Vaso di Pandora

Le favole di Nicora tra metafora e fantasia

Le favole di Nicora tra metafora e fantasia

La chiocciolina

Un giorno di primavera una giovanissima chiocciolina si presentò al mondo, vedeva gli altri correre di qua e di là e si chiedeva chi fosse, cercava qualcuno a cui chiedere informazioni, ma tutti andavano troppo veloci.
Per quanto si sforzasse, non riusciva a tenere il passo di chiunque le passasse accanto. Una lucertola le disse, scodinzolando sul marciapiede: “abbi pazienza, vado di corsa, un giorno ti spiegherò”.
Un topolino di campagna si affacciò appena dietro ad un mattone, la chiocciolina lo interrogò, ma quello disse: “oggi vado di fretta, non posso aspettarti”.

Un pettirosso sbucò all’improvviso dal cielo, la chioccciolina gli chiese per favore se sapesse suggerirle chi fosse, dato che non aveva mai ricevuto quell’informazione, ma il pettirosso, volando via con un salto repentino le disse: “scusami tanto, ma devo proprio andare”.
La povera bestiola si rattristò, per quanto si voltasse di qua e di là, di su e di giù, non riusciva a trovare nessuno che le somigliasse, qualcuno con cui poter scambiare quattro chiacchiere in santa pace, tutti correvano, sembrava avessero una fretta  della malora.   Cominciò a piangere, le antenne si piegarono verso il basso, si sentiva tremendamente sola.
Dopo qualche ora sentì un lento tramestio sull’erba, era un rumore insolito, non era un sibilo, né una sventolio, non era nemmeno un fruscio. Era proprio un lento tramestio. Dall’erba spuntò fuori una tartaruga, andava piano piano e si fermò volentieri a parlare.
La chiocciolina le chiese: “tu sai chi sono io?”
“Non saprei,  muoviti un po’”
“Ecco guarda, ora corro”
“Bene, bene, bene,  ora girati”
“Ecco si, ora mi giro un po’ a destra e un po’ a sinistra”
“Si, ora mi è più chiaro, sei molto giovane e non ne sono proprio sicura, ma secondo me tu sei una tartaruga”
“Sono contenta, come fai a dire che sono una tartaruga?”
“Lo evinco da due caratteristiche molto particolari, la prima è la tua lentezza, a volta esasperante, la seconda la corazza che porti sul dorso, ora sembra fragile, ma quando sarai grande come me, diventerà dura come le pietre, ti proteggerà e nessuno potrà farti del male”
“Davvero?”
“Certamente, ora spostati al riparo di quella pietra e sta a guardare”
Dopo un buon quarto d’ora si udì un frastuono bestiale, la terra quasi tremava e all’improvviso comparvero da dietro un albero una ventina di cinghiali, che passando veloci uno per uno lungo il sentiero, manco si accorsero della tartaruga, molti ci passarono sopra, qualcuno la schivò, un vecchio rimbambito inciampò e fece un ruzzolone a terra, si rialzò facendo finta di non essersi fatto niente e andò via per ultimo, mettendosi in coda a tutti gli altri.
Quando quel gran polverone si posò, la chiocciolina si avvicinò alla tartaruga, era quasi sicura che fosse morta.
“Ci sei ancora?”
“Ciao, hai visto?”
“E’ incredibile, come hai fatto ad essere ancora viva?”
“Ancora viva? Mi sono divertita come una matta, sopra la mia corazza sentivo solo il rumore degli zoccoli, ma nessun dolore, la mia corazza è dura come la roccia, nessuno può farmi male. Hai visto quello che è caduto?”
“Certo , avrei anche riso, se non avessi temuto che tu fossi già morta”
“Ahhh, ci vuole ben altro, il carapace mi permette di andare lentamente per il mondo, guardando il panorama. Noi non abbiamo bisogno di scappare, nessuno ci può fare del male”
“Che bello, anch’io ho il carapace?”
“Per adesso vedo solo un abbozzo, mi sembra ancora piuttosto fragile, ma quando sarai grande, secondo me, diventerà forte e robusto come il mio e allora girerai per il mondo alla velocità che vorrai tu”
“Grazie signora tartaruga, grazie di cuore, ora finalmente so chi sono io, arrivederci e buona fortuna.”
La chiocciolina finalmente serena, aveva trovato una propria identità, sognava di diventare grande e di girare per il mondo con un carapace forte e robusto, che le avrebbe dato sicurezza e protezione. Dentro di sé sognava di essere un animale rispettabile.
