Commento alla notizia apparsa su La Repubblica il 29 marzo 2016
Sono note da molti decenni le correlazioni fra malattia coronarica e disturbi depressivi, manifestatisi prima di un infarto o invece insorti successivamente.
In questo secondo caso la derivabilità psicologica appare più immediata: c’è evidentemente da attendersi una risposta depressiva o a tipo disturbo postraumatico da stress acuto dopo un evento che ha messo fortemente a rischio la vita, che può ripetersi in qualunque momento, che può limitare le possibilità e prospettive esistenziali.
Ciò, anche senza considerare il posto che il cuore ha nel nostro immaginario come sede, nientemeno, dell’amore e anche del coraggio, parola che etimologicamente ne deriva.
C’è da chiedersi il perché: per la sua posizione fisicamente centrale nel corpo? Perché basta una sua piccola lesione a provocare morte immediata? Perché la tachicardia da emozione è immediatamente avvertibile dal soggetto?
Il discorso sarebbe lungo e potrebbe aiutare, dal punto di vista psico-antropologico, a fare un po’ di luce sul rapporto che lega i disturbi depressivi e la predisposizione all’infarto. Necessariamente, qui entra in gioco un terzo fattore, il tipo di personalità.
Già nel 1959 Friedman e Rosenman avevano identificato uno specifico tipo psicologico, denominato “tipo A”, come particolarmente predisposto alla malattia coronarica, e caratterizzato da alta competitività, ipereccitabilità, iperattività, forte atteggiamento critico, ricerca incessante del successo, impazienza, fretta di realizzare, forte senso della responsabilità e dell’urgenza; aspetti questi confermati da Kemple, mentre è più variegata la descrizione di Kaplan.
Secondo Autori come Hahn, Glass, Falgan e tanti altri si delineerebbe un rischio di infarto quando le difese contro l’angoscia tenderebbero a cedere lasciando il posto a stati d’animo depressivi e ansiosi; dati questi confermati da una serie di studi sia retrospettivi che prospettivi.
Anche la ricerca recente si occupa del problema, in gran parte con l’uso di rating scales. I dati più convalidati parrebbero: la depressione anteriore all’infarto sarebbe più frequente in età medio-giovanile, ma ad ogni età il livello di depressione dell’umore è predittivo dell’infarto e di un cattivo esito; inoltre, la preesistenza di un episodio depressivo ritarderebbe la ripresa del lavoro dopo l’episodio, mentre più malcerto è il ruolo dell’ansia; secondo alcune ricerche sarebbe addirittura fattore prognostico favorevole, forse perché sollecita maggiormente l’intervento.
Quanto al decorso postinfartuale, la letteratura recente conferma la frequenza della risposta depressiva e il suo impatto sull’esito e sulla successiva disabilità. Ma non pare che i farmaci antidepressivi, pur abitualmente ben tollerati (specie i SSRI) siano utili: forse lo sono di più gli interventi di crisi e di empowerment, gli interventi cognitivo-comportamentali, una regolare attività fisica. Anche se a quanto pare la depressione è più frequente nelle donne, la sua correlazione con la cattiva prognosi sarebbe più evidente negli uomini. Comprensibilmente, essa è maggiore in età più avanzata. Anche dopo bypass sono più frequenti gli incidenti vascolari ed è in genere peggiore l’esito in presenza di depressione e ansia. Particolarmente negativa la risposta a tipo di disturbo postraumatico da stress acuto, predittiva di un aumento della mortalità. Fattore significativo nel decorso post infarto lo stato socioeconomico: esso influisce direttamente sulla salute fisica, e anche sulla salute mentale tramite la mediazione di fattori emotivi.
In considerazione di tutto ciò, la American Heart Association ha raccomandato un sistematico screening per la depressione nei pazienti cardiovascolari, conseguendo tuttavia solo modesti miglioramenti nella depressione post infarto.
Nulla di nuovo dunque negli studi epidemiologici come quello riportato della American Geriatrics Society; e neanche nel riconosciuto ruolo di quel fattore di rischio che è l’ipertensione, notoriamente modulata anche da fattori emotivi. Molto meno scontata, almeno per i clinici, la segnalazione di una base genetica comune alla depressione e alla malattia coronarica. Si conferma che in questa fase sono le neuroscienze a indicare la strada e a consentire acquisizioni chiarificatrici nonché, si spera, future applicazioni terapeutiche innovative.