva e fu il primo a vedere Marilyn morta, Greenson che cercava di salvare Giulietta non riuscendoci.
Romeo che nel tentativo di salvare, o non salvare Giulietta, si dimentica di quello che aveva sempre promulgato e inizia a diventare un “medico del corpo” prescrivendo iniezioni, clisteri e non volendo vedere, tollerare, che Marilyn era seguita anche da un altro medico che le forniva regolarmente barbiturici:
Marilyn tra due padri che, non riuscendo a contenerla con le parole, diventano penetranti e penetrativi e somministrano “buone pillole” per sedare il senso di inutilità e incompletezza che, una donna bellissima, famosa, stanca, sofferente, disturbata, abbandonata, come Marilyn riusciva a trasmettere.
Un po’ come una profezia che si autoavvera, come una coazione a ripetere “se mia madre non mi ha amato, nessun altro potrà amarmi, salvarmi” e non ci sono riusciti neppure i suoi ultimi due medici.
Marilyn era un camaleonte, un’attrice che aveva imparato a recitare: recitò con i suoi medici, con l’arcigna domestica e con tutti quelli che la circondarono nei suoi ultimi giorni, una recita perfetta, la sua ultima interpretazione.
Dr.ssa Beatrice Morabito
Mrs. Monroe
La trattazione di questo caso ha suscitato clamore negli ambienti psicoanalitici degli anni ’60 proprio per la metodologia utilizzata durante l’analisi di questa famosa paziente. La storia ha inizio negli anni ’40 quando la piccola Norma Jean Mortenson fu messa alla luce da una madre schizofrenica e da un padre sconosciuto.
L’infanzia della famosa attrice è costellata da lutti per i continui spostamenti da una famiglia affidataria a un’altra e da abusi sia fisici sia sessuali. La storia traumatica di Marilyn Monroe si ripete anche da adulta, poiché avrà svariate storie d’amore deludenti e momenti di solitudine che si trasformano in momenti depressivi. I vuoti dell’attrice sono colmati dai suoi film, dall’essere finalmente una donna amata dal suo pubblico, ciò non basta ancora. Il senso dell’abbandono in Marilyn diventa ingestibile alla fine degli anni ’60, la sua insicurezza e la sua instabilità psichica non le permettono di lavorare serenamente sui set cinematografici, l’insonnia perenne la spinge sull’orlo del baratro. Le sue pillole non sono sufficienti, il dr. Greenson gliene prescrive parecchie ma, non bastano. L’attrice cerca di stordirsi con lo champagne e con i barbiturici ma l’inquietudine diventa ogni giorno maggiore e la divora. Le giornate dell’attrice diventano sempre più lunghe e sembra che la sua vita sia popolata da nemici, emergono i germi della psicosi. L’attrice scrive molto, tiene dei diari dove appunta molti fatti importanti della propria vita, l’aiutano a superare le angosce. Mrs. Monroe nella sua vita sarà analizzata da vari psicoanalisti, in prima battuta si rivolge a Margaret Herz Hohenberg nel febbraio del 1955, su consiglio del suo amico fotografo Milton Greene, così l’attrice a ventinove anni entra in analisi per la prima volta. Anche il suo insegnante di recitazione, Lee Strasberg esortò Marilyn a entrare in analisi a suo modo per farla liberare da certe emozioni inespresse. Le sedute dell’attrice avevano una frequenza di tre, quattro e anche cinque volte la settimana. Nel luglio del 1956 Marilyn si dovette spostare a Londra per girare un film e senza l’appoggio della sua analista e per varie circostanze stressogene il suo umore peggiorava creando molti problemi sul set, a tal punto da dover far venire da New York la sua analista che in qualche modo riuscì a contenerla e a calmarla.
La Hohenberg consigliò a Marilyn di essere seguita in terapia da Anna Freud per ristabilire il suo equilibrio psichico.
La trentenne Marilyn entrò in nuovo rapporto analitico con la figlia di Sigmund Freud. Il lavoro analitico con Anna Freud ha un buon esito sulla salute psichica dell’attrice, piano piano riacquisterà la serenità.
La cartella clinica di Marilyn Monroe conservata nell’archivio di Anna Freud, sintetizza la diagnosi:
“ Emotivamente instabile, fortemente impulsiva, bisognosa di continue approvazioni da parte del mondo esterno; non sopporta la solitudine, tende a deprimersi di fronte ai rifiuti; paranoide con tratti schizofrenici”.
Questa diagnosi puntuale sull’attrice ci fornisce la chiave di lettura per entrare dentro la mente di questa donna fortemente problematica e apre anche la via a una prognosi infausta. La solitudine/depressione sono secondo me i punti cardine dell’esistenza di Mrs. Monroe, tutta la sua esistenza è legata alla ricerca di un oggetto buono che ripara e protegge, ma nella vita dell’attrice esistono oggetti parziali e traumi, abusi e ferite narcisistiche. Sogni terribili e deliri fanno capolino nell’ultima parte della breve vita dell’attrice, proprio a testimoniare la precarietà del suo equilibrio psichico già tracciato da Anna Freud.
