Vaso di Pandora

Le comunità terapeutiche Redancia 1 e Redancia 2

di Giovanni Giusto Roberta Antonello

Un po’ di nostra storia

[Tratto da “Il Vaso di Pandora” – Vol. II, n° 3, 1994]

La definizione di comunità terapeutica implica a mio modo di vedere la necessità di considerare alcuni elementi:

1)Il dato storico, vale a dire come nascosto e si sviluppano nel mondo le comunità terapeutiche psichiatriche e quindi anche il periodo in cui sorgono, in relazione alla politica sanitaria ed alle leggi che hanno regolato l’assistenza psichiatrica.
2)Il significato specifico dei due termini: comunità e terapeutico, che evidentemente sottendono un’idea di organizzazione e di finalità.
3)Il rapporto con le altre agenzie terapeutiche con riferimento quindi al concetto di rete.
4)Il tema inerente alla residenzialità e quindi alla famiglia allargata e vicariante.
5)Il rapporto con la famiglia e l’ambiente sociale originario.

Vedrò di analizzare meglio i singoli punti:

1) L’intervento psichiatrico
L’intervento psichiatrico si è sempre caratterizzato per l’influenza di forti spinte ideologiche determinate soprattutto a mio avviso dal dover sancire un concetto: quello di “norma”, estremamente variabile, difficilmente determinabile prendendo a prestito concetti propri della medicina come la fisiologia e la patologia. Elementi economici culturali etnici, climatici, di politica sociale ecc., influenzano evidentemente tale definizione.
Il confronto con la malattia mentale grave ha da sempre necessitato uno sforzo di organizzazione di un sistema alternativo atto a contenerla; in tal senso potremmo da un certo punto di vista considerare la malattia mentale come l’aspetto più drammaticamente, in quanto in gran parte inconsapevole, rivoluzionario del tipo di organizzazione vigente in un qualsiasi periodo.
E qualsiasi periodo prendiamo in considerazione, vedremo un tentativo di risposta che, mi sembra di poter sintetizzare, prende in considerazione sia gli aspetti strutturali, vale a dire la maggiore o minore attenzione alla persona oscillando tra atteggiamenti di tipo simmetrico e di tipo complementare.
In questo senso si può intendere il divenire dell’assistenza psichiatrica ed in particolare un tipo di assistenza non tanto intenso o non solo alla “restitutio ad integrum”, ma a migliorare la qualità della vita del sofferente di disagio psichico attraverso l’integrazione nel sociale e alla non separazione, quindi al recupero della persona secondo un metodo che definirei ecologico di rispetto della diversità e delle reali potenzialità dell’altro evitando interventi brutalmente normativi.

2) Comunità
Quando si parla di comunità si è soliti riferirsi ad un concetto “terapeutico” di relazione in gruppo; non so quanto questo termine corrisponda nella testa dei vari operatori ad un’idea comune (utilizzo volutamente il gioco di parole per sottolineare il problema della comunicazione).
Penso che sia necessario per il prosieguo del discorso chiarire alcuni punti che ci riguardano:
a)La possibilità di comunicare insieme trasversalmente e circolarmente tra tutti i componenti del gruppo racchiuso all’interno della struttura (è una delle prerogative essenziali a rendere il contesto “animato” e “vitalizzato”.)
b)L’opportunità di “stare insieme” e di “condividere” la quotidianità, al di là di ruoli predefiniti, apprezzando il modo di essere altrui considerando la peculiarità.
c)La tolleranza della diversità.
d)La sensazione di sentirsi protagonisti ed attori del divenire dell’esperienza insieme.

