Viviamo un mondo in cui si cerca sempre la risposta giusta. Un mondo giustamente scientifico, rapido, orientato alla soluzione, alle evidenze, alla chiarezza e razionalità. Tutto deve avere un senso, una direzione e una spiegazione.
Tuttavia, più mi addentro nel mio lavoro come psicologo, più mi accorgo che la vita – soprattutto quella che incontro in Comunità – quasi mai funziona così.
Spesso mi capita di pensare che, forse, c’è anche bisogno di altro: di storie imperfette. Di racconti che non hanno una conclusione precisa, ma che valgono per quello che sono. Storie quotidiane, umane, fragili. Storie che non sempre sono lineari e quasi mai sono chiare, ma che sono vere.
Tornare a casa
Sono le 2.00 di notte passate.
A casa, la mia famiglia riposa, o almeno spero, visto l’orario.
Fuori è buio, l’Autostrada dei Fiori è quasi deserta e silenziosa. La radio accesa in sottofondo prova a farmi compagnia, mentre il mio insolito compagno di viaggio ha già chiuso gli occhi.
Sto guidando di ritorno in Struttura, a Diano Marina, riaccompagnando un paziente che ho raggiunto alla stazione di Genova Brignole. Si era allontanato nel pomeriggio. Aveva deciso di “tornare a casa”.
Casa, per lui, era la Calabria.
Ha provato, a modo suo, con i mezzi che aveva: una memoria sfilacciata, una nostalgia ostinata, la determinazione confusa di chi si sente ancora legato a un luogo lontano e pieno di ricordi, anche quando il tempo, lentamente, sembra portarti via tutto. Un po’ di fortuna: nessun controllo, nessun sospetto, nonostante gli spostamenti a piedi, in autobus, in treno… e chissà cos’altro ancora. Poi via, verso casa…
Mi colpisce sempre come il pensiero del “ritorno a casa” possa prendere forma con così tanta forza, anche in una mente disorientata e disordinata, ed in un corpo stanco. Forse perché casa, in fondo, non è un luogo preciso. È una nostalgia, una ricerca, un bisogno antico ed innato di “qualcuno” o “qualcosa” che ci ha fatto sentire interi, anche solo per un attimo.
E mentre guido in questo silenzio irreale, penso che il mio lavoro, a volte, assomiglia proprio all’azione che sto compiendo: mettersi in viaggio per riportare qualcuno indietro.
O almeno, un po’ più vicino a se stesso.
Un porto sicuro
Fedez – per gli amici – è un amabile sessantenne affetto da psicosi cronica che aveva cercato di “tornare a casa”, inseguendo un’idea più che un luogo reale.
Quello che mi ha colpito non è stato solo il gesto in sé, con tutta la sua determinazione, ma il momento in cui ci ha chiamato!
Lui!!
Sì – per chi se lo fosse chiesto – Fedez possiede un cellulare per quando esce a passeggio in paese, ma ha lucidamente deciso di tenerlo spento in tasca – rendendosi irreperibile alle inutili telefonate degli operatori, dei familiari, della direttrice, ecc. – sino al momento che… beh, ha avuto bisogno d’aiuto.
Una voce stanca, confusa, dispiaciuta, a tratti esitante: «Sono Fedez, potete venirmi a prendere? Non ce la faccio più… sono a Genova Brignole… per favore».
E poi i contatti con la centrale dei Carabinieri, i gentili assistenti della stazione, Google Maps direzione Genova Brignole, gli immancabili tratti autostradali chiusi per i soliti lavori, le telefonate della Polfer per sapere “Dottore a che punto è?”, il traffico genovese, ecc.
In quella frase c’era molto più di una semplice richiesta logistica. C’era il bisogno di un porto sicuro, il desiderio profondo e la consapevolezza che, nonostante tutto, qualcuno c’era per aiutarlo.
Penso spesso alla Comunità – e forse, in certi momenti, anche alla relazione terapeutica – come a una base sicura, nel senso più autentico del termine: un luogo, non solo fisico, dove poter tornare nei momenti di difficoltà, quando il mondo fuori si fa troppo grande, troppo confuso ed incerto.
Chiedere aiuto non è mai scontato. È un gesto intimo, a volte persino coraggioso. Implica riconoscere la propria vulnerabilità e allo stesso tempo credere – anche solo per un attimo – che qualcuno sia disponibile a rispondere.
