Vaso di Pandora

Talking with Voices: gli attori rinnegati

“Era come se ci fosse un manoscritto in un armadio buio e qualcuno lo avesse illuminato con una torcia” (Middleton et al., 2022, p. 5).

Sentenza e grazia, pena e tutela: voci che denigrano per non essere denigrate; voci che aggrediscono perché frutto di un’aggressione. È questo il provocatorio quadro psicotico che origina dal pensiero di Romme e Escher (2000): le ingiurie di cui tali voci disturbanti sono responsabili non sarebbero altro che strumenti, mezzi utili alla protezione ultima di un individuo oppresso. Allontanandosi da una visione prettamente medica, che individua il nucleo di tali esperienze allucinatorie in disfunzioni cognitive e percettive, gli autori restituiscono spessore ontologico ad una condizione che per quanto inusuale rivela una sua dignità di esistenza contestuale, calata in un vissuto di sofferenza primigenia. 

Posta la perturbante forza di tale affermazione, allora la drammatica violenza di tali voci assume un valore radicalmente contrario a quello convenzionalmente accettato: non carnefici, ma redentori di una vita precocemente sottratta all’innocenza da mani compromettenti. 

È questo il presupposto fondante che ha promosso la nascita di un innovativo approccio terapeutico alla psicosi, Talking with Voices (Longden et al., 2021), un ambizioso progetto recentemente oggetto di analisi qualitativa ad opera di Middleton e colleghi (2022). Ammettendo che le voci non siano semplici conseguenze di deficit percettivi, prive di qualsivoglia valore esistenziale, allora sembra lecito indagarne la natura: gli autori ipotizzano che esse siano riflesso di parti dissociate del sé, frutti di tragici errori nell’incontro umano. Mani abusanti, occhi trascuranti, infrangono colpevolmente la tacita promessa nascosta nello sguardo ingenuo di un bambino; costringono ad una frammentazione così radicata da lacerare l’integrazione in divenire, determinando in ultimo una compartimentazione strutturale utile alla sopravvivenza in un mondo condiviso. È così che, nello sguardo ingenuo di un bambino, si incarna il suo aguzzino; per sottrarlo alla vista l’innocente si vedrà costretto a chiudere gli occhi a quella parte del sé non riconosciuta né accettata: dissociata. 

Eredi di indicibili sofferenze, tali voci riflettono dunque quella stessa furia che ne ha cagionato la comparsa: alimentano un teatro di violenza che quotidianamente si rinnova. Se ne distaccano tuttavia, giacché è nei loro natali sbagliati che risiede la forza difensiva: da testimoni inermi di soprusi divengono custodi attivi, impegnati affinché l’innocenza sfiorita venga relegata nel passato. Con la sola presenza testimoniano un nucleo confuso di emozioni mai elaborate, nodi sospesi nell’evoluzione. Con la loro tenacia si fanno garanti di un apparente equilibrio della mente proteggendo l’ascoltatore da incursioni esterne; si fanno carnefici quando erano stati vittime, si fanno giudici quando erano stati giudicati (Longden et al., 2021; Moskowitz et al., 2017).

“Sembrava che finalmente qualcuno volesse ascoltare il nostro dolore, perché stavamo soffrendo. Anche Jackie non lo sapeva [prima del dialogo]. Era come se ci fosse un manoscritto in un armadio buio e qualcuno lo avesse illuminato con una torcia” (Middleton et al., 2022, p. 5). 

Una finestra aperta sul tormento, il riconoscimento di un dolore che per quanto frammentato ed intangibile non perde dignità d’esistenza, dignità d’espressione: questo è l’ambizioso progetto proposto da Talking with Voices. Un approccio sperimentale questo, in cui le voci vengono considerate sé dissociati e dialogici: divengono oggetto di cura, di impegno e di comprensione in quanto portatrici di sofferenza e di prospettive potenzialmente innovative. Essendo infatti intimamente in relazione con l’ascoltatore e con il suo dolore, esse assurgono a ruolo di interlocutori capaci di fornire punti di vista alternativi, osservazioni e chiarimenti preziosi al processo terapeutico. Nondimeno tali voci spesso vengono percepite, da chi le sperimenta, come entità autonome con cui l’ascoltatore intrattiene una relazione: il confronto aperto e dialogico tra componenti dissociate e non dissociate del sé, è stato dimostrato, appare in grado di favorire una positiva interazione tra le parti, diminuendo il conflitto e promuovendo un ascolto empatico. (Longden et al., 2021; McCarthy-Jones, 2012). Una comunicazione questa che sovente appare irraggiungibile in assenza di sostegno terapeutico: incalzati da una tragica sofferenza accade spesso che gli ascoltatori rifiutino la presenza delle voci, che rinneghino il loro valore. Come un uomo inascoltato si leva alto tra gli altri per invocare il proprio diritto di parola, così tali voci ignorate si innalzano a giudici ostili pur di essere considerate. Pertanto nel loro strenuo tentativo di tutela, maggiore è l’insistenza che applicano maggiore è il rifiuto che viene loro riservato (Romme & Escher, 2000); come affermato da Mosquera e Ross (2017) infatti: “Qualsiasi approccio che implichi l’eliminazione delle voci o l’ignorarle, crea solo più conflitto interno.” (p. 168). E allora, se ciò è vero, può la psichiatria assumersi la responsabilità di alimentare questo circolo vizioso persistendo nel trascurare la prospettiva di chi, in quel quadro psicotico, ci risiede? Cos’è una pratica terapeutica se non un mezzo atto all’alleviamento della sofferenza umana, piuttosto che al soffocamento del supplizio personale? E come operatori siamo forse giustificati, in funzione del desiderio di cura, a volgere lo sguardo altrove e perseverare ingenuamente nel percorso designato? Rivolgendoci con occhi sgombri a quel quadro polifonico che è la psicosi potrebbe essere possibile sottoporre l’attuale panorama terapeutico ad un riesame strutturale. 