Consideriamo ora il secondo termine e cioè “terapeutico”.
Ciò implica un fine, un progetto.
Gli ospiti della comunità quindi si differenziano: avremo coloro che sono lì per curare e coloro che devono o desiderano essere curati.
L’aspetto del dovere che ho volutamente sottolineato contrasta con uno dei principi della comunità che è la condivisione e quindi l’accettazione attiva da parte dell’ospite della proposta che gli viene fatta al momento dell’inserimento in comunità.
Invece il desiderio è espresso dal paziente ed in questo caso lo staff deve essere sufficientemente esperto per interpretarlo in modo adeguato evitando interferenze fondate più che altro su desideri del terapeuta anziché del paziente.
L’aspetto di differenziazione che ho prima evidenziato va approfondito: una separazione rigida attraverso il tentativo di applicare tecniche specifiche che si sviluppano a partire da altri contesti, come possono essere quelli ambulatoriali o ospedalieri, contrasta evidentemente con la definizione che abbiamo dato di comunità e quindi in questo caso non potrebbe coabitare questo aspetto con i mezzi terapeutici.
Un’eccessiva vicinanza con la possibile conseguente confusione, per altro, cozza contro la tendenza insita nel processo terapeutico che mira all’individualizzazione.
Allora appare evidente che le caratteristiche enunciate prima, in quanto proprie della comunità, diventano esse stesse parte determinante del processo terapeutico e la definizione di questo deriva dall’organizzazione della struttura, con particolare riferimento alle dinamiche di gruppo ed alle problematiche della comunicazione tra gli operatori, tra questi e gli ospiti e tra i residenti e l’esterno.
Sorge a questo punto la necessità di individuare dei compiti e delle competenze specifiche per cui la professionalità dell’operatore di comunità diventa uno dei punti principali da affrontare.
Questa considerazione apre un tema molto importante per la conduzione della C.T. che è quello relativo alla formazione. Non penso di esaurirlo in quest’ambito, ma vorrei sottolineare un aspetto che alla luce della nostra esperienza mi pare fondamentale e cioè che il processo dell’apprendimento non può prescindere dall’esperienza diretta e dalla costante riflessione su di essa da effettuare sia con una supervisione interna che esterna al gruppo di lavoro, questo permette allo staff di realizzare lo stesso spostamento dentro-fuori che si tenta di realizzare per il paziente.

1)LA RETE
Possiamo quindi affrontare il terzo punto a partire da questa considerazione di “spostamento” che implica la necessità che esistano altre agenzie terapeutiche e sociali a cui riferirsi “dopo”.
Abbiamo potuto notare come l’esito della terapia-riabilitazione compiuta all’interno della comunità sia direttamente proporzionale alla valutazione, prima dell’ingresso, dell’esistente fuori, alla possibilità di operare sull’ambiente esterno in collaborazione con le altre agenzie, mentre il paziente è ospite della comunità, e alla successiva disponibilità di accoglimento di cui può usufruire il paziente una volta dimesso.
Ribadiamo quindi ancora una volta come la C.T. non sia che uno dei tanti strumenti di intervento utilizzabili in modo integrato nella complessa opera di cura-riabilitazione del paziente psicotico. Estremamente importante è quindi la collaborazione del S.S.M., del servizio ospedaliero di diagnosi e cura (SPDC) dei centri diurni, degli appartamenti protetti e di tutte quelle opportunità di inserimento lavorativo e sociale da recuperare sul territorio di appartenenza.

2)LA FAMIGLIA NUOVA
Come ho già detto il risiedere in un luogo insieme ad altre persone comporta una serie di problemi, uno dei quali è la familiarizzazione.
Una delle caratteristiche più o meno comuni dei residenti è una certa dose di conflittualità con la famiglia e l’ambiente di origine.
Spesso una delle richieste fatteci dai servizi di salute mentale che ci inviano il paziente è quella di un momentaneo allontanamento da casa per detendere l’ambiente: gli stessi pazienti spesso lo riconoscono.
Tra i compiti che ci proponiamo c’è quindi ovviamente anche quello di creare a loro un ambiente in cui vivere che sia più possibile caratterizzato da un “buon clima” in qualche modo alternativo al precedente.
Esistono a questo proposito connotazioni riparative nel gruppo curante che possono rischiare di sfociare in aperta conflittualità con i familiari (in pratica è come dire che noi siamo più bravi di voi). Evidentemente un tale atteggiamento, semplicistico, rischia di pregiudicare non poco il “dopo”.

3)LA FAMIGLIA ORIGINARIA
È quindi indispensabile cercare la collaborazione dei parenti, evitando atteggiamenti di simmetria e considerarli come parte integrante del progetto terapeutico individuando i loro bisogni che spesso si manifestano anche attraverso i sintomi del congiunto.
Bisogna quindi dare loro qualche cosa “in cambio”.
Un iniziale atteggiamento valido mi sembra essere quello dell’attenzione e della condivisione, evitando di “pontificare” dall’alto della propria scienza.
I gruppi psicoeducazionali che mensilmente teniamo nelle nostre strutture, oltre che i contatti costanti coi singoli familiari, sembrano avere la funzione di tranquillizzarli e permettere una iniziale ridefinizione del problema “parente psicotico”.