L’attrice continua il suo percorso analitico, su consiglio di Anna Freud si farà seguire da Marianna Rie Kris nel marzo del 1957. Anche la Kris era un’altra protagonista storica della psicoanalisi.
Marilyn andava dalla sua psicoanalista ben cinque volte la settimana, quindi parliamo di analisi in piena regola che scava nell’inconscio per farlo emergere, recuperando materiale rimosso. In effetti, la rielaborazione di materiale rimosso è un lavoro duro e impegnativo, non esente da rischi clinici.
In quest’analisi emergono traumi, figure parentali assenti, insomma Marilyn veniva riportata continuamente alla sua infanzia, in realtà un’infanzia surrogata che le procurava ansie e insicurezze.
L’attrice interruppe l’analisi con la Kris alla fine del 1959 quando per motivi di lavoro dovette tornare a Los Angeles. Nel 1960 la paziente ebbe una grave crisi psichica causata, che secondo il suo biografo Donald H. Wolfe, dall’annuncio che John F. Kennedy si sarebbe candidato alla Casa Bianca: in tal modo svaniva la possibilità di poterlo sposare, nel caso JFK avesse mai nutrito qualche intenzione per lei, visto che non avrebbe mai potuto divorziare dalla moglie.
Qui si apre un nuovo scenario, l’attrice era caduta nel baratro e la Kris chiese a Ralph S. Greenson di prendere in cura Marilyn. Nel gennaio del 1960 l’attrice iniziò una nuova analisi con Greenson, uno dei più famosi e accreditati psicoanalisti di Los Angeles. Del dr. Greenson si ricorda oltre all’amicizia fruttuosa con Anna Freud la sua dedizione per la psicoanalisi classica freudiana, ricordata anche dal capitolo sulla psicoanalisi del famoso Trattato di psichiatria di S. Arieti. Lo psicoanalista oltre alla tecnica psicoanalitica utilizzava l’approccio farmacologico, che prescrisse a Marilyn in maniera massiccia. Su consiglio di Greenson anche un altro medico prescriveva i farmaci all’attrice, Hyman Engelberg. Secondo il biografo Spoto, Greenson prescriveva 300 milligrammi di Nembutal per notte a Marilyn (quando per rendere l’idea, ne venivano somministrati 100 ml per due settimane…) Questo approccio risente molto della difficoltà di avere in terapia una donna seduttiva e fragile come l’attrice ma, probabilmente dalla difficoltà di gestione del controtransfert dell’analista.
Marilyn veniva seguita da Greenson quando si trovava sulla costa californiana, mentre continuava con la Kris quando si trovava a New York. Questo inevitabilmente aveva creato una fitta corrispondenza fra i due analisti, cosa che continuò anche dopo la morte di Marilyn. Greenson comunica alla Kris che notava in Marilyn i sintomi della paranoia e della schizofrenia; ricorda che quando Marilyn diventava più ansiosa, scriveva in una lettera si comportava come una bambina orfana, quindi scattava in lei la sindrome della bambina abbandonata che cerca di provocare gli altri per farsi maltrattare e abusare. Questi aspetti sono ricorrenti durante le terapie psicoanalitiche dell’attrice, forse scavare troppo a fondo nel suo inconscio le aveva fatto emergere del materiale difficilmente riparabile se non protetto da una buona relazione analitica forte di un’alleanza terapeutica. Il nocciolo della questione riguarda l’aver portato alla luce ciò che forse andava coperto, questo aveva innescato un crollo psichico. Dopo il fallimento del film “Gli spostati” di John Houston con la partecipazione di Marilyn Monroe e di Clark Gable, l’attrice cade in una crisi profonda, non esce più di casa e dorme in una camera buia imbottita di tranquillanti. Marilyn esce solo per andare dalla sua analista la dr.ssa Kris. Così, il 5 febbraio del 1961 la Kris ritenne opportuno e necessario ricoverare l’attrice nella Divisione di psichiatria dell’ospedale di New York. Fu rinchiusa a chiave in una camera con le pareti imbottite. Dai racconti durante quel ricovero emergono aspetti inquietanti dell’attrice, urlava e sbatteva i pugni contro la porta per uscire, fu legata parecchie volte con la camicia di forza. Tale ricovero fu breve in quanto Marilyn riuscì a scrivere una lettera agli Strasberg chiedendo loro aiuto. In tal senso gli Strasberg contattarono Joe Di Maggio e attraverso pressioni sulla dr.ssa Kris riuscì a portarla via da lì dopo pochi giorni. L’ex marito dell’attrice si rese conto del precario stato psichico di Marilyn e la convinse a ricoverarsi nell’Istituto di Neurologia della Columbia University, presso il Presbyterian Hospital Medical Center. Dove Marilyn vi rimase dal 10 febbraio al 5 marzo 1961. La cosa interessante che Marilyn, prima di uscire da questa clinica scrisse una lunga lettera a Greenson (riportata per la prima volta nella biografia di Spoto del 1993), in questa