Commento all’articolo apparso su La Repubblica il 31 maggio 2016
Decisamente è difficile avere parole per questi fatti. Ancor più pensieri.
Sara, uccisa barbaramente da Vincenzo ,il suo fidanzato che non tollera di essere lasciato (22 e 27 anni).
Tante altre storie simili a questa, che sembrano ripetere lo stesso copione: lei vuole lasciarlo, o lo lascia davvero, fidanzato, amante, marito. Lui la perseguita, la maltratta, la minaccia e qualche volta la uccide.
Sembra che la riflessione comune non possa che, spingerci nella direzione suggerita dall’articolo : una sorta di antico eterno paradigma che condanna la donna ad una posizione subalterna, di sottomissione al maschio” che lui solo può decidere” e che quindi decide anche della sua vita. E così l’articolo suggerisce che è il potere, quello maschile naturalmente ,a rifarsi vivo in queste vicende tragiche, il potere che uomini “fragili” sembrano conservare nel loro DNA e che sembrano voler riaffermare nel loro gesto violento, drammatico, e che li riposiziona in qualche modo al loro posto, al potere, tra gli assassini, tra quelli che non si lasciano trattare “da femminuccia”.
E così la donna ,quella di oggi, è punita, fermata, uccisa. Oggi più di sempre, perché è libera, perché può scegliere, perché può vivere (l’articolo dice sopravvivere) senza un uomo.
E perché oggi c’è libertà: la libertà di tutto, di tutti, sesso quanto se ne vuole.
E perché invece insomma c’è l’amore che è un’altra cosa e nell’amore, dice l’articolo, la libertà si paga, perché ci si innamora anche di quelli sbagliati E così la donna, anche lei è riposizionata al suo posto, tra le vittime. Si, perché in effetti (dice l’articolo) è quasi sempre lei a sbagliare, amare, pagare. E quando pensa, se ne accorge, è troppo tardi.
Non credo che riuscirò a pensarla così.
Credo che questa tragedia e questo orrore( e molti altri) tocchino in me soprattutto i miei desideri di donna , e d’altra parte toccano il potere dell’essere umano, che non riesco a collocare in una identità sessuale, ma che faticosamente cerco di lasciare al suo posto, tra le capacità di progettarsi e collocarsi nel mondo, e che perciò guardo con il senso del limite, che la nostra mente ci propone ,preservandoci dalla follia, che, al contrario, tutto può, tutto allucina, tutto agisce, anche l’orrore.
Credo che questa tragedia (e molte altre) propongano all’umanità il triste percorso della sofferenza e della follia che si impone al suo posto, quando l’angoscia prende il posto del desiderio e quando l’odio per la vita ( e anche per sé stessi) prende il posto dell’amore,(anche per sé stessi).
Non credo mi sia possibile parlare di uomini fragili né di donne libere. In questa tragedia.
Credo di voler parlare di una pulsionalità ,quella umana, che a dispetto di una presunta normalità e presentabilità sui social, sia sconosciuta e primitiva per coloro che la possiedono o che al contrario ne sono posseduti.
Credo che questa pulsione renda ragione della nostra spinta a vivere, amare desiderare e che spieghi tragicamente la possibile spinta a distruggere, se stessi, la vita, la bellezza, la gioventù, la speranza.
Credo che esistano il coraggio e la viltà, e che questi abitino con imparzialità uomini e donne, confondendo spesso chi cerca,(uomo o donna che sia )nella conferma sociale risposte che eludono la domanda sul valore della propria e altrui esistenza, e che cercano di sfuggire alla tragicità dell’esperienza umana del dolore della perdita.
Credo che esista la drammatica esperienza della perdita dentro la donna ,dentro il suo essere madre, dentro la particolare esperienza del suo creare, e che questa duplice esperienza la renda così vicina ,così inavvicinabile. All’uomo.
Credo che la forza della femminilità si misuri nella sua non misurabile appartenenza al fenomeno del generare, desiderare, vivere.