“REDANCIA 1” e “REDANCIA 2”
Dopo queste brevi considerazioni iniziali che permettono di delimitare il “campo” del nostro intervento descriverò più nel dettaglio il nostro operare nelle due comunità terapeutiche che gestiamo.
REDANCIA1 e REDANCIA 2 sono strutture diverse per dimensioni e per collocazione, rappresentano dal punto di vista dello “strumento” due momenti differenziati dell’opera di cura-riabilitazione, non necessariamente intercambiabili e non necessariamente uno successivo all’altro anche se questo può succedere.

REDANCIA 1 è situata a circa tre chilometri dal primo paese; i collegamenti, costanti due volte al giorno, sono fatti tramite il pulmino della comunità, esistono inoltre mezzi pubblici che hanno però scarsa rilevanza.
Si tratta di una grande struttura di tipo alberghiero in cui sono privilegiati gli spazi interni di soggiorno (sala riunioni, palestra, sala TV, sala biliardo, bar autogestito a scopo riabilitativo dagli stessi pazienti); ogni ospite ha però una sua camera con i servizi per cui la privacy è rispettata e se uno lo desidera può temporaneamente isolarsi.
Gli spazi esterni, dedicati alla ricreazione ed al tempo libero, sono costituiti da un campo di calcio e da alcuni spazi verdi.
Il numero massimo di ospiti è di 40 unità.
Si tratta di persone di età compresa tra i 20 e i 40 anni affetti per lo più da disturbi di tipo dissociativo, affettivo o con disturbi del carattere.
La provenienza è varia; in genere sono i servizi di salute mentale delle varie U.S.L. che propongono il paziente, manifestando un progetto al quale l’équipe della comunità può aderire o meno.
Dopo aver discusso del caso con i committenti si stabilisce un incontro con il futuribile ospite per una reciproca conoscenza e per valutare il grado di accettazione della proposta che gli viene fatta: si fa quindi una specie di contratto terapeutico.
La fase successiva è quella di presentazione a coloro che già sono residenti.
Per far ciò si utilizza lo spazio dell’assemblea.
Esistono quindi due fasi; una che sta nella testa dell’équipe curante: “il paziente può essere inserito in comunità”, un’altra che è appannaggio del gruppo degli ospiti: “accettiamo un nuovo fratello”.
Tra queste due fasi, solo a volte concordanti, è necessaria un’opera di attenta mediazione da parte della leadership, volta ad ottenere il consenso ed a evitare quindi violente espulsioni.
Pensiamo che l’organizzazione non gerarchica della C.T. non debba prescindere dalla leadership che è anche più pregnanti di significati in questo contesto piuttosto che in istituzioni in cui è preminente il ruolo.
Il nuovo ospite, viene invitato quindi a familiarizzare con l’ambiente ed aiutato in tempi successivi a personalizzare il proprio spazio con oggetti a lui consueti.
Responsabili del coordinamento del progetto terapeutico sono gli psichiatri operanti nella struttura ai quali vengono affidati i casi singoli.
Questo livello di responsabilità è relativo al tipo di organizzazione e non prevede una gerarchizzazione dei ruoli.
Per rendere più esplicito il concetto, riporto alcune definizioni che ritengo fondamentali per approfondire poi il discorso:
a)Operatori generici: sono coloro che all’interno della C.T. si occupano di terapia occupazionale, di gestione della quotidianità, di animazione, di contatti personali con i pazienti e dei “gruppi stare assieme”.
b)Operatori “gruppo specializzati”: sono coloro che si occupano di attività di gruppo specifiche e cioè nel nostro caso della psicomotricità, dell’arteterapia, del gruppo di discussione, del gruppo di lettura e della musicoterapia oltre che dell’assemblea che come ho avuto occasione di dire rappresenta il punto centrale della vita di comunità.
c)Responsabili del progetto terapeutico, del coordinamento e dell’integrazione tra le diverse attività: sono i leader che devono chiedere a tutti gli operatori ragione degli specifici interventi un’ottica di lavoro integrato, favorendo al massimo la circolarità e trasversalità della comunicazione:
-attraverso periodiche riunioni delle quali viene tenuto un verbale (settimanalmente per tre ore si riunisce tutto lo staff; ogni quindici giorni si fa una riunione tra i conduttori dei gruppi ed i coordinatori);
-attraverso relazioni scritte da inserire nella cartella di ciascun ospite dalle quali deve apparire volta per volta il significato dell’intervento sul singolo inserito nel contesto più generale della C.T.
d)Il direttore sanitario: provvede alla supervisione interna del lavoro svolto attraverso una puntuale verifica dei punti prima elencati.
