Vaso di Pandora

Comunità Terapeutiche. Storie di lavoro quotidiano: un giorno insieme a Lugano

di Roberta AntonelloSilvia Rivolta

Ci raccontava Andrea, l’educatore che ci ha accolto, che in passato c’erano solo campagne e due edifici: la Chiesa e lo stabilimento del Toblerone. Il potere della Chiesa e dell’industria. Quella del cioccolato, svizzero, apprezzato in tutto il mondo.

Oggi, in quello stesso luogo, al posto del cioccolato si producono storie di ragazzi, adolescenti che vengono coinvolti in progetti occupazionali e riabilitativi con l’obiettivo di inserirli in una progettualità, farli sentire capaci; recuperare e decorare vecchi mobili come metafora della possibilità di ridare vita a ciò che si pensava di buttare, non più buono.

Siamo a Lugano, ospiti dello Spazio Ado della Fondazione Amilcare, un centro diurno educativo per adolescenti.

Insieme ad Andrea ad accoglierci il presidente della Fondazione, il Dr. Raffaele Mattei: conoscevano il nostro gruppo, qualche adolescente del Ticino inserito nelle nostre Comunità per Adolescenti, e dopo aver letto il nostro libro “Comunità Terapeutiche. Storie di lavoro quotidiano” ha voluto che potessimo presentarlo e insieme parlare della nostra esperienza.

Sabato 14 aprile 2018, a Lugano, la presentazione del  nostro libro “Comunità Terapeutiche. Storie di lavoro quotidiano” è diventata l’occasione di un interessante confronto: dopo l’introduzione e l’inquadramento storico del dottor Salvatore Zizolfi, vice-presidente del Centro Psicoanalitico di Lugano parla Roberta Antonello.

Ricorda il contesto in cui è nata la prima comunità, difficoltà ed entusiasmo, spirito di iniziativa (che mai abbandonerà Gianni Giusto, timoniere e condottiero della REDANCIA) e la capacità di  innovare, rispondere in modo creativo ai bisogni dell’utenza, ma anche  apprendere dall’esperienza utilizzare le migliori supervisioni, riflettere sulla propria operatività.

Il libro è veramente la storia del lavoro quotidiano dei più diversi operatori: dallo psichiatra, all’infermiere, dall’educatore, allo psicologo ma anche l’artista terapeuta  e lo psicoanalista supervisore.

Storie e punti di vista, riflessioni e punti di domanda, esperienze ed emozioni. Ma soprattutto la fotografia di un continua capacità di  crescita e  di cambiamento e di utilizzo di nuove risorse. E il libro permette di condividere questo bagaglio di esperienza con chi è veramente interessato alla salute mentale e sul campo.

Silvia Rivolta sottolinea lo stile di lavoro, la coniugazione di un’attenzione psicoanalitica (cita Racamier) a lei congeniale ma anche la attenzione all’apertura al lavoro di rete, al coinvolgimento dei vari referenti esterni nella cura (la psicoanalisi multifamiliare ad esempio utilizzata nelle comunità).

Luca Modolo aggiunge la particolare attenzione messa nella relazione con lo psicotico. Relazione aperta a riconoscerlo a permettergli di riprendere il  possesso della sua esistenza. E quando aggiunge ‘spero che le comunità possano essere chiuse’  stimola tutto il gruppo ad interrogarsi sulla difficile integrazione tra i diversi mondi della cura.

Si accende un dibattito che alterna terminologie psicoanalitiche (scissione e proiezione) a termini più politici (ognuno mantiene il suo potere) ma evidenzia un comune grande interesse perché le separazioni vengano superate, perché le esperienze siano condivise, perché insomma veramente i manicomi (o luoghi di separazione) non ci siano più e la cura sia nella comunità sociale.

Condivisione di speranze ed obiettivi, richiami alle esperienze passate,  racconti di iniziative nuove e di successo come il pranzo nello Spazio Ado dove gli adolescenti del centro, si siedono allo stesso tavolo con lavoratori dello stabile, ingegneri, architetti o semplici vicini di casa, o il museo galleggiante di arte irregolare nella nave “Leon Pancaldo”  in giro per i porti italiani grazie a un’idea Redancia, iniziative che fanno sentire una condivisione di fondo anche se in contesti politici ed assistenziali diversi (a Mendrisio esiste il manicomio e nessuna comunità in Ticino).

Dopo due ore, c’erano ancora mani alzate. Voglia di parlare. Di condividere la propria esperienza, forse per sentirsi meno soli e per trovare la motivazione ad andare avanti, nonostante la fatica.

Ma l’aperitivo preparato dai ragazzi che ci ospitavano ci aspettava. Cibo preparato con cura.

Il sole splendeva a Lugano quella mattina.

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