Commento all’articolo di C. Morvillo del 14/11/2018
Donne più empatiche, uomini più razionali: quasi un luogo comune, come rileva la stessa giornalista; o al contrario mito da sfatare, secondo alcune frange femministe più oltranziste, portate a considerare ogni differenza di genere come artifizi sociali.
Certo non tutti i luoghi comuni sono sbagliati. Un gruppo di ricercatori di Cambridge ha, a quanto pare, dimostrato la differenza in una imponente popolazione di ben 670.000 persone sottoposte a specifici test on line. La cosa non sorprende.
Di fatto, la donna è necessariamente chiamata a un compito, biologico e sociale a un tempo, fondamentale per il primo sviluppo della prole: quello di cogliere i bisogni somatopsichici dell’infante, nella indisponibilità del futuribile linguaggio verbale. In ciò è insostituibile, almeno per un bel po’; e deve esercitare una particolarissima forma di conoscenza.
Bion chiama rêverie il processo per cui nella mente di lei viene dato un significato all’esperienza del bambino, rendendo quindi possibile anche per lui l’iniziale sviluppo della capacità riflessiva sugli stati mentali. Rêverie, sogno, poiché il suo contenuto non ha né potrebbe avere precisa corrispondenza con una qualche realtà “oggettiva”: si tratta di un approccio che potremmo, un po’ coraggiosamente, definire come proto-costruttivista: una conoscenza che almeno in parte crea la realtà più che scoprirla.
E’ evidente il collegamento con l’empatia, con la capacità di comprendere e con quella funzione conoscitiva che prende il nome di teoria della mente; anche se è evidentemente complicato il rapporto fra l’esperire il proprio stato mentale e il comprendere quello degli altri, che forse al bisogno richiede a ciascuno di noi l’attivarsi di una sorta di nuova rêverie; processo che si fa evidente in particolare nella mente dell’analista al lavoro.
Tutto ciò si articola con topiche centrali anche per la nostra operatività nella salute mentale: il problema del rapporto e contrapposizione fra conoscenza obbiettivante e intersoggettività, e in qualche modo fra i diltheyani e jaspersiani Erklaren – spiegare razionalmente istituendo rapporti di causa – e Verstehen – comprendere: siamo quotidianamente portati, e direi costretti, a passare dall’uno all’altro approccio, integrandoli quando possibile; e questo ovviamente vale tanto per gli operatori quanto per le operatrici.
Per Dilthey la realtà umana, quale appare nel mondo storico sociale, è tale che noi possiamo comprenderla dal di dentro, perché possiamo rappresentarcela sul fondamento dei nostri propri stati. E’ dunque aperta al Verstehen, contrapposto all’Erklaren: concetti ripresi e sviluppati in campo psichiatrico da Karl Jaspers, che ormai fanno stabilmente parte della nostra cultura.
Comprensione non equivale ad empatia, perché nella prima operazione si mantiene chiara la distinzione fra me e l’altro; il concetto di empatia invece include una più spinta condivisione. Tuttavia anche il comprendere – dice Dilthey – è un ritrovamento dell’Io nel tu. Ma questa concezione comporta anche un rischio: se spinta all’estremo, potrebbe giustificare una falsa comprensione, un attribuire all’altro ciò che è esclusivamente mio (forse nel nostro lavoro può capitarci, soprattutto riguardo i rispettivi bisogni).
Al particolarissimo rapporto madre – infante appare meglio aderente la concezione di Max Scheler, fondatore del moderno pensiero fenomenologico da affiancare a Husserl: la comprensione è fondata sul rapporto simbolico fra le esperienze interne – Erlebnis – e la loro espressione, come il pianto del bambino: una sorta di grammatica universale.
Giustamente gli psichiatri hanno introdotto il concetto di rêverie, in quanto non corrisponde esattamente a quello di comprensione né a quello di empatia: è il tentativo di rispondere a una realtà mentale – quella dell’infante – che ci è in larga parte ignota, e che siamo portati a ritenere più informe della nostra.
Ma torniamo all’articolo. Come per tanti altri aspetti, anche per la segnalata differenza di genere – che il citato lavoro ha il merito di riconfermare su solide basi statistiche – si pone il problema della sua origine, congenita o socioambientale. Gli stessi ricercatori aprono a un’ottica evoluzionistica, che tende a superare questa alternativa: una qualità presente in pochi individui, pressoché casualmente e funzione di un sostrato biologico, diviene poi prevalente nella popolazione col succedersi delle generazioni, perché funzionale alla sopravvivenza della specie. E’ questo che è accaduto nella specie umana? Creando una differenza di genere incrementata solo successivamente, nei ben più rapidi tempi storici, da una pressione sociale volta a sottolineare e rafforzare ruoli differenziati?
La fondamentale capacità materna di comprendere resta comunque decisiva per il futuro del figlio. Il positivo rapporto con la madre, alimentato dalla consapevolezza di esser capiti, lo rende, ora e da adulto, attrezzato non solo a vivere con gli altri ma pure a sperimentare positivamente, quando occorre, anche una esperienza di solitudine nel senso caratterizzato da Eugenio Borgna, cioè definita nella relazione con l’altro; il che non avviene in quello che Borgna definisce isolamento. Nella solitudine, che può essere altamente creativa, si continua ad essere aperti al mondo delle persone e delle cose, e anzi al desiderio e nostalgia di mantenersi in una relazione significativa con gli altri; e questo in antitesi all’isolamento, che si definisce meglio come solitudine negativa, e in cui si è chiusi in sé stessi, perduti al mondo e alla trascendenza nel mondo: se vigliamo tornare a una denominazione clinica, la condizione autistica.