e)Ogni sei mesi ogni operatore, per ciascun paziente da lui seguito o individualmente o in gruppo, deve produrre una relazione scritta da cui appaia: il progetto terapeutico, gli strumenti individuati come utili a realizzarlo, le metodologie adottate, i risultati ottenuti, le eventuali proposte.
Questa descrizione, che corrisponde a una realtà quotidiana, deriva dalla convinzione che nel lavoro di comunità l’aspetto di intervento attivo, “l’essere con” il paziente è centrale; ovviamente ognuno prima di entrare a far parte dell’équipe della C.T. ha una propria professionalità, spesso richiesta formalmente dalla norma di legge: abbiamo quindi psichiatri, psicologi, infermieri, assistenti sociali, pedagogisti, educatori, artigiani, governanti.
Ebbene ciascuno deve accettare per far parte della C.T. di spogliarsi di un ruolo a volte difensivo e rassicurante per confrontarsi di più col suo modo “di essere nel mondo” e ancor più nel “contesto particolare” della C.T.
Perciò è importante che ognuno si senta in grado di parlare di tutto e soprattutto si senta ascoltato. I rischi sono da un lato l’irrigidimento a difesa di un ruolo predefinito per cui si creano conflitti di competenza tra le varie figure professionali (è il caso che spesso si presenta nei servizi psichiatrici ospedalieri), dall’altro è quello di dare spazio ad una professionalità diffusa che promuove un’ideologia della relazione come terapeutica o psicodinamica naturalmente, negando la specificità di alcune competenze e la diversità anche di capacità tra i singoli componenti lo staff.
Vorrei dire che la formazione dell’operatore di comunità successiva alla laurea, diploma, specializzazione legalmente riconosciuti dovrebbe passare per un apprendimento basato sull’esperienza della comunità e del suo specifico, cioè le relazioni umane che le sono peculiari: da questa esperienza potrà nascere un imparare ed un sapere che si sviluppa contestualmente all’esperienza stessa possibilmente senza divisioni teoria-prassi che diventano rapidamente di ostacolo allo sviluppo anche una dell’altra. La possibilità di apprendere dall’esperienza dipenderà da modelli e teorie che non siano rigidi ed intellettualizzati, ma rivolti ad una crescita e maturazione emotiva personale e di gruppo degli operatori.
L’importanza della supervisione esterna alla C.T. ha alcuni vantaggi, quali la possibilità di discutere con un esperto estraneo al sistema comunitario di problemi sia organizzativi che di cura dell’ospite, ed inoltre l’inserimento di una persona diversa ovvia ai rischi di chiusura narcisistica del gruppo che tenderebbe onnipotentemente a pensare di essere il depositario delle situazioni migliori dei vari problemi che conseguono la psicosi.
Il concetto di conforto e riconoscimento dell’altro in uno scambio dialettico viene quindi inevitabilmente e prepotentemente a galla.
La nostra esperienza prevede incontri settimanali dello staff con uno psicoanalista e con uno psichiatra esperto anche in organizzazione dei servizi e politica sanitaria.
Oltre a ciò ogni singolo conduttore di gruppi terapeutici usufruisce di una supervisione individuale così come coloro che hanno colloqui individuali con i pazienti.
Il metodo del confronto, della discussione, dell’ascolto, viene quindi allargato da un contesto più ampio che garantisce per i componenti dello staff di realizzare, prima loro, quello spostamento dentro-fuori che dovranno poi proporre agli ospiti della C.T.
Nel concludere la descrizione di “Redancia 1” voglio spendere qualche parola a proposito di quelli che noi abbiamo definiti “gruppo stare insieme”, perché penso rappresentino un’esperienza abbastanza originale sulla quale abbiamo potuto riflettere dopo circa un anno di sperimentazione: sono stati pensati come spazio libero con frequenza settimanale in cui un operatore ed almeno due pazienti scelti a caso (ma è possibile scegliere a caso?) provavano un’esperienza di condivisione a partire da stimoli liberamente scelti: in pratica si poteva fare qualsiasi cosa venisse in mente dopo averla discussa; lo scopo era di attivare una palestra in cui gli operatori ed i pazienti potessero sperimentare una relazione svincolata da compiti preordinati, progetti, aspettative, strategie, da tutta quella roba piuttosto fredda e distante per avvicinarsi a ciò che accade, ad esempio, in uno scompartimento di un treno in cui tre viaggiatori che non si conoscono si trovano a coabitare per un tempo sufficientemente lungo.
Non è il caso di trarre conclusioni, ma mi sento di poter dire che se non altro questa esperienza ha consentito agli operatori di utilizzare anche un’altra prospettiva di osservazione e di riconoscere agli ospiti caratteristiche di “persona”, che la caratteristica di “paziente” gli impediva.

