Una donna uccide a coltellate il figlio tredicenne.
È una paziente psichiatrica seguita (?) da un servizio di salute mentale.
È stata abbandonata dal marito.
Le assistenti sociali le vogliono togliere il figlio.
L’abbandono è la sua morte.
Uccide il figlio… Fa notizia.
Andrà in carcere o più probabilmente in una comunità.
Non sarà più sola
Vivrà …………..
Un tragico prezzo pagato a causa della incapacità di com-prendere.
Possiamo dire che la signora non è stata adeguatamente seguita dal Servizio di Salute Mentale, e che neppure del ragazzo ci si è occupati adeguatamente, perché avrebbe dovuto essere allontanato prima.
Ho lavorato per quasi trent’anni nei servizi consultoriali, a contatto con i problemi della genitorialità sanamente nutritiva e di quella tossica, delle relazioni genitori figli da sostenere e rafforzare come di quelle da interrompere senza esitazione. Nella mia lunga carriera, ho persino incontrato una coppia che si era “lanciata” il neonato in un momento di grave conflitto.
Credo che noi tutti avremmo bisogno è, come vado ripetendo da anni, di una “semeiotica delle relazioni parentali” che possa essere ampiamente condivisa, affinché ogni decisione in merito al proseguimento di un affidamento dei bambini a uno dei due genitori o ad entrambi, a una famiglia esterna o a una comunità, non dipenda troppo dal giudizio soggettivo di operatori sanitari, sociali e giudiziari, che spesso agiscono in base a pregiudizi e a simpatie o antipatie personali.
Sul versante della collaborazione fra Servizi, troppo spesso ci sono conflitti fra Salute mentale adulti e servizi per minori: molte volte mi sono sentito chiedere di non dar parere favorevole all’allontanamento di un bambino da un genitore psichiatrico o tossicodipendente per non compromettere il percorso terapeutico di quest’ultimo. E altrettante volte ho dovuto ribadire con forza, persino di fronte a magistrati minorili, che un bambino non è un farmaco né un trattamento psicoterapeutico per genitori patologici.
Occorre una cultura traumatologica e vittimologica per generazioni vecchie e giovani di psichiatri e psicologi ancora troppo influenzati dalla tradizione “endogena” della psichiatria (anche psicodinamica) otto-novecentesca, resa anche più inutile dal passaggio effimero dei vari DSM II, III, IV e ora V, sistema già agonizzante prima ancora di nascere.
Partiamo dal presupposto che quella in questione sia una persona sola, preda della propria solitudine. Nessuno l’ha guardata questa donna. Abbiamo fuggito il suo sguardo e quello di suo figlio. Due domande mi vengono in mente: 1) Chi prende in carico la solitudine? 2) Questa morte si poteva evitare? Se siamo tutti d’accordo che trattasi di “morte evitabile” (e di “omicidio evitabile”)allora si tratta di una morte dovuta a ignoranza,verosimilmente (Ignoranza degli addetti alla salute mentale? Ignoranza della società? Ignoranza della famiglia? Ignoranza della scienza psicologica e medica?): forse era una donna depressa; forse tutt’ora non ci capiamo granché della depressione (e della solitudine). Ci chiediamo sempre “ma com’è potuto accadere?… Come è stato possibile non accorgersi di nulla?…Come ha potuto commettere un atto così efferato e nonostante fosse seguita da un’istituzione?” Quanti sono i soggetti problematici che sfuggono alla conoscenza dei servizi territoriali? La “sofferenza mentale” per la sua “incomprensibilità” per la sua complessità rischia di essere ridotta nuovamente nell’immaginario collettivo a “male sacro”. Qualcosa come un destino, una cosa che ti viene e basta perché era dentro di te, perché è nella genetica, perché te la sei voluta, perché gli dei sono capricciosi e beffardi. La sofferenza mentale,il “dolore” umano non hanno nulla di sacro,ovvio,ma hanno “struttura naturale e cause razionali”, ma l’opinione pubblica meno preparata a trattare certa materia “percepisce” nell’azione di quella madre soltanto un atto di irrazionalità, talmente innaturale da sconfinare nel soprannaturale, quasi, perchè alla fine non c’è spiegazione plausibile, perchè nessuno ha potuto farci niente (torniamo a quel genere di ignoranza che faceva risalire all’ultraterreno le ragioni di tutti gli avvenimenti). Quindi chi prende in carico la solitudine? La “tecnica medica” degli spdc? I DSM”? Sono queste in prima battuta le risposte migliori alla solitudine e/o alla “depressione”?
Certi presidi territoriali forse non possono farcela da soli, non bastano; forse sono mal organizzati, forse mancano di mezzi e personale, ma non voglio discutere di questo. Di certo è un lavoro immane che forse non gli compete neanche, o meglio sono forse più utili quando i buoi sono scappati dal recinto. Più adatti a trattare le acuzie. Ma i casi come quello citato dal Prof. Giusto sono destinati fatalmente a sfuggire all’osservazione puntuale di questo tipo di organizzazione territoriale della “salute mentale”, secondo me. Oppure bisogna anche e soprattutto forse riconsiderare più modestamente l’insieme delle “condizioni ambientali in cui si realizza l’esistenza umana”? Allora, introduco un po’ di sana “utopia natalizia” rispolverando qualche scampolo di filosofia del liceo classico.