Cominciò a girare per i campi e sui prati verdi, si nutrì di fresca insalata, di tarassaco e di spinaci, ogni giorno che passava si sentiva più forte e più robusta, cominciava a pensare di essere un animale degno di stima e di rispetto. Il guscio era diventato sicuramente più duro, ripensò sorridendo dentro di sé al giorno in cui la tartaruga gli aveva consigliato di allontanarsi dal sentiero.
Gli venne voglia di sperimentarsi, in fondo il carapace era sicuramente assai robusto e l’avrebbe protetta da qualsiasi peso le fosse passato sopra.
Passava di lì un bambino di tre anni, il nonno gli aveva detto di andare a raccogliere le fragole nell’orto, non si accorse che c’era una chiocciolina, ci mise il piede sopra e la schiacciò.
La chiocciolina sentì un dolore atroce, il carapace era miseramente crollato, ma era crollata anche la considerazione che aveva di sé.  Le lacrime cominciarono a fluire così abbondanti, che in pochi secondi la coprirono completamente.
Il sogno di essere un animale rispettabile come la tartaruga si era, in un attimo, trasformato in un incubo. Quando si guardò il dorso,  vide che il guscio non c’era più e all’improvviso realizzò di essere diventata un lumacone, era certa di essere uno di quei pappamolle spregevoli  e senza guscio che un giorno aveva visto sotto un fungo.
Aveva avuto ribrezzo e mai più avrebbe immaginato di essere lei stessa un lumacone.
Piano piano il dolore passò, le lacrime si asciugarono  e si mise in cammino lungo strade dove non passava mai nessuno, si ritirò in un luogo solitario, per la vergogna non voleva più vedere nessuno.
Passarono le settimane e i mesi e la chiocciolina senza guscio non aveva mai più scambiato due parole con qualcuno.
Un giorno capitò da quelle parti un chiocciolino, la intravide dietro una foglia, si avvicinò a lei, voleva conoscerla, si presentò, ma la chiocciolina aveva troppa vergogna per voltarsi e rispondere al saluto.
La chiocciolina, dopo la tremenda mortificazione che aveva provato il giorno dell’incidente, non aveva più guardato sulla sua schiena. Per questo motivo ancora non sapeva che era ricresciuto un guscio bello come quello che aveva prima.
“Perché scappi, voltati verso di me, mi sembra che tu sia molto bella”
“Per favore vai via, lasciami sola”
“Non voglio lasciarti sola, è ormai primavera e cerco una compagna per metter su famiglia”
“Io sono un lumacone e non voglio parlare con te, non  voglio che, quando morirò, qualcuno  si ricordi di me”
“ Ti sbagli, tu sei una chiocciola come me”
“Non è vero, le chiocciole hanno il guscio, mentre io non ho niente”
“Guarda, anche tu hai il guscio e, se ti volti verso di me, diventeremo amici”
La chiocciolina vide che era vero. Gli disse:
“Io prima credevo di essere una tartaruga, poi ho creduto di essere un lumacone,  ma oggi  riconosco la tua voce, quando sei arrivato ho provato un’emozione che non avevo mai provato prima. Ora mi volto verso di te, ma non ferirmi, morirei.”
“Sei bellissima”
“Anche tu mi piaci, sei coraggioso e intraprendente, ma dimmi, cosa vuol dire essere una chiocciola?”
“Essere una chiocciola è un grande privilegio, ora molti se ne rendono conto e disegnano una chiocciola sulle loro insegne, hanno compreso che la lentezza è necessaria per assaporare il gusto delle cose e degli alimenti, per poter godere del magnifico paesaggio quando camminano per raggiungere una meta,  per stringere relazioni emozionanti quando si conoscono e si frequentano. Il nostro guscio è fragile, ma è preziosissimo, non serve per proteggerci dalle cose brutte che sono fuori di noi, ma per custodire le cose buone e indispensabili che abbiamo dentro. Quando fuori le condizioni sono avverse, noi possiamo chiuderci momentaneamente in noi stessi e sopravvivere a lungo, perché ciò che ci serve è dentro di noi”
La chiocciolina sentì che stava per innamorarsi, pianse dalla commozione, le lacrime la coprirono di nuovo completamente, si avvicinò a lui e lo abbracciò.