Il recupero psicotico infatti potrebbe non risolversi necessariamente in un’interruzione dei sintomi clinici quanto piuttosto in una rivitalizzazione del legame esistente tra voci e ascoltatore (Romme et al., 2009); il progetto Talking with Voices si pone tale obiettivo. Lo studio ha dimostrato, a livello qualitativo, come incoraggiando la comunicazione tra le parti del sé sia possibile migliorare sensibilmente la qualità della relazione intercorrente e correggere eventuali comportamenti disfunzionali mediante la comprensione empatica delle prospettive di ciascuno. In una partecipazione attiva e genuina laddove ogni componente del sé apre gli occhi alla gemella inesplorata. Rivelare che le voci non sono né carnefici spietati né afinalistiche forze aggressive; esse sono custodi incolpevoli, guardiani di sconfinate sofferenze cui tentano di porre rimedio salvaguardando con ogni mezzo chi ne è portatore. Compiendo questo passo, forse, il circolo vizioso di violenze e soprusi potrà essere interrotto. 

Un principio cardine della pratica psicologica afferma che le parole possono tanto distruggere quanto salvare; parliamo dunque, con chi una voce non la ha per restituire l’esistenza a chi, quella voce, l’ha persa. 

Bibliografia

Longden, E., Corstens, D., Morrison, A. P., Larkin, A., Murphy, E., Holden, N., … & Bowe, S. (2021). A treatment protocol to guide the delivery of dialogical engagement with auditory hallucinations: Experience from the talking with voices pilot trial. Psychology and Psychotherapy: Theory, Research and Practice, 94(3), 558-572.

McCarthy-Jones, S. (2012). Hearing voices: The histories, causes and meanings of auditory verbal hallucinations. Cambridge University Press.

Middleton, K., Cooke, A., & May, R. (2022). “It allowed us to let our pain out”: perspectives from voice-hearers and their voices on the ‘talking with voices’ approach. Psychosis, 1-13.

Moskowitz, A., Mosquera, D., & Longden, E. (2017). Auditory verbal hallucinations and the differential diagnosis of psychotic and dissociative disorders: Historical, empirical and clinical perspectives. European Journal of Trauma and Dissociation, 1(1), 37–46. https://doi.org/10. 1016/j.ejtd.2017.01.003

Mosquera, D., & Ross, C. (2017). A psychotherapy approach to treating hostile voices. Psychosis: Psychological, Social and Integrative Approaches, 9(2), 167–175. https://doi.org/10.1080/ 17522439.2016.1247190

Romme, M., Escher, S., Dillon, J., Corstens, D., & Morris, M. (2009). Living with voices: Fifty stories of recovery. Ross-on-Wye, UK: PCCS.

Romme, M., & Escher, S. (2000). Making sense of voices: A guide for mental health professionals working with voice-hearers. London, UK: Mind Publications.

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Commenti su "Talking with Voices: gli attori rinnegati"

