Recensione della Redazione al libro di Rossella Valdrè
Questo volume pur nelle ridotte dimensioni può considerarsi un vero e proprio trattato sulla sublimazione e sul suo mutevole ruolo nello sviluppo teorico e pratico della psicanalisi.
Ricco, articolato e scrupolosamente documentato com’è, pone un compito improbo al recensore, perché commentarlo senza appiattirsi sui suoi contenuti vorrebbe dire aggiungervi qualcosa di rilevante, il che non è semplice.
Come umile lavoro di servizio, cercherò di fornirne una sintesi, inserendo alcune mie notazioni personali da non psicanalista, cui per chiarezza e correttezza darei una veste tipografica diversa e riconoscibile.
Il testo inizia con la constatazione della penombra che oggi avvolge il concetto di sublimazione, e col chiedersi se essa sia davvero scomparsa, come potrebbe far pensare il quasi silenzio seguito ai frequenti riferimenti di Freud, tali da farla ritenere un concetto fondamentale. Questa evoluzione o involuzione ha radici sociali oppure interne all’andamento della teorizzazione psicoanalitica?
Una parte importante della riflessione è la particolare attenzione riservata dall’A. al problema di uno dei prodotti della sublimazione: la ricerca scientifica e artistica. Perché, si domanda citando Blass, l’individuo dovrebbe cercare il piacere del conoscere, anche considerando che per Conrotto vi è una differenza sostanziale fra amore e conoscenza? Ma mi chiedo se questa differenza non si sfuma pensando che è forse nel rapporto d’amore che si può conoscere più a fondo una persona. Nella Bibbia, “egli la conobbe” indica l’incontro sessuale, e solo da poco è desueto il termine “conoscenza carnale”. D’altronde l’A. cita, in altre pagine, il concetto Meltzeriano di “conflitto estetico”, in cui al piacere immediato del rapporto con il seno subentra il desiderio inappagato di sapere “cosa c’è dentro”. E lo stesso Blass parla di “carving for knowledge” implicando quindi una forte spinta pulsionale verso la conoscenza e chiedendosi come sia possibile conciliare la necessaria distanza implicita nella sublimazione con la passione del conoscere, concettualizzata fra gli altri dalla Klein col termine di pulsione epistemofilica (e da Lacan con quello di pulsione scopica?) Vario l’equilibrio fra le due componenti nelle più alte (già) espressioni della nostra cultura. Nella ricerca scientifica sembra prevalere (ma solo in apparenza) la sublimazione, mentre la dimensione passionale si espande in pieno nella creazione artistica e in parte nell’esperienza religiosa, nel ventaglio che va dal pacato ragionare di Tommaso a quello di Agostino, appassionato e ricco di folgoranti intuizioni, fino alle esperienze dei mistici dove domina la spinta pulsionale, a volte francamente erotica.
Ciò ci porta al rapporto fra sublimazione e sessualità, forse necessariamente ambiguo. L’A. cita Green: “Da una parte appare come un destino della pulsione sessuale, una forma epurata che ha il proprio posto tra altri destini possibili, ma che resta nel patrimonio di Eros; dall’altra, essa ne è la controparte avversa…”.
Altra topica in discussione: la sublimazione è un processo tutto intrapsichico, solitario del soggetto o dipende dalla relazione con l’oggetto, col primo oggetto materno? (si può ritenere questo problema molto generale, riguardante l’intero accadere mentale). Laplanche analizza a fondo questo punto, proprio collegandolo al primo rapporto con la madre, complicato fra l’altro dalla sessualità incosciente dell’adulto. Rifacendosi anche a Kaes, l’A. ritiene che la capacità di sublimare si giochi da subito, dagli stadi più precoci e quindi legati alla primissima relazione d’oggetto. Se il messaggio enigmatico, ossia l’investimento sessuale del bambino da parte della madre è stato eccessivo e ha superato le capacità della psiche di tradurlo in simbolico, verranno a mancare i passaggi che consentiranno un giorno la sublimazione.
Ciò introduce al discorso sul trauma, e del suo rapporto con sublimazione e creatività. Perché, se un eccesso di trauma infantile rende impossibile la sublimazione, nella biografia di tanti grandi artisti si ritrovano eventi traumatici? Ciò è possibile a seconda della resilienza del singolo artista. Possono, credo, esser presi in considerazione non soltanto eventi tramatici infantili o comunque parte di storie individuali, ma anche la partecipazione a tragedie collettive estreme: ricordo il Primo Levi di “questo è un uomo”, il Rigoni Stern di “Il sergente nella neve”; “Il Ponte sulla Drina” di Ivo Andric, che elabora il genocidio di Visegrad perpetrato sui bosniaci.