Caro amico ti scrivo …

Il tasso e lo scoiattolo

Un tasso ed uno scoiattolo abitavano da qualche anno nello stesso stabile, un castagno cavo vecchio di quasi quattro secoli.
Lo scoiattolo abitava all’ultimo piano, in un attico piuttosto ristretto, ma da cui poteva godere di una vista incantevole. Il tasso abitava al piano seminterrato, un alloggio spazioso, composto da tanti vani collegati da lunghi corridoi; la sua casa era molto grande, ma un po’ buia.
Il tasso e lo scoiattolo, pur essendo vicini di casa, si conoscevano appena: si incontravano praticamente tutti i giorni all’imbrunire, quando lo scoiattolo tornava a casa dal lavoro e il tasso usciva per il turno di notte.  Era sempre lo scoiattolo a salutare per primo, era un tipo simpatico e gioviale, quasi sempre allegro; il tasso rispondeva sottovoce e con gli occhi bassi, senza mai abbozzare un sorriso.
Una volta il tasso aveva fatto appello al regolamento condominiale: in modo fermo e pacato aveva dichiarato che era inammissibile che piovessero nel suo appartamento gusci di noci e nocciole dagli appartamenti dei piani superiori. Lo scoiattolo si era un po’ risentito, tuttavia aveva gentilmente porto le sue scuse ed era saltato via con la consueta allegria.
Nei giorni successivi la caduta dall’alto di gusci di noci e nocciole non si era arrestata ed il tasso si era rassegnato a pulire pazientemente la sua casa; però aveva cominciato a sperare che il vicino del piano di sopra un giorno ricevesse lo sfratto e se ne andasse ad abitare da un’altra parte.
Un giorno capitò un incidente: lo scoiattolo, nessuno sa dire come sia potuto accadere, saltando da un albero all’altro si distrasse, scivolò dal ramo e cadde rovinosamente a terra. Probabilmente un merlo gli aveva attraversato la strada e lo aveva fatto sbandare.  Era caduto da otto metri e si era rotto il femore della zampa posteriore destra, non riusciva più a muoversi.
Lo scoiattolo comprese di essere arrivato al capolinea della sua vita, chiuse gli occhi e, mentre si preparava a morire, ringraziò il buon Dio perché la sua era stata un’esistenza meravigliosa, ricca di gioia e di emozioni.
All’imbrunire il tasso uscì di casa e vide lo scoiattolo disteso nel giardino condominiale; il primo pensiero fu che avrebbe potuto mangiarlo, risolvendo in un colpo solo due problemi, evitare la fatica di lavorare tutta la notte e togliersi definitivamente dai piedi quel vicino così ingombrante.
Appena il tasso si avvicinò, lo scoiattolo lo riconobbe e lo salutò con la consueta gentilezza e gli augurò buon lavoro, come faceva ogni giorno da qualche anno in qua.
Il tasso comprese che senza di lui sarebbe stato più tranquillo, ma si sarebbe sentito sicuramente più solo, così lo trascinò delicatamente in casa sua e lo distese in un vano che aveva adibito a stanza degli ospiti, ma che, fino a quel giorno, era sempre rimasta vuota.
Per sette settimane lo scoiattolo abitò nella casa del tasso, il tasso gli portava ghiande ed erbe curative, che lo fecero presto guarire.
All’inizio dell’ottava settimana lo scoiattolo commosso ringraziò il tasso, lo salutò con sincera cordialità e raggiunse il suo appartamento, passando dalla scala di servizio interna.
Da quel giorno non caddero più gusci nell’appartamento del tasso, anzi … alla domenica cominciarono misteriosamente a cadere gherigli.

