Dicono bene Roberta Antonello e Pasquale Pisseri, sembrerebbe scemata la passione per la conoscenza dell’altrui sofferenza e per la relativa comprensione (letteralmente prendere insieme) e compassione (letteralmente patire insieme).
Le scuole di specialità formano psichiatri, psicologi, tecnici della riabilitazione secondo un metodo impersonale (!), si insegnano tecniche di problem solving ed altro secondo un intendimento efficientistico che per quanto vedo nella pratica giornaliera di cura al paziente psichiatrico grave è ben poco efficace.
Ecco… Si tende a confondere facendole coincidere efficienza con efficacia.
Eppure insisto nel sostenere che essendo sanitari siamo tenuti a curare, se possibile a guarire e la richiesta che sempre più pressante ci giunge dai nostri assistiti non è quella di spiegare perché soffrono, ma farli soffrire di meno o addirittura di togliere quell’insostenibile dolore psichico che li attanaglia.
Come si può ottenere un risultato così importante prescindendo dalla consapevolezza di quali sono i bisogni dei pazienti e di come si intersecano coi bisogni nostri a volte ideologici, a volte nostalgici spesso incapaci di favorire separazioni dimettendo i pazienti.
La capacità di modulare la relazione terapeutica, partendo dai propri riferimenti tecnici, culturali e storici, diventa quindi l’elemento fondamentale per permettere di realizzare un intervento psicoterapico compiuto che dia senso (indirizzi e tracci la rotta) e significato (lasci un segno duraturo e proficuo) al nostro operare quotidiano.
Solo un costante e onesto confronto con gli altri professionisti che intendono interessarsi della sofferenza mentale altrui e che riconoscono nell’altro non soltanto un oggetto d’interventi ma un soggetto che ci
può anche insegnare, permetterà di crescere nella conoscenza ed eviterà l’isolamento e l’inaridimento del pensiero.
Ciononostante esiste un pensiero contemporaneo fatto di usi, costumi e atteggiamenti che non possono né debbono essere definiti superficiali o incapaci di reale partecipazione.
È nostro compito proporre nuovi modelli di riferimento, accedere ai nuovi linguaggi ed utilizzarli al fine di realizzare per i pazienti il miglior risultato possibile.
Il libro che ho proposto e voluto “Comunità terapeutiche. Storie di lavoro quotidiano” vuole modestamente rappresentare un percorso possibile in divenire, naturalmente bisogna crederci e tollerare la fatica necessaria.