Tuttavia – l’A. cita Lowenfeld – il trauma che, trasformato, dà luogo alla creazione artistica è invece precoce e inconscio; e perché i suoi esiti sono così diversi, dalla follia alla perversione, alla creazione su un fondo di sostanziale sanità, alla mancanza di vera creatività? Questo intreccio ha interessato gli psichiatri da molti decenni: ricordo solo il saggio di Jaspers su Strindberg e Van Gogh, presentato in Italia con l’accattivante titolo “Genio e follia”.
Molti sono gli artisti che si muovono sullo stretto sentiero (l’immagine si deve a Munch) fra sublimazione creativa, perversione, follia rasentata o vissuta a pieno titolo. Un compromesso “ragionevole” è quello realizzato da Klimt, che è rimasto “solo” nevrotico. Se lui è discretamente riuscito a sublimare la sua ansia, credo anche perseguendo una grande eleganza formale pur spinta fino a una forma di manierismo non esente da aspetti ossessivo – compulsivi, il suo “gemello” Schiele manifesta direttamente l’angoscia con le sue figure contorte e disperate. Quanto al rapporto con la perversione, si evidenzia come non raramente essa si intrecci a estetismi frutto di una idealizzazione mal riuscita, come in grandi quali Wilde, Mishima, Pasolini, Visconti. Infine, nella creazione non raramente è presente una dimensione melanconica: l’artista la proietta nei suoi personaggi descritti come vuoti, alla ricerca di senso, perseguitati dal nulla: a Kafka e Sartre l’A. ne aggiunge molti altri. Val la pena elencarne un po’ per mostrare come in grande maggioranza appartengano al ‘900: Musil, Proust, Camus, Becket, Pavese, Wolf, Rilke; anche se nei secoli andati non manca qualche importante personaggio come Torquato Tasso o, a modo suo, Giacomo Leopardi (o magari Lucrezio?). Ciò pone il problema del rapporto fra la dimensione personale e quella socioculturale: è la nostra epoca che ha smarrito l’ancoraggio a orizzonti di senso, illusori o reali? E forse l’artista e lo scrittore possono essere significativi soltanto se, anche per interiori ragioni personali, diventano le cartine di tornasole di questo collettivo vissuto di smarrimento?
Restando in tema, un intero capitolo è dedicato a due grandi figure che l’A. sceglie come esempio di sublimazione riuscita nell’opera artistica: Leonardo ed Emily Dickinson.
Torniamo al dubbio introduttivo: l’A. considera la sublimazione più che mai attuale, situata com’è fra il polo sociale , in quanto condizione dell’esistenza stessa di una civiltà con il relativo “disagio” freudiano, e quello individuale, dove fra l’altro è condizione necessaria alla cura analitica. Donnet afferma che la stessa sopravvivenza della psicoanalisi è legata alle possibilità sublimatorie che consentono di porsi ideali sempre più “elevati” di conoscenza; anche se A. Green avanza critiche su tale presunta elevatezza.
Mi si permetta a questo punto una digressione sul significato del termine “sublime”. Per quanto ne so, esso è stato impiegato per la prima volta da un Autore non identificato del primo o secondo secolo D.C., noto come “pseudo Longino”, ma in accezione non tanto estetica o etica quanto retorica: sublime è lo stile capace di coinvolgere e sedurre l’ascoltatore (lezione questa fondamentale per l’uomo politico …) Saltando un po’ di secoli, si giunge nel Settecento a Edmund Burke con la sua distinzione fra bello e sublime che sarà fatta propria dai romantici. Ma prima di questi ultimi, a Kant opportunamente citato dall’A. va affiancato il contemporaneo Schiller il cui Inno alla Gioia, gloriosamente messo in musica da Beethoven, è anche un inno al sublime: ”intuisci il tuo creatore, mondo? Cercalo sopra il cielo stellato! Sopra le stelle deve abitare!”. Quando l’Unione Europea ha scelto questo pezzo come proprio inno ufficiale, ha adottato solo la musica, e credo giustamente: con l’aria che tira, ci mancava che l’inno europeo fosse in tedesco!