Il viaggio: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo

La ricerca dell’anima

C’era una volta un gruppo di batteri saprofiti che viveva in quella parte dell’intestino chiamata ceco. Occorre chiarire chi erano i saprofiti. La loro origine è antichissima, per molto tempo ci si è chiesto cosa diavolo facessero lì, poi si è finalmente stabilito che la loro funzione fosse appunto quella di esserci.
E’ pur vero che qualcuno di loro, nel tempo libero, produceva una vitamina o due, ma è cosa di poco conto. Di loro nessuno s’accorgeva fino a quando non c’erano più. Ecco che allora, quando non c’erano più, altri prendevano il loro posto e questi abusivi erano tipi loschi, assai pericolosi, portavano disturbi e malattie.
Ebbene, c’era dunque un gruppo di batteri saprofiti che abitava nel ceco. Nel ceco? Si, nel ceco. E’ la parte più infima dell’intestino, una via collaterale senza uscita, esclusa dal corso principale, una specie di cortile chiuso, cui si accede da un portone. Il ceco è un luogo piuttosto tranquillo, distante dai traffici frenetici, non accade quasi mai nulla. I saprofiti trascorrevano il tempo a chiacchierare tra loro del più e del meno, perlopiù parlavano di politica e di sport.
Un giorno uno di loro, un certo Bifidus, chiese agli altri se avessero mai sentito parlare dell’anima. In effetti tutti l’avevano sentita nominare, ma nessuno sapeva dire di preciso dove fosse, in quale apparato, in quale organo, né di che cosa fosse fatta, se fosse una mucosa o una cartilagine o un altro tessuto.
Niente! Nessuno l’aveva mai vista, eppure tutti sapevano che c’era.
Un po’ per noia, un po’ per curiosità decisero di andarla a cercare, ma dove? Al gran consiglio dei saprofiti stabilirono che si sarebbero divisi e che avrebbero intrapreso un viaggio per cercare l’anima, ovunque essa fosse.
Si sarebbero trovati di nuovo lì, trascorsi sette giorni, a mezzogiorno in punto.
Alcuni andarono a Nord, altri a Sud.
I due più pigri decisero di mettersi in viaggio senza allontanarsi troppo dalla strada maestra e risalirono pian piano l’intestino, fino a quando videro un piccolo buco, si infilarono, risalirono ancora un poco. Giunti ad un bivio, uno andò a sinistra e raggiunse la cistifellea, l’altro proseguì fino a quando si trovò proprio in mezzo al fegato.   Entrambi raccolsero preziose informazioni.
Tutti gli altri saprofiti fecero un viaggio assai avventuroso, pericolosissimo: dovettero farsi piccoli, piccoli per riuscire a salire sopra particolari vetture, alcune rosse, altre bianche, chiamate globuli, che andavano ad una velocità stratosferica. A bordo di globuli rossi e di globuli bianchi viaggiarono, seguendo la corrente dentro a tubi grandi e dentro a tubi piccoli, poi dentro a tubi piccolissimi, fino a quando ciascun saprofita ebbe raggiunto la meta stabilita.
Quelli che intrapresero la direzione Nord visitarono chi il cuore, chi il cervello, uno gli occhi, uno le orecchie; un saprofita intrepido e coraggioso volle uscire ad esplorare le grotte che ci sono dentro il naso, casomai qualche malfattore avesse sequestrato l’anima, nascondendola in un anfratto.
Quelli che si diressero a Sud avrebbero voluto esplorare le parti intime, ma si persero per strada, certi che non avrebbero trovato l’anima in luoghi così meschini.
Il più ardito fece un viaggio spaventoso: dopo avere circumnavigato l’intestino e attraversato il pancreas, una terra inospitale, raggiunse infine la colonna vertebrale, proprio dall’altra parte della pancia.