Platone utilizza il concetto di Ippocrate di “salute” nel senso di “armonia delle forze del corpo” come metafora dell’armonia della città, così come la malattia dell’individuo diventa allegoria del disfacimento del corpo sociale. Platone un “sistemico” ante litteram?
Secondo il concetto platonico di democrazia così come il corpo si fonda su un equilibrio di forze così la democrazia è sostenuta da una sapiente suddivisione e mutuo bilanciamento dei poteri (il sistema dei pesi e contrappesi). Insomma, la salute del corpo passa per la salute della “città”? Allora, se vogliamo curare la “sofferenza mentale” dobbiamo aver miglior cura della democrazia?
E sia utopia, allora! Sostituiamo i “Servizi territoriali della salute mentale” con i “Servizi ambientali di ecologia del benessere psicofisico”, una sorta di trait d’union tra le scienze umanistiche, le scienze sociali e le scienze mediche 😥 Adesso, non voglio scadere nel sociologismo spicciolo perché se è vero che non siamo isole, è altrettanto vero che organismo e ambiente sono in perenne osmosi. So bene che come “operatore della salute mentale” devo agire sull’individuo o sui “sistemi di individui”, tuttavia prima o poi dovremo porci seriamente il problema come “operatori della salute mentale individuale” di come esercitare al meglio anche o forse soprattutto le nostre responsabilità collettive.
Comunque tranquilli! Le utopie, lo sappiamo, non sono obiettivi realistici: sono soltanto dei modelli ideali da contrapporre allo squallore della realtà quotidiana. Sono stimoli! Esortazioni a rendere sempre migliori la qualità e il tempo della vita umana (quotidiana).
Questioni interessanti le tue, caro Spada. Ma proviamo a procedere con ordine.
Tu parti dall’ipotesi che sia un dramma della solitudine; ma la solitudine è endemica, mentre il figlicidio, fortunatamente, no. Qual è quindi i’elemento che fa la differenza? Non credo si approdi a nulla, se si procede in questa direzione.
Poi tu prendi in considerazione la “depressione”, e qui entriamo nel campo delle categorie diagnostiche. Tutti sappiamo che cos’è la depressione, dalla melanconia degli antichi ai lavori di Freud e Abraham alle moderne declinazioni dei disturbi maggiori e della plurigettonata “bipolarità”. Ma si va da qualche parte procedendo in questa direzione? Siamo sicuri che non sia proprio il nostro approccio diagnostico, oggettivante e classificatorio, a portarci fuori strada? Tu dici, molto giustamente che l'”incomprensibilità” della “malattia mentale” ci porta, anche in questo secolo di certezze scientifico-tecnologiche, verso una rivisitazione del “morbo sacro”. Sacro: cioè intoccabile, inavvicinabile, impenetrabile come il mistero dell’Incarnazione. Niente quindi che sia passibile di indagine scientifica. Perché il problema è tutto lì: la sofferenza mentale diventa incomprensibile a causa del nostro modo di guardarla, di osservarla, e quello fatto di classificazione e di comparazione è un metodo sbagliato, produttore di errori o, nel migliore dei casi di non-scoperte. Le nostre diagnosi psichiatriche sono pure convenzioni che non dicono nulla, ma servono soltanto a confermare il nostro ruolo sociale di curanti. Solo l’osservazione in profondità, fatta di identificazione con il soggetto, di empatia e di relazione curante-curato può portarci da qualche parte.
Io, per esempio, vorrei conoscere la storia remota di questa donna, per comprendere se, come ipotizzo, ha agito qualche conflitto sorto nell’ambito della propria infanzia, magari avendo introiettato il modello operativo di una madre violenta o abbandonica. Mi dirai: e una volta appurate queste cose, che me ne faccio? Ci sono tante vie di accesso a un problema, soprattutto se il è multistratificato: c’è una madre, c’è una famiglia, c’è un padre, c’è un bambino: tutti possibili punti di attacco dell’azione clinica. Naturalmente ogni intervento di psicologia clinica necessita di un grado minimo indispensabile di compliance, in mancanza del quale nulla si fa. Però, si può diagnosticare lo stesso, senza pretendere di modificare. E in mancanza meglio, si procede con decisione mettendo in salvo il figlio. Il rischio più probabile è che attorno a questo caso i colleghi si siano affaccendati senza costrutto, guardando, descrivendo, ritirandosi dietro le incombenze burocratiche e non assumendo responsabilità, contenti di scrivere una diagnosi conforme alle categorizzazioni ufficiali. Abbandonando tutto il resto al destino.
Poi, per quanto riguarda il tuo (benvenuto) utopismo democratico-ecologistico-filosofico, si può, anzi si deve essere come tu dici. Avendo però l’avvertenza di non sconfinare nell’universo delle generalizzazioni, ma focalizzando lo sguardo sui microcosmi che chiamano in prima persona l’esperienza relazionale del paziente, a cominciare da quella che si svolge fra noi e lei/lui.
