Vaso di Pandora

Marijuana libera. L’America scopre i rischi del business “Dite che fa male”

Commento all’articolo di F. Rampini apparso su La Repubblica il 07 gennaio 2019

Si riprende un articolo di Alex Berenson apparso di recente sul New York Times.

Esso mette in guardia contro la sempre più diffusa accettazione del consumo anche non medico della marijuana, evidenziando una serie di punti. C’è la dimensione commerciale che vede protagonisti i grandi produttori di sigarette, pronti a riconvertirsi per rifornire questo attraente mercato (il che mi pare  tolga a questo consumo il vecchio fascino del proibito, dell’alternativo, del contrasto all’establishment economico e politico). C‘è il crescere delle concentrazioni  di THC richieste e offerte dai fornitori. C’è la conferma, sostenuta da alcuni studi, del potenziale psicotogeno di questo consumo; e dell’aumento dei reati violenti negli Stati USA che lo hanno liberalizzato.

Per coincidenza credo casuale,  l’articolo di Repubblica esce nel momento in cui in Parlamento si avanzano proposte di liberalizzazione anche nel nostro paese.

Non mi sento di prendere posizione sull’opportunità o meno di un tale provvedimento, ma forse si può dire “nihil sub sole novi”. Le sostanze psicoattive tutte hanno sollecitato risposte le più variegate sul loro potenziale positivo o negativo, e in questo secondo caso con pareri difformi sulla opportunità e utilità di un divieto.  Mi sembra che la storia lo dimostri, per ciascuna di esse.

Cocaina: principio attivo delle foglie di coca da sempre usato dai contadini andini come rimedio alla fatica aggravata dalla carenza di ossigeno, è stata isolata ed è entrata  nel consumo europeo  e nel relativo circuito commerciale a metà del secolo decimonono. Fra l’altro ha attirato l’attenzione, come sappiamo, di un giovane Freud che ne apprezzava la capacità di inibire fame, sete, sonno, e si proponeva di precisarne meglio le indicazioni terapeutiche: la difendeva anche dalla accusa di divenire sostanza di abuso, affermando che ciò si verificava solo quando la si usava come sostituto “innocuo” della morfina, in persone quindi predisposte alla dipendenza. L’ha personalmente usata anche per un intervento assai banale: per ridurre la congestione della mucosa nasale.

Il divieto è arrivato ai primi del ’900.

Oppiacei:  L’origine dell’uso dell’oppio si perde nella notte dei secoli. Nella storia relativamente recente, si ricorda l’ingente produzione indiana e la forte diffusione del consumo in Cina. In Europa, la prima più vasta utilizzazione è stata quella del laudano, così chiamato, pare, perché ritenuto “laudabile”: può essere interessante ricordare che, molto tempo dopo, altrettanto elogiativo è stato il nome assegnato all’eroina, sostanza che fa essere – o sentire – “eroi”.    L’oppio ha affascinato alcuni intellettuali dell’800: va ricordato Baudelaire con le sue “confessioni di un mangiatore d’oppio” riprese da un testo di De Quincey; o E.A.Poe che ha riportato in più di un’opera la sua esperienza personale di consumatore di oppio (oltre un secolo dopo, uno scrittore di talento come T. Leary è stato parimenti sedotto dalla LSD). La morfina, isolata ai primi dell’800, è presto entrata nell’uso medico e ricreativo. L’eroina è stata poi proposta come suo sostituto “innocuo”.

Cannabis e derivati: di hashish parla Marco Polo, evidentemente in contesto extraeuropeo; ma pare ve ne sia un accenno anche il Plinio. Entra decisamente nel mondo occidentale nel secolo decimonono: a Parigi nel 1850 alcuni intellettuali fondano il “Club des Hashishin”, rifacendosi a una setta islamica sciita il cui nome deriverebbe dal consumo di Hashish, e che darebbe origine al termine “assassino”. Anche l’hashish desta l’attenzione di Baudelaire, che  in “del vino e dell’hashish” paragona gli effetti delle due sostanze.

Sulla marijuana c’è un antico testo cinese, di datazione dubbia che va  addirittura dal 2700 al 500 A.C.  Certo, in India è usata fin dal 10° secolo A.C.  Entra in misura significativa negli USA nel 1850, e viene ampiamente prescritta per le più svariate patologie: analgesico, anticonvulsivante, miorilassante, rimedio per la tosse, l’astenia, dolori articolari di tipo reumatico, asma, emicrania, delirium tremens! Viene tolta dalla farmacopea solo nel 1941; ma nei decenni successivi inizia a dilagare il suo uso voluttuario.

Questa esposizione un po’ noiosa anche se succinta serve a mostrare come sostanzialmente tutte le  sostanze psicoattive sollecitino una risposta sociale articolata e ambivalente, che va dall’accettazione entusiastica con formulazione di indicazioni terapeutiche vaste e non di rado fantasiose, fino al rifiuto carico di angoscia.  In qualche modo ciò può rientrare nella realistica ma difficile valutazione del rapporto fra benefici ed effetti – rischi secondari, che si impone per ogni farmaco. Ma quando, come in questo caso, si tratta degli effetti sulla mente, si sperimenta una sostanziale fragilità del Sé che, malgrado sia necessariamente vissuto come centro ordinatore di ogni possibile esperienza, si rivela esposto allo sconvolgimento indotto da una sostanza. Nell’avvertirsi non “padroni di sé”, si  va al di là della valutazione realistica e si fa spazio per fantasie salvifiche o persecutorie, sullo sfondo di una sostanziale angosciante ambivalenza. Questa potrebbe motivare l’uso (apotropaico?) della sostanza in certi culti religiosi.

A un altro livello si situa il dibattito sulla utilità o meno del divieto imposto per legge. Certo l’esperienza del proibizionismo americano è stata tutt’altro che incoraggiante, ma l’alcool è un caso a sé: troppo radicato nella nostra cultura per esserne rimosso, ha finito per apparirci come un vecchio amichevole compagno, esente da quel potenziale inquietante che è proprio di altre droghe a noi meno familiari.

Non ho parlato dell’alcool, anche se merita a pieno titolo il rango di sostanza psicoattiva. Esso infatti non sollecita oggi la complessa riposta di cui si è parlato, poiché fa parte da millenni della nostra cultura, ed è stato in parte addomesticato. In parte, perché fa parecchie vittime fra le persone variamente fragili. Occorre rileggersi testi antichi come il grande “Le baccanti” di Euripide, per rievocare la perturbante fascinazione che ha a suo tempo esercitato, prima di diventarci (un po’ ingannevolmente) familiare.

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