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Scrittura come terapia: liberare emozioni e pensieri

Chiunque scriva per professione o, soprattutto, per diletto ne è a conoscenza: mettere i propri pensieri e le proprie emozioni nero su bianco è una medicina per molti mali. Ciò non ha nulla a che vedere con la qualità dell’opera realizzata. Basta un diario, o un blog personale, con un numero ristrettissimo di lettori, per liberarsi, schiarire le idee, esplorare i propri lati nascosti oppure superare momenti no, contraddistinti da sofferenza e depressione. La scrittura come terapia è realtà. Mettere in fila una parola dopo l’altra stimola la mente, riattiva la memoria e riaccende la creatività. Dare vita a una narrazione coerente, seppure semplice, consente all’autore di rielaborare le esperienze vissute e centrare, almeno per la durata dello sforzo creativo, la propria vita.

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Il parere della scienza

Che la scrittura come terapia abbia una sua valenza non è soltanto una sensazione degli addetti ai lavori. Svariate ricerche hanno infatti comprovato la sua efficacia terapeutica. La più nota è quella portata avanti dalla Università della California di Los Angeles, grazie all’équipe del ricercatore Matthew Lieberman. Questo studio ha dimostrato come prendere carta e penna – o mouse e tastiera – quando si attraversi un momento di disagio o sconforto, riduca l’attività dell’amigdala. In sostanza, scrivere è un modo per limitare l’attività della centralina emotiva del nostro cervello, quella che si accende quando proviamo rabbia o paura, e aumentare quella delle regioni prefrontali. In ancora altre parole, dipingere fogli bianchi con lettere e frasi ci consente di padroneggiare le nostre emozioni.

Non a caso, spesso gli psicoterapeuti invitano i propri pazienti a tenere una sorta di diario sul quale appuntare i momenti più duri o intensi. Lasciando correre la penna possiamo prendere maggiormente coscienza della natura del problema che stiamo affrontando e trovare la forza di superarlo. La tecnica ABC, propria della psicoterapia cognitiva-comportamentale, ne è un fulgido esempio. Il terapista chiede al paziente di armarsi di taccuino, ogniqualvolta si trovi a vivere un episodio disturbante. Sulla pagina vanno riportate le condizioni antecedenti all’episodio (antecedents, A); le credenze associate (beliefs, B) e le conseguenze (consequences, C) ovvero tutte le reazioni emotive e motorie scatenatesi in seguito alla crisi.

Altre volte il terapista può chiedere al paziente di tenere un vero e proprio diario di bordo. Su esso, l’assistito racconta giornalmente come vive la sua giornata e quali emozioni si trova ad affrontare. È altresì consueto chiedere di intavolare lettere immaginarie, destinate al terapista o altro interlocutore fittizio, spesso significativo per il paziente. La scrittura detiene infatti l’invidiabile potere di rallentare, fino a fermarli, i pensieri confusi che vagano senza sosta nella nostra mente. Ciò favorisce quel distacco emotivo che può sgonfiare le crisi, sottraendo combustibile emozionale al fuoco incontrollato del raptus o dello choc. In terapia, si ricorre a due forme di scrittura, diverse e distinte, che stiamo per approfondire: quella autobiografica e quella espressiva.

La scrittura come terapia: una ragazza si libera dei propri pensieri consegnandoli a un foglio bianco
Il sollievo portato dalla scrittura come terapia è reale e può durare più a lungo di quanto si creda

La scrittura come terapia: narrazione autobiografica

La scrittura autobiografica richiede una certa preparazione. Gli autori scrivono in questa maniera: meditano con cura e fanno attenzione tanto ai contenuti quanto alla forma dell’impaginazione. Componendo in questa maniera si mette per iscritto il proprio mondo interno e si condivide una personale vicenda umana, con metodo e impegno. Servono tempo e praticità ma si porta così nuova linfa al proprio cammino, secondo la bella definizione di Duccio Demetrio, fondatore e direttore della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Chi costruisce una narrazione coerente e comprensibile, facendo attenzione a mantenere i propri pensieri fluidi e lineari, così come ai nessi logici che collegano le varie parti del discorso, sarà spinto ad applicare la stessa chiarezza di metodi e obiettivi anche alla propria vita. È qui che si colloca l’interesse della terapia.

La scrittura autobiografica è un metodo. Si può mettere in pratica ogni volta che ci si senta soli, fragili o non riconosciuti. Essa si pone come valido rimedio durante i momenti di crisi. Pensiamo alla fascia d’età dei bilanci e dei ripensamenti, quella tra i 40 e i 60 anni. In un periodo del genere è facile sentirsi un pò giù, riflettendo su cosa sia andato storto e cosa si poteva fare meglio. Ci si sente spesso impotenti di fronte a brutti episodi (malattia, perdita del lavoro, separazione…). Eppure, tutti questi inevitabili colpi bassi nel cammino di una persona sono occasioni di narrazione e condivisione, tematiche che si possono mettere nero su bianco. Non occorre farlo realizzando un best seller, è sufficiente desiderare di raccontarsi a sè stessi o agli altri.

La scrittura come terapia: esercizio espressivo

A proposito di metodi per scrivere, quello della scrittura espressiva risale agli anni ’80. Dopo un periodo di sperimentazione, lo psicologo James Pennebaker, ricercatore presso l’Università del Texas, conia il termine descrivendo l’operazione di scrivere di getto, senza curarsi troppo della forma, esternando immediatamente il flusso di pensieri così come arriva. Un metodo sul quale, indubbiamente, numerosi scrittori avrebbero da ridire, ma che si dimostra efficace per finalità terapeutiche.

Il compito che Pennebaker assegnava ai suoi pazienti era semplice: prendere carta e penna e scrivere qualcosa ogni giorno, tutti i giorni, per almeno 4 sedute consecutive, della durata di non meno di 20 minuti ciascuna. L’esercizio andava svolto evitando di appuntare qualsiasi cosa diversa dalle questioni importanti e personali. Era necessario ricercare e immortalare le emozioni più profonde e i pensieri più intimi, in modo continuo. Senza rileggere o fare attenzione a punteggiatura, errori ortografici, ripetizioni e tutti gli altri elementi che caratterizzano il brutto scrivere. Alla fine del processo, infatti, il foglio andava gettato via.

Questa idea dello scrivere come atto liberatorio viene sovente utilizzata in terapia anche oggi. Ogni sentimento appartiene solo e soltanto al momento della fotografia narrativa e a quel preciso istante della nostra vita. Rileggerlo può confondere e rivelarsi controproducente. Secondo le rilevazioni dello psicologo statunitense, il processo sarebbe abbastanza traumatico. Appena completato il compito, infatti, ci si potrebbe sentire peggio. Eppure, nelle settimane successive l’umore migliorerebbe, si proverebbe sollievo e si affronterebbe la vita con atteggiamento più positivo.

Il valore terapeutico della scrittura espressiva è noto come abreazione. Si tratta di una scarica emozionale catartica, secondo il concetto introdotto da Freud e Breuer negli Studi sull’isteria. Naturalmente, non si tratta di un rimedio funzionale e funzionante per chiunque e deve sempre essere parte di un percorso più approfondito. Ciononostante, ci troviamo di fronte a due dimostrazioni, diverse ma simili, sul fatto che la scrittura come terapia funzioni, e possa aiutare numerosi pazienti.

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