Non so di che Rems sono…
So solo com’è la nostra.
Abbiamo aperto a inizio 2017. Allora, tra timore e sfida, tra esperienza e voglia di imparare ancora, paradossalmente avevo le idee più chiare.
Come ho già avuto modo di dire in altre sedi, l’esperienza di cura dei pazienti gravi, anche autori di reato in Misura Giudiziaria, era ciò che avevo imparato in 30 anni di lavoro in Comunità Terapeutica.
Abbiamo sempre curato pazienti gravi, abbiamo trovato risorse laddove altri non le trovavano, abbiamo dato dignità e casa a tantissimi che guariti non sono ma che hanno trovato una “residenza emotiva” veicolo di conoscenza e critica.
Il paziente protagonista. L’operatore al servizio del paziente, gratificato da piccoli risultati che hanno sempre compensato grande fatica.
Poi è arrivata la Rems.
Un contenitore nuovo, che personalmente non mi ha mai spaventato.
Io ero sempre lì, nella mia camicia e come dice Guccini avevo ed ho tuttora “la forza che serve a dire… si comincia“.
Stesso modello di lavoro ma contesto completamente diverso.
Altri interlocutori oltre ai curanti dei Csm.
Mi è piaciuto imparare il linguaggio dei giudici ed entrare un po’ nel loro pensiero.
Questo ha modificato di molto la mia visione del paziente.
Non più affidato al gruppo comunitario, bensì ad un gruppo più allargato e variegato.
All’inizio, nei primi anni, avevo la percezione che quel contenitore chiamato Rems fosse veramente una risorsa importante e tutti gli attori del processo di cura ne fossero consapevoli.
Pazienti compresi.
Si progettava con i curanti del Csm di appartenenza, i nostri studi ricevevano molto spesso nell’arco della settimana psichiatri, assistenti sociali del territorio.
Si formulavano progetti e dimissioni, consapevoli di accollarci tutti un po’ di rischio (si rischia sempre un po’ quando si trasferisce un paziente verso una comunità terapeutica o comunque un luogo di cura più improntato al rapporto con l’esterno, meno contenitivo e più stimolante). Si programmava, ci si rapportava con Magistrati ed Avvocati e si affidava il paziente.
Ogni dimissione pensata, sudata e realizzata, era una spinta entusiasmante che dava il senso al nostro esistere li dentro.
Tutto ciò non è più così.
Negli ultimi due anni circa, abbiamo assistito ad un impoverimento imponente e tangibile delle risorse territoriali, in termini di persone e curanti.
I Magistrati, di conseguenza, hanno iniziato ad inviare persone sconosciute ai Csm, mai curate, magari ricoverate solo dopo la commissione di un reato, più o meno grave. Questo ha notevolmente appesantito il meccanismo Rems ed ha portato nuova difficoltà nel nostro lavoro.
Ora dobbiamo cercare innanzitutto i curanti territoriali per iniziare un progetto di cura e prima ancora di conoscenza.
Peccato che i curanti non ci sono.
Peccato che i pochi che ci sono risultano oberati da mille compiti che di fatto impediscono loro di avere tempo per tutti.
Sì, perché per curare ci vuole tempo.
Per avere in testa un paziente ci vuole tempo e voglia.
Anche di rischiare come dicevo.
Inteso che i curanti prima o poi si trovano, inteso che vogliano accollarsi con noi progetti di dignità ed evoluzione clinica, ora non ci sono più i posti in Comunità Terapeutica.
Le comunità del nostro gruppo, che hanno sempre accolto la maggior parte dei pazienti Rems risultano tutte piene e con lista d’attesa.
Allora iniziamo improbabili ricerche verso altre realtà residenziali, che seppur possano risultare adatte, anch’esse sono strapiene.
Ma l’ingranaggio delle assegnazioni è inesorabilmente avviato, ancor più se le risorse alternative alla Rems risultano, come ho detto, impraticabili.
Ci troviamo in un paradosso che ha del grottesco quando riesco a pensarlo astraendomi dalla quotidianità.
Ossia, una nutrita lista di attesa (in questo momento siamo arrivati a sette pazienti alcuni dei quali stazionano in Spdc in attesa di entrare immaginiamo con quale aggravio di disagio per loro e per i curanti del Spdc che hanno di fatto posti bloccati per mesi).
Abbiamo un bel numero di pazienti che clinicamente sarebbero pronti ad andare in Comunità ma le comunità non hanno posto.
Da una parte ci chiedono posto, dall’altra non possiamo dimettere.
C’è qualcosa che non funziona.
Forse la nostra Rems.
Forse la Rems stessa.
Forse la Sanità in generale.
Di fatto se mi si chiede che cosa è la nostra Rems, alla luce di tutto ciò rispondo che è l’ennesimo mostro burocratico.
Temo che la risposta giusta sia la terza: l’insufficiente risposta dei Servizi psichiatrici li accomuna alla Sanità generale, con i Medici di base sempre più confinati in ruoli burocratici e con l’attesa di sei mesi e più per una mammografia. Tornando al nostro campo, un tempo ogni contraddizione si poteva ignorare perchè l’OPG, pozzo senza fondo, la inghiottiva e celava anche per sempre: ciò valeva per tutti i manicomi.