Tutti i saprofiti trovarono il viaggio assai interessante.
Ciascuno esplorò i luoghi di destinazione, alcuni tennero a mente le loro preziose osservazioni, altri scrissero sul taccuino le informazioni necessarie; alla fine se ne tornarono in dietro, per arrivare puntuali all’appuntamento stabilito.
A mezzogiorno del settimo giorno in punto tutti i viaggiatori si trovarono nell’intestino ceco, per chiarire se qualcuno di loro avesse finalmente scoperto dove fosse l’anima.
Ognuno raccontò di averla trovata: il saprofita che visitò il fegato disse di avere trovato il coraggio, quello che visitò la cistifellea la rabbia e il rancore. Poi toccò a quelli che si erano diretti a Nord: il saprofita che esplorò il cuore disse di avere trovato l’affetto, l’amore e la tenerezza, quello che visitò il cervello la razionalità, il giudizio e la prudenza, quello che esplorò gli occhi trovò l’immaginazione, la paura e la compassione, quello aveva esplorato l’orecchio la comprensione, il temerario che aveva esplorato gli anfratti del naso l’intuito. Infine parlò il saprofita che aveva esplorato la colonna vertebrale, disse di avere trovato la responsabilità e la sopportazione.
Erano sfiniti per la fatica del viaggio, felici però per avere infine compreso dove fosse l’anima; tuttavia erano un poco confusi, interdetti dopo che ebbero appreso che l’anima era un po’ ovunque e quindi da nessuna parte.
Bifidus disse che era necessario approfondire l’argomento, disse che bisognava andare più a fondo, organizzare un nuovo viaggio, esplorare le terre remote.
Ci fu un lungo silenzio.
Il saprofita che aveva esplorato il fegato prese la parola e disse: “Il coraggio è pericolosissimo, ti porta a fare cose che nessuno farebbe”.
Il saprofita che aveva esplorato la cistifellea disse: “La rabbia è tremendissima, provoca ferite che non guariscono mai”.
Il saprofita che aveva esplorato il cuore disse: “L’amore brucia, l’affetto ti toglie l’aria”.
Il saprofita che aveva esplorato il cervello disse: “La ragione ti massacra, ti fa comprendere cose che sarebbe stato meglio non sapere”.
Il saprofita che aveva esplorato gli occhi disse: “La luce della paura ti acceca, la luce della compassione ti schiaccia”.
Il saprofita che aveva esplorato il naso disse: “L’intuito ti confonde e ti porta su strade che conducono da nessuna parte, alla fine ti perdi e non sai più tornare sui tuoi passi”.
Il saprofita che aveva esplorato le orecchie disse: “La comprensione è pesantissima, ti carica di fardelli inutili, ti rende triste”.
Il saprofita che si era diretto a Sud disse: “A Sud non c’è niente da vedere, niente da scoprire”
Il saprofita che aveva esplorato la colonna vertebrale disse: “La responsabilità ti uccide”.
Bifidus provò a insistere, bisognava assolutamente cercare ancora, definire meglio i termini della questione, andare più a fondo.
I saprofiti divennero tristi, si fecero muti, si chiusero nei loro pensieri.
Ad un certo punto si misero lentamente in cammino, tutti in fila, come fossero ad un corteo.
Dopo pochi passi trovarono un pertugio chiamato ombelico, uno dopo l’altro si infilarono lì dentro e, dopo aver attraversato un breve tunnel, uscirono e velocemente si dileguarono, ciascuno andò per la propria strada. Nessuno li vide più.
Bifidus mi ha assicurato che i suoi fratelli saprofiti vissero a lungo felici e contenti.
E se non sono morti, sono vivi ancora adesso.

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