Nella giornata si sono confrontate due concezioni della psichiatria, della persona con disturbi mentali che volutamente per delinearli meglio semplifico ed estremizzo e di questo mi scuso anticipatamente.
Al pomeriggio è stato (ri)proposto un modello di psichiatria, prevalentemente biologica, riduzionista, obiettivante e oggettivante, lineare (causa-effetto), statico.
La psicopatologia esiste in sé ed essa è rilevabile come prodotto di una malattia (lesione, alterazione del funzionamento del SNC spesso presunta ma non identificata) cui è dovuto il fatto-reato. Ne consegue che la persona non può essere responsabile, né risponderne in sede giuridica. Quindi è non imputabile e dato che la malattia potrebbe ridare sintomi/comportamenti antigiuridici ne consegue la pericolosità sociale (con questa concezione presumibile in ogni persona malata) e pertanto l’applicazione di una misura di sicurezza che non può che coincidere con un obbligo di cura in una condizione “detentiva” o comunque al meglio di “libertà vigilata” da parte di chi è tenuto alla cura (lo psichiatra, il DSM) gravato come ogni altro professionista, si dice, dalla posizione di garanzia. Allo psichiatra non solo non si riconosce la difficoltà e peculiarità del compito, ma lo si ritiene responsabile delle azioni messe in atto dal paziente (il che non è così per forze dell’ordine e magistratura per il reo recidivo). Cura e sicurezza coincidono. Le nozioni di infermità mentale, pericolosità sociale non vengono messe in discussione e realisticamente si prende atto della loro persistenza e si cerca, con impegno tecnico e scientifico, si cerca di darvi validità e attuazione. La cura è “obbligata” e “coercitiva” secondo la sentenza 22/2022 della Corte Costituzionale va solo normata da una nuova legge in conseguenza della quale vanno predisposte adeguate strutture. Se le terapie farmacologiche non portano a risultati (gli inguaribili, incurabili) allora non resta che la coercizione e la custodia. E per motivare gli operatori a questo si è evocato il reato di evasione. Vi sono Linee guida che possano sostenere simili posizioni? Per il malato mentale autore di reato in particolare per le cure non valgono la legge 180, la 219/2017 (consenso informato), la 18/2009 (Convenzione Onu dei diritti delle persone con disabilità. Vi è una sostanziale coincidenza tra persona, malattia, sintomi/comportamenti/ reati e obbligo di terapia. Non avendo coscienza di malattia, non sarebbe possibile il consenso della persona, né la sua partecipazione. Quando è presente una qualche consapevolezza, l’adesione ai trattamenti non è stabile. Al più si ammette che certi reati possano non essere frutto di patologia ma di libere scelte. Una “psichiatria delle certezze”, in grado di poter distinguere imputabili da non imputabili, di prevedere e prevenire, che supera esitazioni, limiti conoscitivi e delle terapie. Fino alla disposizione di un potere di coercizione che alla fine diviene non tanto cura ma custodia. In questo si potranno avere sicurezze professionali derivanti dalla comune condivisione di un approccio sostenuto e condiviso da psichiatria, giustizia, politica e opinione pubblica ed inevitabilmente si incentra sulle strutture e rischia di estendersi al disagio e a tutti i disturbanti. Creando così un sistema “escludente” più ampio divario con i servizi territoriali. La questione rischia di circoscriversi a psichiatria forense e giustizia e così viene da chiedersi quali possano essere le prospettive… Anche per tutte le situazioni che si manifestano nel territorio e condizioni “grigie” e difficili negli istituti di pena, i disturbanti ecc. con la proposta di abolire seminfermità mentale e la non imputabilità dei disturbi gravi della personalità.
Al mattino è andato in scena un’altra psichiatria, biopsicosociale, culturale, ambientale incentrata sulle relazioni, evolutiva, e basata sulla complessità. La psicopatologia come frutto evolutivo di un complesso di fattori sempre coesistenti e reciprocamente interagenti, cui consegue una valutazione relazionale dove le potenzialità di cambiamento si realizzano mediante un concorso di elementi educativi, sociali, sanitari, giudiziari e di vita. Epigenetica e plasticità cerebrale, modulazione dell’attività del SNC dipendono dalle relazioni, dalle circostanze di vita (fattori traumatici e protettivi) dai determinanti sociali della salute mentale.