Quella chiamata è stata proprio questo: il tentativo, fragile ma potentissimo, di ritrovare un legame. Di non perdersi del tutto.
Un luogo accogliente
Per molti dei nostri ospiti, la comunità non è una scelta. È l’approdo di un viaggio spesso accidentato, fatto di frammenti di vita, ricoveri ospedalieri, rotture familiari, silenzi, relazioni interrotte e sofferenza… tanta sofferenza.
Eppure, con il tempo, questo luogo può diventare qualcosa di più di una struttura clinica. Può trasformarsi in uno spazio accogliente dove abitare insieme, anche se non è casa.
Un luogo dove qualcuno ti chiama per nome – o soprannome, come accade tra i compagni di lunga data – ti versa il caffè, ti aspetta, ti strappa un sorriso, ti aiuta a sbucciare la mela… Nel mezzo delle terapie, delle cartelle cliniche, dei colloqui, delle riunioni, delle relazioni sanitarie, dei turni e delle routine, esistono momenti che non finiscono su nessun documento (ad eccezione di questo!), ma che forse, sono i più terapeutici di tutti.
Essere psicologo qui, significa anche imparare a “stare”. Non per forza intervenire, sistemare, agire… ma restare accanto ed esserci, con pazienza e con rispetto. È un’idea semplice, almeno in apparenza, ma difficile da accettare pienamente – e lo dico da chi, per natura e formazione, ha sentito spesso l’urgenza di “fare qualcosa”.
A volte il nostro lavoro è tutto in questo: offrire uno spazio – emotivo, relazionale, umano, fisico, temporale – in cui l’altro possa iniziare a sentirsi di nuovo persona. Uno spazio accogliente dove non sentirsi “qualcuno da aggiustare”, ma essere sostenuti, accompagnati, ed eventualmente… riportati indietro.
Conclusione: il senso imperfetto di questo lavoro
Sono quasi tornato.
Pochi chilometri mi separano dal casello di San Bartolomeo.
Al massimo 20 minuti e sarò al Cicalotto: qualche scartoffia burocratica, un paio di e-mail, comunicazioni ufficiali ai dirigenti, una chiacchiera con i colleghi del turno notturno, una telefonata al volo ai Carabinieri per segnalare il nostro rientro e, finalmente, in viaggio verso casa, dalla mia famiglia.
Il mio insolito compagno di viaggio, dorme accanto a me. Lo osservo per un momento, poi lo sveglio con delicatezza: “Sveglia Fedez. Siamo quasi arrivati. Oggi non hai mangiato niente vero? Ci fermiamo a prendere un panino in Autogrill?”
Lui, prontamente sveglio: «Sì sì, ci vuole. Offro io».
Io, sorridendo: “Mi sa che, nella fretta di partire, hai lasciato il portafoglio in Struttura caro… Facciamo che pago io, e la prossima volta – entrambi sappiamo che ci sarà una prossima volta – ti ricordi di portarlo con te!!”.
Una risata beffarda, e poi il silenzio di chi condivide qualcosa che vale più di mille parole.
Mi viene in mente che forse il mio lavoro – almeno oggi – non ha “curato” nessuno. Ma ha offerto una tregua, un’alternativa, una pausa gentile in una vita faticosa. Un momento in cui essere sentiti, cercati, compresi e rasserenati, nonostante tutto.
Il mio lavoro oggi è stato esserci: rispondere ad una richiesta di aiuto, anche se imperfetta. Mettersi in viaggio, accogliere, stare accanto e accompagnare indietro.
E forse, nel silenzio delle ormai 3.00 di notte, questo può bastare.
Complimenti caro giovane collega.
Questi sono i momenti che creano legami e trasformano ai nostri occhi i pazienti in persone
Gli atti terapeutici più significativi non sempre corrispondono al programmato o al colloquio
Sono gli spazi condivisi quasi complici che permettono a tutto il resto di avere credibilità
Grazie di cuore 🙏, le tue parole mi risuonano molto.
È bello sentirlo riconosciuto anche da chi ha più esperienza: mi incoraggia e mi ricorda quanto sia preziosa la dimensione umana del nostro lavoro.
Sei un grande Mattia, hai sempre creduto nel tuo lavoro e con soddisfazione i risultati arrivano sempre. Sono molto orgoglioso di te continua così Un abbraccio di cuore
Grazie di cuore 🤗 le tue parole mi fanno davvero piacere.
Un abbraccio grande! 🙏