Vaso di Pandora

L’eco di una cura differente: riflessioni e metafore di una metodologia riabilitativa, tra contenimento e libertà

Il vostro desiderio è la nostra meta.”

Mi è capitato di sentire questa frase da uno psichiatra con cui ho avuto, ed ho ancora, il piacere di collaborare. Ricordo come questa frase mi colpì in modo particolare, interrompendo la presentazione di un progetto cui stavo lavorando, per riportare il focus al centro, sulla natura stessa della nostra professione.

Oggi, mentre cammino sulla spiaggia in questa strana estate novembrina, la risento risuonare dentro di me con una chiarezza nuova.

Il mare davanti a me è un mosaico di luci e ombre, il vento muove i capelli e solleva piccole onde che si frangono sugli scogli. Gli stivali, di pelle ormai consumata dagli anni, affondano appena nella sabbia umida, lasciando impronte che il mare e il vento si affrettano a cancellare.

Sento il contrasto tra il calore del Sole e la freddezza pungente dell’aria: un equilibrio instabile, ma vivo. Mi accorgo che questo contrasto possa raccontare qualcosa anche sul nostro lavoro in psichiatria — del calore indispensabile per comprendere e avvicinarsi al paziente, e di quella freddezza a tratti necessaria per non lasciarsi travolgere e offrire un contenimento sicuro.

Ogni passo mi fa sentire parte di un ambiente in movimento, proprio come le persone che accogliamo nel percorso terapeutico: sempre diverse, sempre mutevoli, eppure mai scontate.

Ognuna portatrice di desideri, progetti, e di un piano di vita che aspetta solo di esserci svelato.

Il centro

Mi fermo e mi volto verso il mare. Il rumore delle onde è un richiamo continuo, quasi ipnotico. Mi rendo conto di essere al centro di questa scena: da un lato la vastità del mare, dall’altro la solidità della terra. È una posizione fragile e potente allo stesso tempo, che richiede equilibrio, consapevolezza, presenza.

Nel nostro lavoro, mettere al centro il paziente significa assumere quella stessa posizione.

Non per osservarlo dall’alto, ma per guardare il mondo dal suo punto di vista. Significa riconoscere la sua soggettività come bussola, accogliere la complessità delle sue emozioni e dei suoi comportamenti come parte di un paesaggio che merita rispetto.

Assumere questa posizione, dunque, può significare riconoscere un processo dinamico di aggiustamento reciproco: il paziente e l’équipe si muovono l’uno verso l’altra, tentando di tracciare una rotta condivisa. Il compito del professionista è creare uno spazio sicuro dove questa oscillazione possa avvenire, senza perdere l’orientamento.

Adottare questa prospettiva significa anche osservare attentamente le sfumature: un silenzio può contenere un messaggio, uno sguardo un’emozione nascosta. Questa attenzione è parte della pratica metodologica, che richiede pazienza, ascolto e capacità di modulare la propria presenza.

Ivan: un ragazzo all’apparenza spiacevole e maleducato. Durante l’ennesimo accompagnamento in ambulanza, mi guarda e, dopo un breve dialogo, per la prima volta in quarant’anni, ammette la propria patologia.

È un momento di verità semplice e disarmante.

Accetta la terapia proposta in reparto e per mesi va meglio: parla, partecipa, ride.

Poi torna l’altalena. Mettere il paziente al centro della propria pratica significa anche riconoscere il limite: non tutto si può comprendere, non tutto si può cambiare. Ma si può restare presenti, anche nel disordine.

Si sa che un percorso non è mai lineare, ma si cammina insieme, come tra onde e risacche. L’importante è restare, essere lì quando serve.

L’equilibrio

Mi siedo su una scogliera, levigata dal tempo e dal sale. Le onde si infrangono sotto di me, regolari e imprevedibili allo stesso tempo. L’eco del mare cresce, poi si attenua, poi torna più forte. A tratti qualche spruzzo mi raggiunge: freddo, improvviso, ma vivo.

La cura psichiatrica può somigliare a questo movimento oscillante. Quando il contenimento è eccessivo, il mare si ritira: il paziente non può espandersi, esplorare, respirare. Quando invece il contenimento è troppo debole, le onde si infrangono con forza e travolgono, lasciando la persona sola nell’abbandono.

Trovare il giusto livello di contenimento significa ascoltare il ritmo dell’altro e del contesto, regolare la propria presenza, adattare il metodo al momento.

L’equilibrio metodologico è, in fondo, la sintesi tra passione ed empatia – il calore del Sole che scalda e permette la vicinanza – e professionalità e distacco – il vento freddo che tiene lucida la mente e preserva il ruolo terapeutico. È l’arte di non farsi inghiottire dal coinvolgimento emotivo, ma nemmeno irrigidirsi nella distanza. È restare umani, pur mantenendo la rotta del metodo.

Ogni intervento diventa un atto consapevole: un gesto, una parola, un confine stabilito con chiarezza diventano passi orientati ad accompagnare ogni paziente in modo unico e irripetibile.

Smoothie: una ragazza piacevole e volenterosa. Durante il percorso vengono valorizzate le proprie abilità e, con esse, l’immagine che ha di sé.

Più volte la vedo prendersi cura degli ospiti più fragili, mettendo loro il bavaglio, offrendo aiuto con delicatezza, o semplicemente offrendo vicinanza a chi rischierebbe di essere condannato alla solitudine.

Un atteggiamento che mostra empatia e onore. Fuori dalla struttura, però, tutto diventa più difficile: la mascherina che porta sempre sul viso sembra una protezione e insieme una barriera volta a proteggerla dal mondo esterno.