Sublime: un superlativo di “alto”, implicante dunque quella polarità alto – basso che tanta parte ha nei nostri schemi di pensiero, nel nostro immaginario, nel linguaggio, in una serie di dicotomie che accolgono l’equazione ( non dimostrata) “alto = migliore”: finalità e aspirazioni alte o basse; cielo e inferno (sinonimo di inferiore); Sua Altezza; superiore e inferiore; soprastante o sovrintendente vs sottomesso. Ciò potrebbe avere origine da parallela polarità presente anche nel nostro soma, poichè la testa è in alto, i genitali in basso; e si pensa che l’umanità sia divenuta tale quando si è “alzata” in piedi. Il concetto implica una graduatoria anche di valori, e dunque un giudizio morale di stampo ancora ottocentesco? Del resto, l’A. cita Loweald , critico verso questa supposta maggiore elevatezza di alcune mete e attività rispetto ad altre, che sarebbe in gran parte illusoria; e in altre pagine ricorda che già la definizione di higher implica un lower, e addita i rischi di una deriva pedagogica estranea alla psicoanalisi.
Questi dubbi hanno radici lontane. Di fatto, proprio mentre il concetto di “sublime” si affermava, qualcosa cominciava a minarlo, in un processo storico che nulla ha di lineare. La rivoluzione francese rimescolava le carte, rendendo meno rigida la stratificazione sociale in classi superiori e inferiori. Hegel proponeva il suo aforisma del servo e del signore: il primo, pur sottomesso, è il più importante dei due perché potrebbe fare a meno del signore che gli è “superiore”, mentre non è vero il reciproco: il signore dipende dal servo per la propria sussistenza. Si può trovare qui il capo di un filo di pensiero che condurrà a Marx con la teoria del proletariato, classe “inferiore”, di “servi”, che diviene protagonista della Storia; e con l’irrilevanza della sovrastruttura in confronto alla basilare struttura economica. In conseguenza di questo apporto, e non secondariamente anche di quello psicoanalitico, nel mondo moderno l’accento si è ormai spostato da ciò che è superiore e superficiale a ciò che è fondamentale e profondo: a ciò che sta “sotto”, in quella che è stata anche chiamata cultura del sospetto. La psicoanalisi fa parte a pieno titolo di questo movimento: si pone come psicologia del profondo, e forse ciò rende inevitabile l’incerto destino della sublimazione, quale delineato magistralmente in questo testo. E’ il concetto stesso di “elevato” e di “sublime” che è oggi in discussione, tanto che lo si impiega con qualche reticenza, e non raramente in accezione ironica e in qualche modo diffidente.
L’A. non trascura certo la storia del concetto di sublimazione, a partire dal suo impiego nella chimica, dove designa il passaggio diretto dallo stato solido a quello gassoso: implica anche in tale contesto uno slancio verso l’alto. E’ proprio derivandolo dalla chimica che Freud fa proprio il termine: come il solido diventa gas, così la pulsione sessuale diviene qualcosa di diverso e di più elevato. Fondamentale l’opera “Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci”, che tratta di come, tramite la sublimazione, l’energia sessuale si trasformi in brama di sapere e in creatività artistica. E’ infine con “Il disagio della civiltà” che la sublimazione chiude il suo cerchio, rendendo possibile la stessa costruzione di una civiltà e la sicurezza che ne costituisce il principale beneficio. Ma, ammonisce Freud, ciò non è senza costi: “ Presta il suo aiuto la sublimazione delle pulsioni. Viene ottenuto il massimo allorché si riesce ad accrescere in misura sufficiente il piacere tratto dalla fonti di lavoro psichico e intellettuale” Ma “…questa gioia ci sembra più fine ed elegante ma, a paragone di quella derivante dai moti pulsionali più rozzi, primari… la sua intensità è minore: non scuote la nostra esistenza corporale”.
