Vaso di Pandora

Quello che so di te: il romanzo di Nadia Terranova

“In quel preciso momento, dentro quel preciso nulla, nell’isolamento dell’ospedale in cui ho appena partorito, capisco cosa non potrò mai più permettermi di fare. Impazzire”.

È da questa frase, nell’incipit, che ho scelto il romanzo di Nadia Terranova, “Quello che so di te”, un romanzo potente, intimo che scava nelle pieghe della genealogia femminile e ci interroga sul peso, e sul dono, dell’eredità. 

E non solo: per me è stata la conferma di quanto la narrativa riesca a restituire la complessità di un rapporto con il passato, chi è venuto prima di noi, da cui non si può prescindere se vogliamo comprendere chi siamo, oggi. Ogni giorno, nel mio lavoro cerco di accompagnare a questa consapevolezza madri, padri, genitori futuri; figli che soffrono senza nemmeno comprendere la motivazione di tutto quel dolore. 

La maternità di Nadia Terranova

A innescare la narrazione è la nascita della figlia dell’autrice. Un evento fondativo, un passaggio che trasforma ogni donna. Ma per l’autrice, diventare madre significa anche affrontare una vertigine: quella della continuità, della somiglianza, della memoria incarnata. Cosa si tramanda davvero da madre a figlia? E soprattutto, quali storie sono rimaste sepolte, taciute, cancellate? 

Nel cuore di questa indagine personale e familiare c’è Venera, la bisnonna dell’autrice, internata in manicomio nel 1928 in una Messina ancora segnata dal terremoto e da una cultura patriarcale profonda. Di lei restano solo poche tracce: una cartella clinica, qualche aneddoto tramandato con imbarazzo, frammenti. Ma per Nadia Terranova, Venera non è un fantasma da lasciare sullo sfondo: è una figura da riportare alla luce, da interrogare, forse da liberare. Per liberarsi. 

“Quello che so di te” è dunque un viaggio nelle radici. Ma non un viaggio nostalgico: piuttosto, un gesto necessario per capire chi si è diventate. La maternità, in questo libro, non è solo la cura per una nuova vita: è anche il momento in cui il passato bussa più forte. È l’urgenza di ricomporre la mappa affettiva e silenziosa delle donne che ci hanno precedute. È la consapevolezza che certi dolori, come quello della perdita, del lutto, della follia, non si dissolvono ma si depositano nei corpi, nei gesti, nelle parole taciute. 

Lo stile di “Quello che so di te”

Con uno stile limpido, a tratti lirico, sempre profondamente coinvolto, l’autrice unisce autobiografia, ricostruzione storica, e invenzione narrativa. La scrittura diventa strumento di riparazione, ma anche di ribellione. Intensa in questo passaggio:

Come si torna a scrivere dopo un parto, come si continua a essere spietati sulla pagina? Per anni mi sono sentita coraggiosa nell’illusione di uccidere, ma non posso scrivere per uccidere mia figlia. Un padre o una madre li puoi distruggere, un figlio lo devi soltanto salvare. Scrivere è appiccare incensi, bombardare città, stanare prigionieri. I figli invece si proteggono, si strappano alle rovine, si portano via dai roghi. Scrivere dopo una figlia significa esporti al doppio della fatica: devi fermarti dopo pochi passi per tirarla fuori dalle macerie, mentre il tuo disturbo corre giù per la linea delle antenate.

E Venera, da figura muta, relegata in un manicomio e in una rimozione collettiva, torna a vivere come parte di una storia che è personale, politica e culturale. “Quello che so di te” è un romanzo che parla di madri, figlie e bisnonne, ma anche di assenze, silenzi, desideri e ferite trasmesse nel tempo. È un libro che ci invita a fare i conti con le nostre genealogie, con i nomi che non ricordiamo più, con i fili invisibili che attraversano le generazioni. E ci ricorda che, per capire chi siamo oggi, dobbiamo anche tornare a guardare da dove veniamo.

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