Vaso di Pandora

Omicidio Sharon Verzeni senza motivazione apparente

Moussa Sangare ha confessato l’omicidio di Sharon Verzeni attuato “senza motivazione apparente”. Non per sesso o denaro che sono diventati i principali significanti simbolici della nostra società. Nemmeno per una relazione “tossica” o altamente problematica o una radicalizzazione ideologica o religiosa. Non è stato l’effetto collaterale durante una guerra.  Se non c’è movente ed è inspiegabile è malato di mente? Non è questa la sede per la valutazione del caso specifico.

Restando alle motivazioni viene da chiedersi se non possiamo immaginare, sottolineo immaginare, altri vissuti che correlano con la violenza. Ad esempio, senza essere esaustivi, la rabbia distruttiva, la frustrazione, il fallimento, l’umiliazione, l’invidia, il vuoto, la disperazione, la solitudine e l’abbandono sono vissuti molto potenti in grado di far soffrire le persone ma anche di attivarle ad agire.

Cosa nasconde il “senza motivo apparente” che ha ucciso Sharon Verzeni

Il “senza motivo apparente” ha sotto un mondo inapparente nel quale come sotto un iceberg, si muovono potenti correnti difficili da vedere e rappresentare con le parole. La povertà espressiva come insegna Hanna Arendt nella banalità del male. Se non siamo in grado di cogliere la profondità dei vissuti e le loro implicazioni, le persone rischiano di diventare reciprocamente estranee e disumanizzarsi. Perseguire il male, la morte nella totale insensibilità per la vittima. Un elemento da approfondire è proprio questo: la percezione e il vissuto dell’Altro. Va poi ricordata la forza di riscatto, di potenza che può essere presente in un atto così atroce attuato verso un soggetto altro, anonimo, ma guarda caso una donna. Forse una persona ritenuta gerarchicamente inferiore? Oppure la rappresentante di tutti, la vittima innocente e sacrificale che, come ha detto la procuratrice di Bergamo, si è trovata “nel momento sbagliato nel posto sbagliato”?

Ipotesi sul pensiero di Moussa Sangare, omicida di Sharon Verzeni

Cosa sia passato nella mente di Moussa Sangare al momento del fatto non è possibile saperlo. Possiamo fare solo alcune ipotesi teoriche in base a ciò che sta emergendo ed è riportato dai giornali. Pare che prima di agire abbia chiesto scusa ed abbia avvertito un “feeling irresistibile”? E la vittima avrebbe chiesto ripetutamente “perché?” Quanto alla storia di Moussa vi sono notizie contrastanti: tranquillo, simpatico, rapper che lambisce il successo, violento, autore di precedenti minacce e agiti specie in famiglia, uso di sostanze, denunce… cambiato dopo un soggiorno all’estero. Sul piano sociale viene segnalata la mancanza di un lavoro stabile e la vita in un alloggio occupato abusivamente.

Storie nell’ambiguo spazio tra emarginazione e inclusione che certo da sole non spiegano l’omicidio che segna comunque un salto. Tuttavia, se la salute mentale dipende da una molteplicità di fattori interagenti, biologici, psicologici, sociali, culturali e ambientali vi sono elementi interessanti da approfondire senza che questo significhi dubitare della capacità di intendere e di volere. A mio parere l’imputabilità dovrebbe essere sempre riconosciuta e la persona anche se con possibili disturbi mentali deve in ogni caso rispondere dei propri atti. La responsabilità è etica e terapeutica. Ma non è di questo che vorrei parlare, quanto riflettere ancora sul movente, su ciò che muove la persona verso una prospettiva.

Vi è un possibile significato strutturante nel superare un abisso profondo e confusivo, nel divenire assassino: un’attrazione fatale verso il negativo, il male assoluto. Uccidere come “impresa” non tanto folle quanto estrema. Farlo nel reale dopo l’allenamento virtuale (dove tutto è reversibile) o simulato dà corpo ad una notorietà, si è sui giornali e in TV. In diversi casi vi era l’aspirazione a diventare cantanti, calciatori… molto diffusi tra i bambini ma poi viene fatto l’esame di realtà e si scopre che “solo uno su mille ce la fa”. La maggior parte elabora la situazione e l’aspirazione magari diventa hobby.

Diventare assassini può strutturare identità negative

Diventare delinquenti e addirittura assassini può quindi strutturare identità negative e ciò avviene nella mente della persona (averlo fatto, essere segnati per sempre) e nel corpo sociale. Tanto che ancora si ricordano tanti gravissimi delitti, vi è una cultura del giallo e delle inchieste. Il male, inquietante e sconosciuto, attira. Talora in carcere gli autori di efferati delitti ricevono lettere di fans, diventano famosi.

Ma quel che più rileva si attiva un sistema quello della giustizia penale, del carcere che può svolgere la funzione contenitiva, strutturante, regolatoria. A suo modo si “prende cura” intensamente sia con le regole, gli aspetti repressivi, punitivi, sia con quelli rieducativi e di reinserimento sociale, a partire però da quel fatto reato tanto grave e tragicamente irreparabile. Si prende cura per molti anni con un impegno costante e altamente significativo (anche economico) per tutta la comunità.

La possibile strutturazione identitaria di un agito e il carcere come modello di contenimento che si prende cura nel tempo fanno riflettere su quanto questi processi fatichino a prendere forma sia nelle persone, specie nelle seconde generazioni dei migranti per le quali identità e ruoli sociali possono essere più difficili da acquisire, sia nei percorsi possibili nelle microcomunità che spesso, nonostante tanti sforzi, sono distanti, indifferenti, impotenti, incapaci di capire ed agire. Comunità perplesse, tra malinteso senso della tolleranza e espulsione, sofferenti e solidali nelle quali ci si può camuffare, nascondere. Lo ha fatto Moussa per un mese dopo il fatto. Essere dentro ed essere fuori, anonimi o “speciali”. Un’ambivalenza verso il diverso che rischia di connotare tutti.

Prendersi cura dell’altro

Scegliere di prendersi cura dell’Altro come parte ineludibile del comune destino è il modo per fermare la spinta aggressiva e distruttiva dell’umano. Lo fa il carcere dopo il reato ma vale la pena farlo prima, unendo tanti sforzi diversi, nella comunità.

Dare una risposta di senso ai grandi perché diviene fondamentale: Perché vivere? Per cosa impegnarsi? Per quale futuro? Se la vita della persona non vale la pena di essere vissuta, la vita stessa dell’altro o anche la propria può essere soppressa. Viene meno la forza della coesistenza, dell’esistere insieme per creare un senso ad un’esperienza unica e irripetibile. Finita troppo presto per una donna, Sharon Verzeni, con le cuffiette e sotto il cielo stellato di luglio. Riflettere sul perché credo sia un nostro dovere.

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