Commento all’articolo apparso su La Repubblica il 25 LUGLIO 2016
La religione dei corpi, con la sua conseguente declinazione esclusiva del benessere, descritta nell’articolo è, a mio parere, un chiaro, quasi paradigmatico, prodotto della società post-moderna occidentale.
Il passaggio dalla società tradizionale, quella dell’autorità dell’eterno ieri, a quella moderna, dove era la scienza e l’incondizionata fiducia nel progresso da essa promesso ad imperare, all’attuale, infine, società post-moderna, dove il dispositivo ultimo di legittimazione dei comportamenti è la libertà personale, ha prodotto/determinato il passaggio dal benessere di natura essenzialmente relazionale, di cui ci parlava Aristotele, a quello di natura prettamente individuale/individualistica a cui è approdato l’homo dieteticus.
Il progressivo affermarsi della libertà individuale e del pluralismo culturale ha portato con sé la scomposizione delle forme tipiche del credere tradizionale e, nel contempo, una ricomposizione inedita che legittima la creatività individuale nella costruzione dei propri percorsi di senso.
L’ Homo dieteticus, con la sua religione del corpo e le sue liturgie alimentari, è pertanto, secondo l’autore dell’articolo, una manifestazione (o forse un sintomo?) di quella mercificazione della vita umana che l’utilitarismo estremo, supportato dalla sacralità della libertà personale come unico assioma della società post-moderna, ha prodotto. La persona è stata trasformata in risorsa umana e non ci si è forse accorti di un ribaltamento totale di prospettiva: non è più lo sviluppo a servizio dell’umano ma è l’umano al servizio dello sviluppo e, al contrario di una logica razionale, non si produce più ciò che è necessario per soddisfare i bisogni delle persone ma si “sostengono e sollecitano” i consumi per poter produrre.
L’autore ci spiega come l’homo dieteticus sia in preda a mille insicurezze e ciò perché il dogma della libertà personale, legittimando in ultima istanza i singoli comportamenti, d’altro canto, comporta inevitabilmente la perdita di forza e di significato del legame comunitario/relazionale, l’ emarginazione di quelle dimensioni legate al piacere e alla condivisione: se da un lato questo processo mira a difendere la nostra perfezione estetica, dall’altro può causare un danno alla salute con l’insorgenza di fobie e nuove malattie sociali.
Per concludere, Bauman mette a fuoco il nocciolo della questione qui discussa quando dice che la comunità senza libertà significa schiavitù ma la libertà senza comunità significa pazzia e che la questione da risolvere è come sacrificare quel poco di libertà necessario a rendere il tormento dell’incertezza tollerabile e sopportabile.
Ovviamente, tutto questo, è riferibile esclusivamente alla società occidentale, in altre parti del mondo le questioni qui dibattute si stanno declinando in maniera significativamente diversa… Ma questa è un’altra storia.