Con piacere accolgo l’invito a scrivere qualche nota intorno ad un evento di questa estate: la rilettura di un racconto di Andrea Camilleri in forma di spettacolo teatrale, allestito e diretto da Daniela Liaci , che mi ha regalato una serata piacevolissima insieme a cari amici e alle mie sorelle.
Tutto è partito da una conversazione con Enzo Motta e dalla decisione presa con Monica mia sorella (cultrice dell’autore) di promuovere a Finale Ligure nei Chiostri di S.Caterina sotto l’egida dell’Associazione Palma d’Oro, uno spettacolo incentrato sulla lettura de “Il Casellante” appunto un racconto di Camilleri, da inserire in quella parte più colta e nascosta della sua narrativa, forse, anche la meno nota.
Riluce il tema della metamorfosi così come è descritta dall’antichità mitica, rivissuta in una cultura contadina che ricorda nei suoi valori e nella sua sapienza antropologica gli studi di Ernesto de Martino e fa pensare certi attuali e inquietanti interrogativi sulla temuta progressiva perdita di competenze umane, come per esempio l’abbandono della dimensione dei riti.
Il tema centrale della storia riguarda l’amore e la possibilità di travalicare la logica della ragione e le usuali modalità di agire e comportarsi determinata, a causa di un grande dolore, da una straordinaria apertura della comprensione che ha origine dall’ascolto più autentico della propria e altrui interiorità. Infatti nel tentativo di accudire e curare la giovane moglie, che aveva perduto il figlio per una violenza, il protagonista si deve confrontare con la follia.
“…con uno scanto che l’inabissò Nino accapì che Minica non stava babbiando”. Cioè era davvero convinta di trasformarsi in un albero.
“Ma non potiva faricci niente. Chiamari il Medico? E che potiva fari il medico? L’avrebbi fatta portari ‘n manicomio. Ma lui da Minica non si sarebbi separato mai, per nisciuna raggiuni al mondo”.
Nel nostro spettacolo la storia viene animata da due voci maschili che raccontano quella calda e pacata di Piero Germini e quella di Enzo Motta, che sfrutta appieno la sua lingua madre per trasmetterci il suono e le emozioni dell’invenzione linguistica di Camilleri con un uso del dialetto siculo incisivo e musicale. E poi da tre donne, la regista (Daniela Liaci) che pare una dolce e saggia burattinaia, l’attrice e cantante (Laura Quaglia) e la coreografa e danzatrice (Melanie Riccardi), entrambe bravissime a rappresentare con la parola e la danza e il corpo due aspetti e due modi di essere di Minica la dolorosa, ma imbattibile Niobe del racconto.
Tutto si è svolto nel paesaggio meraviglioso di una notte d’estate nei Chiostri di un Convento domenicano che ha resistito al tempo e ai vari insulti naturali e umani recuperando una sua splendida“mission” di cura, spettacolo, agorà e meditazione riflessiva che in quella serata, grazie all’amicizia e al dialogo teatrale ci ha offerto emozionanti immagini di amore e di vita con un finale esaltante per la gioia di una nascita miracolosa : esempio evidente di “eterogenesi dei fini”, arriva finalmente il salvifico bambino, donato dalla guerra!
Vero Caterina
La differenza la fa l’amore e la capacità di esercitare questa funzione nella relazione profonda con le persone e le cose
Grazie a te e Monica per avercelo ricordato in modo artisticamente comprensibile