  1. Rileggo attentamente e credo che il mio ragazzo, ormai giovane adulto, sia stato spesso accompagnato da queste voci, ma non se ne è mai parlato nè con lui, nè con i suoi curanti e forse lui ne è rimasto imbrigliato? Rileggo attentamente e spero che trovi qualcuno che lo aiuti a gestirle senza timore e senza vergogna. E rileggo ancora e invito anche voi a rileggere
    Una comunicazione questa che sovente appare irraggiungibile in assenza di sostegno terapeutico: incalzati da una tragica sofferenza accade spesso che gli ascoltatori rifiutino la presenza delle voci, che rinneghino il loro valore. Come un uomo inascoltato si leva alto tra gli altri per invocare il proprio diritto di parola, così tali voci ignorate si innalzano a giudici ostili pur di essere considerate. Pertanto nel loro strenuo tentativo di tutela, maggiore è l’insistenza che applicano maggiore è il rifiuto che viene loro riservato (Romme & Escher, 2000); come affermato da Mosquera e Ross (2017) infatti: “Qualsiasi approccio che implichi l’eliminazione delle voci o l’ignorarle, crea solo più conflitto interno.” (p. 168). E allora, se ciò è vero, può la psichiatria assumersi la responsabilità di alimentare questo circolo vizioso persistendo nel trascurare la prospettiva di chi, in quel quadro psicotico, ci risiede? Cos’è una pratica terapeutica se non un mezzo atto all’alleviamento della sofferenza umana, piuttosto che al soffocamento del supplizio personale? E come operatori siamo forse giustificati, in funzione del desiderio di cura, a volgere lo sguardo altrove e perseverare ingenuamente nel percorso designato? Rivolgendoci con occhi sgombri a quel quadro polifonico che è la psicosi potrebbe essere possibile sottoporre l’attuale panorama terapeutico ad un riesame strutturale.

    Il recupero psicotico infatti potrebbe non risolversi necessariamente in un’interruzione dei sintomi clinici quanto piuttosto in una rivitalizzazione del legame esistente tra voci e ascoltatore (Romme et al., 2009); il progetto Talking with Voices si pone tale obiettivo. Lo studio ha dimostrato, a livello qualitativo, come incoraggiando la comunicazione tra le parti del sé sia possibile migliorare sensibilmente la qualità della relazione intercorrente e correggere eventuali comportamenti disfunzionali mediante la comprensione empatica delle prospettive di ciascuno. In una partecipazione attiva e genuina laddove ogni componente del sé apre gli occhi alla gemella inesplorata. Rivelare che le voci non sono né carnefici spietati né a finalistiche forze aggressive; esse sono custodi incolpevoli, guardiani di sconfinate sofferenze cui tentano di porre rimedio salvaguardando con ogni mezzo chi ne è portatore. Compiendo questo passo, forse, il circolo vizioso di violenze e soprusi potrà essere interrotto.

    Un principio cardine della pratica psicologica afferma che le parole possono tanto distruggere quanto salvare; parliamo dunque, con chi una voce non la ha per restituire l’esistenza a chi, quella voce, l’ha persa.

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  2. Questo contributo è, innanzi tutto, un utile pro-memoria. Purtroppo, ci capita ancora di fantasticare l’allucinazione come una sorta di intrusione aliena, dimenticando che è la persona a produrla: nasce dal suo mondo interno, ed è necessariamente portatrice di senso anche comunicativo. Ne era ben consapevole già Freud, che pure l’ha trattata molto di striscio. L’avvicinava, ben giustificatamente, al sogno; e non diversamente da questo, la riteneva espressione di esperienze infantili rimosse nonchè di un desiderio riemerso e allucinatoriamente appagato. “Dove finora pareva regnasse il capriccio più bizzarro, il lavoro psicanalitico ha indicato la presenza di un ordine…”
    Ma si è fermato a questa consapevolezza e affermazione di principio, anche perchè pensava che la condizione psicotica fosse psicanaliticamente intrattabile. Molta acqua è passata sotto i ponti, e si sono sviluppati importanti trattamenti relazionali delle psicosi; ma molta strada è ancora da fare. Suscitano dunque il più vivo interesse le prospettive aperte da contributi come questi, che Martina Papi ci segnala nel suo brillante lavoro.

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  3. del contenuto delle voci mi parla a volte Valter con pudore, a volte riusciamo a parlarne … molto più che in passato.. mi sussurra il contenuto il colore a volte drammatico a volte rassicurante …alcune volte è semplice trovare il filo come quando si racconta un sogno. E’ delicato ascoltare le voci e poterne parlare , difficile..se sono frastornanti se le tiene me ne parla in un altro momento.
    Molto bello questo articolo.

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  4. A mio avviso, un importante limite della medicina occidentale è quello di porre un eccessivo focus sul sintomo, vedendolo come il protagonista del malessere del paziente e pertanto come il target sui cui incentrare l’intervento. È importante non dimenticare che agire in una direzione effettivamente terapeutica significa avere cura della PERSONA (e non del sintomo).
    È giusto che il sintomo, anziché come un male da estirpare, possa essere piuttosto interpretato come un segnale, un’indicazione, una richiesta d’aiuto da parte di un corpo (fisico o psichico che sia) che ha bisogno di cure. In quest’ottica, sarà il “Bianconiglio a guidarci fino alla sua tana”, ovvero sarà il sintomo ad aiutarci a raggiungere il nucleo del problema da cui origina e proprio giungendo ad esso sarà possibile un reale intervento terapeutico, in cui una volta risolto lo squilibrio alla base del sintomo si potrà annullare la funzione/utilità di quest ultimo (in quanto non avrà piú nulla da segnalare) creando i presupposti per una remissione spontanea.

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