Sarebbe bello continuare la discussione (in altra sede, magari), ma non voglio rischiare di ridurre questo importante tema a un discorso a due tra me e il dott Guasto. Quindi, da ora in avanti mi tacerò. Tuttavia, approfitto biecamente un’altra volta del mezzo per interloquire ancora con il Dott. Guasto intanto perché mi trovo ancora sostanzialmente d’accordo con lui e un po’ perché mi preme riaffermare che non ho mai avuto l’attitudine per la “categorizzazione manualistica”, spesso inutile, della sofferenza umana. Lungi da me la fissazione per le classificazioni e se ho dato questa impressione me ne dispiace. Ho parlato di solitudine perché ho sentito in questa storia come in altre simili un senso di abbandono: una persona abbandonata a se stessa dal marito, in questo caso, dalla famiglia tutta verosimilmente, dal suo “ambiente” forse e dalle istituzioni probabilmente. Quindi una persona isolata più che sola. Sono convinto che qualcosa non ha funzionato nella presa in carico di questa donna. Propongo, sulla scia di quanto già espresso dal dott Guasto un punto di vista. Probabilmente la relazione tra “l’istituzione” e questa particolare persona si è bloccata; e si è bloccata perché si è marcata una distanza irreparabile tra il linguaggio narrativo utilizzato verosimilmente dalla donna che ha tentato di esprimere tutto il proprio “dolore” e il “linguaggio” pseudoscientifico del DSM IV utilizzato dall’istituzione. Forse l’istituzione non ha mai guardato al “dolore” di questa donna, ma al “male”del suo corpo. Non due entità (pz-istituzione) che cercano di approdare ad una“comprensione”reciproca,ma da un lato l’operatore della salute mentale che “manuale alla mano ha capito tutto”, che diventa mero burocrate della dottrina che propugna,e dall’altro la paziente,spogliata della sua soggettività che diviene un oggetto analizzato, omologato, un mero caso clinico, “da manuale”, appunto. Imponendo “al corpo e al suo dolore” quel percorso senza uscita che è l’oggettivazione specialistica è come se “l’istituzione”avesse obbligato “la donna impreparata ad imbattersi nella morte”. Come se l’avessero colpita a morte nella sua identità. Quindi, una persona questa che ancora prima di uccidere aveva fatto lungamente esperienza della morte. Non sto parlando della sua morte in senso stretto come fatto reale,ma di quella cosa terrificante che deve essere stata la sua“esperienza del morire”, quella “consapevolezza di scomparire”ogni giorno a poco a poco, verosimilmente, agli occhi di tutti. Voglio dire che reificando la sua esperienza, circoscrivendo la sua narrazione ad una “diagnosi specialistica” (qualunque essa sia stata) è come se al contempo l’avessero sminuita togliendo dignità al suo dolore. I tecnicismi dei manuali classificatori possono andar bene per intenderci tra noi“operatori della salute mentale”,eventualmente,ma non ne sono nemmeno tanto sicuro: il linguaggio è importante; le parole condizionano il pensiero e le azioni conseguenti;quindi, se il linguaggio non è adeguato “l’istituzione” “pensa male” e rischia di “agire” pure peggio; e comunque, in generale, non è mai è molto igienico spiattellare certo linguaggio ad una persona che sta facendo lo sforzo,cum timore et tremore multo,di sintetizzarti tutta la difficoltà della sua esistenza,io penso. A nessuno fa piacere identificarsi con una diagnosi. E per una persona che “muore ogni giorno” non deve fare molta differenza tra la vita e la morte neanche dei congiunti più cari. Quello che insegna questo caso come altri simili è, secondo me, che facciamo ancora una maledetta fatica a conseguire quella strabenedetta e straventilata “integrazione delle competenze” che abbiamo studiato a scuola e ciò avviene dalla più “sperduta” miniequipe di una qualsiasi comunità di riabilitazione e cura fino ai massimi livelli organizzativi dei sistemi della “salute mentale”. Il problema delle istituzioni non è che esistono “linguaggi” differenti tra gli operatori. È bene che ci siano visioni differenti del mondo e produrre differenti linguaggi non vuol dire che essi siano in contraddizione necessariamente. Il problema è di trovare il modo di comunicare più efficacemente tra i diversi “codici”. È il prevalere di un “linguaggio” sugli altri che crea sfracelli, secondo me. È sconfiggere il narcisismo nell’istituzione l’obiettivo principale di ogni efficace presa in carico se vogliamo rendere un buon servigio alla sofferenza umana, secondo me
Caro Spata, non ho minimamente pensato a una tua particolare predilezione per le classificazioni. Volevo soltanto registrare il fatto che tanti nostri colleghi si affidano soltanto a quelle. E ho scritto sotto la vivace impressione lasciatami dalla lettura dell’editoriale di Pier Francesco Galli “L’anatra zoppa: DSM 5 e crepuscolo del diagnoticismo”, pubblicato sul n. 4 2014 di Psicoterapia e Scienze Umane, appena uscito. Un testo che vale la pena di leggere e meditare.