Quando svolge attività che le piacciono – dipingere, cucinare, ascoltare una fiaba – la toglie.

Non la si forza, la si accompagna: tra valorizzazione e riconoscimento, evitando l’abbandono. L’equilibrio è questo: un passo accanto all’altro, mai davanti, mai dietro.

L’equipaggio

Il Sole si vela dietro nuvole grigie, e il mare cambia colore. Lontano, una barca a vela taglia l’orizzonte, piccola ma sicura. Mi colpisce il suo equilibrio: sembra fragile, ma procede con una grazia che nasce solo dall’intesa tra chi la guida e chi la sostiene.

Pensoa noi: all’équipe. In psichiatria, lavorare insieme significa riconoscere che nessuno può “tenere il timone” da solo. Ogni professionista — medico, psicologo, infermiere, OSS — rappresenta un elemento essenziale di quell’equipaggio, un punto di forza di un’imbarcazione comune.

Quando la sinergia è reale, il gruppo diventa un organismo vivo: si comunica anche nei silenzi, si corregge senza umiliare, si sostiene senza giudicare.

Una buona équipe non è quella che non sbaglia mai, ma quella che sa riflettere su ciò che accade e ne trae un’occasione di crescita comune. L’autenticità delle relazioni interne influenza la qualità della cura più di qualsiasi protocollo. In fondo, un equipaggio affiatato sa che la tempesta non si evita, si attraversa insieme.

L’adattamento alle condizioni delle persone che vorremmo aiutare è continuo: alcune richiedono maggiore presenza, altre più autonomia. L’équipe deve dialogare costantemente per modulare l’intervento, proprio come l’equipaggio di una barca regola le vele in risposta al vento e alle onde.

Clay: immersi in questo paesaggio, come non parlare di lui, che di mare ne ha visto anche troppo.

Arrivato in Italia su un barcone, approda da noi dopo diversi anni dallo sbarco. Delirante, autore di reato, per molti pericoloso. A molti fa paura.

Con il tempo, e grazie a un lavoro paziente e corale, la sua storia cambia. La regolarizzazione è in corso, la stabilità conquistata giorno dopo giorno.

Ora, dopo anni, il suo quadro clinico è notevolmente migliorato, la propria posizione giuridica in fase di risoluzione. Lui, motivato a rendersi utile, pronto e motivato per una mansione lavorativa, inizialmente, protetta.

Un lavoro di squadra – psichiatra, psicologo, assistente sociale, educatori – hanno ribaltato una storia che sembrava perduta.

Quando le forze si uniscono, anche il mare più scuro può diventare navigabile.

Il capitano/a

Il giorno si spegne lentamente e, con esso, la luce che fino a poco fa scaldava la pelle lascia dolcemente il posto alla sera. Come se tutto il paesaggio fosse accarezzato da un velo leggero.

Il vento aumenta, e in lontananza quella piccola barca continua la sua rotta, diretta chissà dove, come guidata da una mano invisibile. Ogni equipaggio ha bisogno di un capitano, ma chi lo è davvero, in una comunità terapeutica?

La leadership in psichiatria è una forma di cura nella cura. Un buon capitano non impone, orienta e ispira. Promuove l’iniziativa personale, valorizza le differenze, ma mantiene una rotta chiara.

Evita l’anarchia senza soffocare la creatività. Insegna a ogni membro a fidarsi del proprio ruolo, ricordando che la direzione finale non appartiene a chi guida, ma al paziente il cui benessere rappresenta la nostra vera direzione.

Essere leader significa anche accettare il dubbio, la fatica e la solitudine delle decisioni. È un atto di responsabilità, coraggio e di fiducia, non di potere.

Con queste parole vorrei ricordare, tra gli altri, un altro psichiatra che ormai non c’è più, che ha sempre guidato l’équipe ponendosi come membro alla pari, senza mai un giudizio, fino all’ultimo sempre con il sorriso sulle labbra.

Conclusione

Ormai è buio. La sabbia è più compatta, il mare più rumoroso.

La barca è sparita oltre l’orizzonte, mantenendo fede alla propria rotta, io riprendo il cammino verso casa, lasciando che l’eco del mare accompagni i miei passi.

Ogni giornata di lavoro in psichiatria è così: ha il suo mare, il suo vento e la sua luce mutevole.

Alcuni giorni sono limpidi, altri tempestosi, ma in ognuno c’è un momento in cui tutto trova senso — una parola, uno sguardo, un silenzio condiviso. La cura non è mai un gesto isolato: è un’eco che rimbalza da un cuore all’altro, trasformandosi ogni volta.

Questo mi porta a un’eco più lontana: un modo di pensare e di sentire la cura che viene da un’altra epoca, quando il nostro mestiere è stato rivoluzionato.

In ogni gesto quotidiano, in ogni scelta clinica o relazionale, questo principio si rinnova: curare significa restituire dignità, voce, possibilità ricordandosi che non c’è equilibrio senza riconoscimento dell’altro come soggetto libero, né contenimento che possa esistere senza rispetto.

Mentre lascio la spiaggia, sento ancora quella frase risuonare dentro di me: “ Il vostro desiderio è la nostra meta.” Forse la cura è proprio questo: camminare insieme verso una metà che cambia forma, ma che non smette mai di chiamarci.

Un abbraccio, buona notte.

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 Il Vaso di Pandora, dialoghi in psichiatria e scienze umane è una rivista quadrimestrale di psichiatria, filosofia e cultura, di argomento psichiatrico, nata nel 1993 da un’idea di Giovanni Giusto. E’ iscritta dal 2006 a The American Psychological Association (APA)

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