Pur con il doppio binario, tiene conto della sentenza della Corte Costituzionale (253/2003) secondo la quale la misura di sicurezza non può arrecare danno alla salute psichica della persona, sancendo così, di fatto una priorità delle esigenze di cura. Ancora la questione del consenso e partecipazione alle cure non può essere elusa dall’obbligo/coercizione ma per essa sono essenziali libertà e responsabilità (del paziente e del terapeuta). Condizioni che per altro sembrano fondamentali anche ai fini dell’efficacia delle misure giudiziarie. La psichiatria e giustizia “dispositiva” aprono a quelle dell’accordo, del patto con la persona. A questo segue la considerazione che la valutazione dell’imputabilità e della pericolosità sociale non hanno sufficienti basi scientifiche (sorvolando sulla qualità di moltissime perizie e sui pareri opposti espressi sui singoli casi). Le valutazioni sono dinamiche e basate sui fattori di rischio, precipitanti e di protezione e al tempo stesso consapevole delle scarse capacità di previsione e prevenzione della psichiatria. Quindi prende in considerazione i contesti familiari e sociali sempre altamente responsabilizzati. La disabilità è psicosociale e quindi richiede ampie partecipazioni, diritti da realizzarsi mediante consensi allargati, sostenuti dalla presenza dell’altro. Un approccio che promuove l’inclusione e richiede confini allargati, permeabili, dinamici, piuttosto che coercizione, chiusura restrizione degli spazi.
La posizione e il punto di vista della persona, consenso, motivazione, responsabilità sono parti essenziali della cura e del percorso giudiziario non incentrato sulla mera riduzione della libertà. Una psichiatria “gentile”, incerta, carica di dubbi, ma anche di potenzialità, speranza, creatività. Una psichiatria che ricerca punti di incontro attraverso il dialogo con la persona e i contesti e sa modulare l’organizzazione e andare oltre le REMS per creare altamente percorsi personalizzati (con Budget di salute) di comunità. Un modello che deve tutelare meglio gli operatori, superando la “posizione di garanzia” per affrontare meglio i rischi e promuovere i diritti. Una psichiatria che assiste nella comunità e realizza un modello realistico, utopico e radicale dove ogni istituzione opera sempre con la persona, la famiglia, il contesto. Un modello aperto alle nuove sfide creando ogni volta le condizioni della cura e della sicurezza, nella responsabilità, sempre riconosciuta alla persona (con una nuova legge).
Oscilleremo ancora tra questi due modelli… il dialogo e le contraddizioni sono il motore del cambiamento essenziali anche per comprendere dove e come indirizzare le risorse.
Grato del commento che in gran parte condivido.
Penso che confronto e dialogo tra persone competenti e professionisti seri possa permettere un giusto punto di incontro tra tendenze innovative che Miri a dare dignità di persona agli ultimi,agli incompresi,ai disperati senza trascurare i rischi che indubbiamente esistono quando si trattano patologie mentali gravi soprattutto se non curate
Vorrei soffermarmi brevemente sul concetto di cura che è stato oggetto nella giornata di studio di dibattito..
Le parole hanno un loro significato. CURA per il dizionario della lingua italiana recita: “impegno assiduo e diligente nel perseguire un proposito o nel praticare una attività,nel provvedere a qualcuno o a qualcosa.”
Quindi noi possiamo e dobbiamo curare i pazienti psichiatrici gravi; il problema è come e ancora chi.
La vignetta decritta dal magistrato di sorveglianza che lamentava il fatto che un individuo dichiarato pericoloso socialmente potesse tranquillamente evadere una prescrizione di cura,ma anche di tutela sociale pone il dito sulla piaga.
Il servizio di salute mentale se effettivamente lavora nel senso indicato dalla legge 180 deve occuparsi del malessere dell’individuo curandosi oltre che di lui del sistema sociale che lo attornia in modo da prevenire possibili scompensi acuti( con agiti eteroaggressivi) creando quella giusta attenzione e tensione nei confronti di un problema non semplice che deve sempre tendere a tutelare la possibilità del paziente di esprimere in modo diretto o indiretto il suo bisogno.
Quindi una rete di servizi tra loro collegati e sinergici che non possono essere solo sanitari, ma che devono essere d’accordo che il primato non può che essere quello dell CURA piuttosto che della tutela della tranquillità sociale o della custodia fine a se stessa