Penso che siamo dentro un mondo, oggi come in altri tempi ,dove la donna ha bisogno di accorgersi che ha “una stanza tutta per sé”, non solo per scrivere romanzi. Perché “basta entrare in qualunque stanza ,di qualunque strada perché salti agli occhi tutta quella forza, estremamente complessa che è la femminilità. E come potrebbe essere altrimenti? Sono milioni di anni che le donne siedono in quelle stanze, cosicché ormai le pareti sono intrise della loro forza creativa”.
Così in tempi bui come talvolta appaiono i nostri, sembra ripetersi la stessa solitudine, ,la stessa drammatica esperienza di vuoto di cui può soffrire un essere umano, e che fa dire a V. Woolf ,all’approssimarsi della guerra :” Sì, sono colta da rabbia muta, mentre dei fanciulli che vorremmo vedere amarsi l’un l’altro combattono anche per me. La lotta è troppo vicina alla morte e la morte è l’unica esperienza che non descriverò”.
V. Woolf voleva vivere, non sopravvivere.
Come Antigone. Come tante altre.
Come credo Sara.
Questo mi trovo a pensare.
Stavo ripensando a questa crudeltà ormai quasi quotidiana sulle donne e provavo ad immaginare quale possa essere la condizione esistenziale in cui versano certi maschi. La “dipendenza patologica” sembrerebbe contraddistinguerli in assoluto.
Le cose che ha scritto Paola hanno il sapore emotivo della percezione del vivere e non più vivere che solo una donna, uno spirito femminile, può davvero raggiungere, al di là dei luoghi comuni, della pseudo-psicoanalisi, degli ammiccamenti retorici e tautologici. Vi è l’invidia dell’uomo, l’insopportabilità di non trovare in sé quello che è della donna, la capacità di “essere (Winnicottianamente) sola” in presenza dell’altro, pur essendo insieme, e che qualche uomo (più di altri) attacca distruggendo, non tollerando la forza del femminile , opponendo il “diniego psicotico”, forse.
La proprietà della stanza dello star sola e che non vive la solitudine in quanto mancanza, ma momento di incontro con le ricchezze interiori.
Qualcuno non riesce, più di altri,a viversi nella mancanza creata dalla irrimediabile distanza, ne allucina una modalità orrendamente sostitutiva, l’agisce e in essa si propone trionfatore, Via così.
Carmelo Conforto
Il patriarcato.La colpa e ‘ unicamente dell’ avvento del patriarcato.
Grazie di un intervento intelligente in mezzo a un frastornamento mediale intollerabile.
Riprendo ‘la nostra pulsione .. .. amare desiderare … spieghi tragicamente la possibilità a distruggere..’ ‘credo che esista la drammatica esperienza della perdita..’
Racconto: due mesi fa un uomo incontra una donna , da anni senza rapporti amore/sesso, si immerge in questa vicenda che lo sconvolge da subito. Ma desidera continuarla anche se la donna dice da subito il suo avere un altro ‘altro’. Lui spera desidera un’unione aldilà delle evidenze. La sua vita prima segnata dalle visite psichiatriche, dal lavoro protetto, da incontri con una Onlus di persone con disagio è sconvolta. Chiude il telefono, sparisce, riappare, telefona anche la donna per cercarlo. Lui la ritrova. Poi l’evidenza dell’impossibile rapporto e la sofferenza che suscita fa probabilmente decidere la chiusura della donna (angoscia tormento protezione addossarsi una colpa.. ipotizzo). L’uomo arriva ad una violenza ad una rabbia vendicativa a un desiderio di vendetta che raramente ho sentito così reali. Tanto da fermarlo in un patto fatto di farmaci, controllo, accompagnamento al Servizio di Salute Mentale, e di nuovo controllo ma anche parole aperte sulle fantasie percezione contatto con il ‘mostro’. Beh siamo ancora in mezzo. La disperazione dell’abbandono è tragica ed esplosiva. Non doveva succedere. E quella donna che ha deciso di ‘proteggere’ è ipotizzo tanto responsabile quanto sola.
Ogni semplificazione è idiota… siamo difronte a sofferenze complesse, si credo che la donna abbia dentro di se un’esperienza diversa come l’articolo evoca in me. Come la vicenda descritta.