Seguono i riferimenti a Fenichel, a Glover, a Rosolato, e infine alla Klein, nella cui opera di fatto il concetto di sublimazione viene sostituito da quello, diverso, di riparazione. L’A. cita Bott Spillius: “la riparazione è distinta dalla sublimazione, che coinvolge lo scambio costruttivo di impulsi libidici e aggressivi in attività più simboliche. La riparazione ha certamente a che fare con questi impulsi ma consiste nella fantasia di aggiustare gli effetti di queste componenti aggressive”. Si allontana ulteriormente dalla impostazione freudiana Winnicott, anche se “spazio potenziale” e “area intermedia” si considerano sede dell’esperienza culturale. Bollas si occupa dell’esperienza estetica, nutrita di memorie arcaiche soggette non tanto a sublimazione ma a trasformazione; concetto che non può non ricordare Bion. Loweald torna a parlare di sublimazione, ma come ritorno verso una unità originaria, non recuperata tale e quale ma come creazione di una nuova differente unità. L’A. rileva che anche questa riconciliazione è qualcosa di oscuramente più “elevato”. E’ la scuola francese che ha mantenuto il concetto di sublimazione, mentre altrove il pensiero psicoanalitico lo ha di fatto abbandonato, lasciando il terreno pulsionale a favore o del rapporto con l’oggetto d’amore (riparazione), o dei processi di pensiero (trasformazione), o tentando una sintesi (riconciliazione). Non si può ignorare Lacan, che afferma come ci possa essere arte, creazione, se ci si tiene a distanza dal reale della “Cosa” (Das Ding). L’oggetto non è la Cosa; ma la sublimazione realizzata nell’arte, nella scienza e nella religione lo eleva alla dignità della Cosa.
Nella riflessione su metapsicologia e clinica psicoanalitiche, l’A. delinea il sottile confine fra sublimazione, con la sua carica di rinuncia, e pulsione di morte. Si chiede poi quanto abbia ancora da dire la psicoanalisi nella odierna civiltà dei consumi, che pone il soddisfacimento pulsionale quasi come obbligo. Passando ad aspetti schiettamente clinici, cita Freud che indica la sublimazione come meta difficile da perseguire nella cura, in quanto se i nevrotici ne fossero capaci non sarebbero tali. Il perseguirla ad ogni costo potrebbe essere espressione di un bisogno narcisistico dell’analista. Occorre dunque stare in guardia contro l’”ambizione educativa”, consistente nell’attribuire al paziente desideri e scopi che sono in realtà nostri: ciò, credo, ci riporta a considerare la dimensione valoriale e in qualche modo etica in cui può introdurre il termine “sublimazione” . Ne segue una discussione sul più ampio tema del controtransfert, introdotta anche con due tranches di analisi, e sulla necessità che il terapeuta abbia sotto controllo propri desideri, frustrazioni , bisogni che potrebbero interferire. E infine, annotazioni sulla fine analisi, da non confondere con il concetto di guarigione.
Il discorso sulla prassi psicoanalitica conduce l’A. a chiedersi se la psicanalisi si possa considerare una forma d’arte, e la sua risposta è affermativa. Sulla base teorica del concetto meltzeriano di conflitto estetico, che riconosce l’esperienza della bellezza come essenziale nel primo rapporto con il seno, l’A. si rifà a Williams Harris per riconoscere aspetti comuni alla psicanalisi e alla creazione artistica: la presenza di una struttura simbolica che trasmetta ciò che è altrimenti inesprimibile, e la capacità di suscitare empatia. Se in questo lavoro l’analista deve poter fare a meno della continua presenza di oggetti di soddisfacimento, ciò ci riconduce al concetto di sublimazione.
Ma cosa accade alla sublimazione in era postmoderna? È scomparsa, ha esaurito la sua funzione o ha solo cambiato aspetto? L’A. ritiene che i mutamenti storici, economici e sociali intervenuti non siano favorevoli alla sublimazione, e a tutto ciò che implica delle rinunce. Il soggetto contemporaneo tende alla soddisfazione immediata del bisogno, ad appropriarsi di oggetti intercambiabili e immediatamente disponibili: ciò si può evidenziare con plastica evidenza in situazioni cliniche come le tossicodipendenze, ma è un atteggiamento prevalente nella attuale nostra collettività. A livello, invece, della evoluzione teorica della psicanalisi, poichè la sublimazione è frutto di un destino diverso della pulsione, se declina l’interesse per il mondo pulsionale e il simbolico declinerà essa stessa. A livello infine delle varie realtà cliniche, viene citato Conrotto che ha evidenziato come la rimozione ceda oggi progressivamente il passo al rigetto, concetto freudiano progenitore di quello lacaniano di forclusione. L’impulso non è rimosso né trasformato, viene semplicemente espulso, tema ampiamente ripreso da Bion. Non c’è spazio per l’attività sublimatoria, che condivide così il triste destino della soggettività.
