In riferimento al problema del sovraffollamento degli Istituti di Pena, il ministro della giustizia Carlo Nordio ha avanzato, tra le altre, la proposta di utilizzare per i detenuti con tossicodipendenza e pene brevi le comunità terapeutiche. Tralascio ogni commento sul perché non vengano adottati provvedimenti legislativi come quello della “liberazione anticipata speciale” (progetto di legge Giachetti) o sull’indulto che potrebbero essere molto efficaci, e mi limito ad alcune considerazioni sulla proposta del ministro. Già oggi per i tossicodipendenti “certificati” è possibile, ai sensi della legge 309/1990, attivare misure alternative alla detenzione in Comunità Terapeutiche.
Serve la motivazione della persona ad intraprendere un percorso di cura impegnativo. Talora questa motivazione manca o è insufficiente, insicura e labile. Ancora più complessa è la situazione quando l’uso di sostanze è commisto con problemi psicologici o psichiatrici e rilevanti elementi sociali: mancanza di documenti di identità, residenza, casa, lavoro e rete sociale.
La mancanza di disponibilità di risorse e posti
Per la sopravvenuta infermità mentale in corso di detenzione si possono utilizzare le misure alternative in deroga sulla base della sentenza 99 /2019 della Corte Costituzionale. Quindi le norme ci sono e viene da chiedersi quali siano gli utilizzi reali.
Nella proposta Nordio dov’è la novità? Visto che è stata solo annunciata.
Al momento si possono fare solo ipotesi. È in atto un ripensamento delle politiche sulle droghe, abbandonando la logica della “drug war” in favore di approcci di riduzione del danno e di una maggiore tolleranza, che tra l’altro avrebbero anche il merito di ridurre le detenzioni comprese quelle preventive? Oppure si pensa ad un incentivo delle misure alternative, magari sostenute anche economicamente dallo Stato?
Queste misure potrebbero essere realizzate in Comunità Terapeutiche o nel territorio prevedendo diritti alla casa, formazione lavoro, affettività e socialità magari sostenuti anche da budget di salute. Approcci e progetti che possono favorire la costruzione di consenso, motivazione e fiducia. Si tratterebbe di un passo decisivo verso una concezione della pena costituzionalmente intesa ed una cura olistica altamente personalizzata in grado di affrontare i micro determinanti sociali della salute e realizzare un vero superamento della cultura dello scarto e dell’abbandono.
Come organizzare al meglio le misure alternative alla detenzione
O invece si pensa ad un rapido trasferimento di persone (quante e quali?) dagli Istituti di Pena “solo” alle Comunità Terapeutiche facendole diventare di fatto quasi appendici del circuito penale, al mero fine di decongestionare un po’ le carceri? Un’operazione che, in assenza di altri provvedimenti, può essere critica per le stesse strutture le quali correrebbero il rischio di vedere cambiato il mandato da terapeutico a custodiale. Una sorta di esportazione della pena al privato seppure “sociale”?
Provvedimenti con molteplici prescrizioni posti in capo alle persone o alle Comunità Terapeutiche? Costi a carico dello Stato o del solo sistema sanitario regionale? Punti critici che richiedono chiarimenti. La natura sostanzialmente diversa tra pena e trattamento rieducativo da un lato e programmi di cura dall’altro, obbliga ad una grande chiarezza rispetto a mandati, metodi e obiettivi, controlli.
Per costruire un sistema penale meno “carcerecentrico” occorrono norme coerenti e lo stesso per un sistema di cura di comunità. Nel rispetto reciproco e nella doverosa collaborazione interistituzionale un punto di incontro è possibile e la proposta potrebbe essere interessante se tiene conto non solo degli aspetti penali ma soprattutto di diritti, doveri, mandati e responsabilità preservando le competenze, le condizioni per la cura e la salute secondo un consolidato patrimonio delle comunità terapeutiche.