lettera l’attrice parla delle violenze subìte e dell’indifferenza dei medici alla sofferenza dei pazienti. Questa lettera probabilmente convinse Greenson a riprenderla in terapia, ciò fu per entrambi un’escalation distruttiva. All’inizio le sedute erano due o tre alla settimana, poi le sedute divennero più frequenti ( non solo una volta al giorno, ma anche due volte al giorno per quattro-cinque ore di seguito, senza contare le continue telefonate). Marilyn divenne un componente della famiglia Greenson a tutti gli effetti, si fermava a pranzo da loro e strinse amicizia con i due figli della coppia Greenson. Il rapporto tra analista e paziente aveva ormai attraversato un setting stabile e controllato e si era trasformato in un setting mobile e altamente a rischio. L’invischiamento tra analista e paziente era ormai evidente e il vortice in cui erano entrati entrambi non permetteva una frenata d’arresto. L’attrice pare dai racconti viveva Greenson come un padre protettivo e forse si trovava con lui in una situazione simbiotica, in cui non c’è distinzione tra sé e l’altro. L’analista viveva Marilyn come una donna seduttiva ma anche come una bambina fragile da proteggere. Questi elementi clinici appena indicati non sono segni prognostici favorevoli, bensì forieri di sventura analitica. La soggettività dell’analista è un aspetto da non sottovalutare nella relazione analitica poiché gli aspetti intrapsichici e interpersonali s’intrecciano durante la terapia, esiste un transfert costruito soggettivamente dalla coppia analitica. Aggiungerei a questi elementi il fatto che l’analista non possiede solo una soggettività assoluta, ma può in alcuni momenti analizzare oggettivamente i processi intrapsichici del paziente, questo elemento però sembra sfuggire al dr. Greensoon, nel senso che in prima istanza non formula mai una vera diagnosi su Marilyn e le sue discussioni orientate analiticamente sia con Anna Freud sia Con la Kris sembrano uno sfogo ad un carico troppo grande da sopportare. Sembra che la diade analitica (Greenson/Monroe) dopo circa 30 mesi di “analisi” sia una folie à deux, dove l’uno e l’altro si fondono in una entità dal funzionamento globale e anomalo. Le aspettative dell’analista e i bisogni dell’analista fanno parte di quella soggettività che citavo prima, anche se Bion ci insegna “ senza memoria e senza desiderio”, si incorre sempre in qualche modo alla difficoltà del controllo del setting e della gestione transferale del paziente e della nostra gestione contro-transferale. Ad esempio i bisogni dell’analista se poco visti e analizzati durante un trattamento possono portare a esiti negativi della stessa terapia. Nel caso di Greenson dove apparentemente vive una vita esemplare con sua moglie e i suoi due figli potrebbe celarsi una profonda insoddisfazione sentimentale e sessuale tale per cui l’analista può ricercare nella paziente Marilyn un bisogno disperato di essere amato.
Un esempio storico importante è dato dal rapporto disperato di Elma Palos con Sándor Ferenczi, in cui l’analista perse la testa per la propria paziente, questo esempio chiarifica la situazione in cui spesso i figli che crescono con il ruolo di genitori e quindi hanno avuto il compito di sostenere l’autostima dei propri genitori offrendo amore e adorazione, nella situazione analitica questi pazienti rintracciano immediatamente il bisogno dell’analista di essere amato e desiderato. In effetti Marilyn ha una madre inesistente, ricoverato da sempre in ospedali psichiatrici, deve rianimarla tutte le volte che la incontra. Questa celebre paziente comunica spesso il bisogno disperato di essere “vista” emotivamente dalla madre che ella definisce “morta”. Desidera essere accarezzata, toccata come tutti i bambini che ricevono amore dalle proprie mamme. Greenson dichiara più volte di essere stato un padre per Marilyn, anche qui s’innesta qualcosa di incomprensibile per la paziente poiché lei non ha mai avuto un padre, bensì una madre “morta” e una famiglia inesistente dentro di lei. Greenson le offre la sua di famiglia, ma non sappiamo se Marilyn ne aveva realmente bisogno? Durante i lunghi mesi di trattamento Greenson non accennò mai a un possibile errore di tecnica volendo accogliere Marilyn all’interno della propria famiglia, escluse il transfert erotizzato e non riconobbe la voracità infantile della paziente. Quindi la paziente non raggiunse quella indipendenza di pensiero ma era incastrata dalle maglie di una relazione pericolosa con il suo analista. Quando l’attrice morì tragicamente nell’agosto del 1962 Greenson dichiarò: “Era diventata mia figlia, il mio dolore, mia sorella, la mia follia”.
Dr. Stefano Pirrotta