Di fatto, non si può non sottoscrivere il programma di “promuovere un rinascimento del valore dello psichico, e quindi ancora del soggetto, rispetto all’oggetto puramente sensoriale”. Quanto quest’ultimo tenda a sopraffare l’attività mentale appare clamorosamente in realtà come quella delle discoteche dove alla stimolazione erotica si aggiunge una alluvione di rumori, invasiva al limite del dolore, e la cui sola motivazione comprensibile sembra proprio quella di impedire di pensare. Al contrario, ruolo del pensiero e della cultura è orientare l’individuo, fornirgli senso di sicurezza e coordinate stabili tra bene e male, distinguere fra i sessi (vale la pena di parlare della c.d. teoria del gender?), per non scivolare nella perversione o nel caos psicotico.
Tema immediatamente legato è quello che l’A. chiama “il paradosso della libertà”: la cosiddetta cultura dei diritti ha anche esteso l’illusione che tutto debba essere appagato, che attraverso la soddisfazione diretta dei desideri ci si debba realizzare. Questo diviene un obbligo paradossale: un “devi essere libero, contento e appagato” che, mutatis mutandis, richiama alla mente il doppio legame dei sistemici. Un tempo, trasgredire era cosa un po’ luciferina, esibente con orgoglio una mal frenabile spinta vitale e istintuale, e anche intellettuale come nel libertinismo. Oggi al contrario trasgredire all’obbligo di godere comporta il riconoscimento di una mortificante inadeguatezza. Non manca la sanzione per questa: il secolo appena trascorso ha fra l’altro coniato il termine “nerd” che designa il classico ragazzo magari intelligente e tecnologicamente preparato ma impacciato, poco socievole, in difficoltà con le donne, occhialuto, oggetto di larvato disprezzo.
Questo atteggiamento fa parte della serie di nuovi miti elencati dall’A. e dotati di valenza normativa: l’obbligo di esprimersi e quasi esibirsi condividendo realtà interiori, quello di socializzare, quello di restare giovani, quello di vivere una illusione di uguaglianza. Ciò sottolinea la storicità del mito, che secondo Roland Barthes è “una parola scelta dalla storia”, beninteso intendendo per “parola” ogni unità o sintesi significativa, verbale o visiva che sia.
Si ravvisano in questa situazione aspetti allarmanti: se alla rinunzia sublimante non si concede un risarcimento, il rischio è quello di un diffuso odio per la cultura che avvii a una possibile distruzione della civiltà, con liberazione di pulsioni distruttive e crescente corteggiamento della pulsione di morte (v. Tomasi di Lampedusa:”tu, zione, corteggi la morte”).
Domanda conclusiva da un milione di dollari: “che ne è della verità nel postmoderno?”. La relativizzazione di essa, con appiattimento di tutto in apparente egualitarismo uccide la cultura delle differenze e della specificità che, fra l‘altro, attiene alla psicanalisi. Rispetto a tale relativismo, l’altra faccia della medaglia è l’emergere di nuovi radicalismi, accolti nella ricerca di quello che Bolognini chiama “protettorato di un Super-Io”, magari rigidissimo (almeno nell’ apparenza mediatica) come quello imposto dal c.d. Stato islamico. Se l’emergere di questo è storicamente comprensibile come espressione di un mondo che cerca in valori arcaici e immutabili la guida a una rivincita dopo secoli di inferiorità e soggezione, più criptica è l’adesione che esso ottiene da alcuni giovani nati e cresciuti nel nostro mondo, e non sempre originari di “quell’altro”: forse questo volume aiuta a comprendere anche questa destabilizzante realtà.
L’A. definisce i mutamenti in atto come una inquietante deriva, non nasconde la propria nostalgia per una realtà diversa. Forse la psicoanalisi, da destabilizzante forza di cambiamento, è divenuta elemento di conservazione? Beninteso, questa non è né potrebbe essere una critica (fra l’altro presuntuosa), e “conservatore” non è una parolaccia: Visnù il conservatore non ha minor dignità rispetto a Shiva il distruttore. Comunque l’A. tocca questo punto nelle conclusioni, dove implicitamente lo riconosce come possibile rischio, e in alternativa prospetta una rinnovata vitalità della psicoanalisi: se si proporrà di nuovo quale scandalosa novità come al tempo di Freud, mantenendo una posizione critica e di confine e rivendicando la propria priorità come interprete dell’immaginario, della fantasia, del sogno, affronterà la sfida che le pongono oggi l’affermarsi del paradigma cognitivista – farmacologico e i mutamenti del complessivo panorama socioculturale.