REDANCIA 2 è una villa in un luogo di antica villeggiatura, ora meno alla moda, ligure: un piccolo paese nell’entroterra savonese, in una zona molto verde e con un piacevole aperto panorama sulle colline. Circondata da un grande giardino che ospita spazi adibiti a serre, una zona per l’orto, un forno a legna, e una piccola falegnameria, è strutturata in modo da poter essere divisa in 6 appartamenti. La prima caratteristica, è quindi l’aspetto di casa e non di “struttura per”, casa di villeggiatura o di abitazione, accanto a ville di turisti ma soprattutto alle case degli abitanti, nel paese. Non esiste alcuna barriera per un eventuale controllo dei movimenti degli ospiti: il cancello è sempre aperto (di notte viene chiuso ma il muro di cinta è valicabile anche da un bambino), le porte di ingresso (varie) non sono controllabili dalla segreteria, le stanze da letto (a 2 o 1 posto), i luoghi di soggiorno, di attività, gli studi medici disposti su tre piani non hanno nessun presidio di sicurezza (ad esempio il terrazzo come qualsiasi finestra può suscitare preoccupazioni visto la completa accessibilità ecc.). A tavola c’è il vino. Chi ci abita quindi non ha nessuna protezione fisica verso una sua eventuale pericolosità per sè e per gli altri. I 20 ospiti (al massimo 22) hanno per maggioranza una lunga storia psichiatrica, molti una lunga storia di acting e trasgressioni, molti erano sul punto di essere giudicati socialmente pericolosi, tutti hanno sperimentato istituzionalizzazioni più o meno lunghe, tutti hanno verso le regole delle istituzione e le limitazioni un atteggiamento critico, ma conservano le cicatrici di esperienze di libertà negative e sono profondamente consenzienti al vivere nella struttura per curarsi.
Evidentemente perché questo avvenga è necessario per ciascun ospite un percorso conoscitivo che permetta di stabilire una relazione di fiducia negli operatori e una simpatia per e da parte del gruppo degli ospiti. Questo è avvenuto ed avviene in vari modi: partecipazione a riunioni o visite mentre è ancora degente in luoghi più protetti, pasti consumati insieme, ridiscussione con i già presenti sulla sua “simpatia”. La simpatia è qui sentire l’altro simile a sufficienza per accoglierlo, per non averne paura e passa anche attraverso le richieste di spiegazione agli operatori sulla patologia; può implicare un ingresso di pochi giorni, il rientro magari nel reparto ospedaliero poi il rientro nella comunità con una chiarificazione ed un consenso maggiore dopo una riflessione comune sui problemi che erano sorti (diffidenza, scontrosità e scontri). È collegato alla fiducia che il servizio o i curanti pongono sulla struttura: gli invianti, cioè, sono i primi a dare un valore di un certo tipo al luogo che può essere o di distacco e di abbandono di cura, terapia, riabilitazione, conquista. Gli stessi saranno testimoni del percorso se non veramente significativi, se hanno nella testa il paziente e il paziente li ha nel cuore. Ed è continuamente alimentato dalla capacità degli operatori di essere con loro sufficientemente competenti (terapeuti) ma altrettanto con loro. Mi spiego: le oscillazioni sono tra il sentire la struttura troppo poco curante, gli operatori non sufficientemente contenenti (dando loro la colpa delle inevitabili trasgressioni di un gruppo così formato) e il viverli subito dopo come troppo normativi, controllori. Gli operatori con gli ospiti, in gruppo ma anche in colloqui individuali, in piccoli gruppi, nella struttura o fuori (nel bar, nella gita dovunque) rileggono con il paziente il significato del comportamento, lo riportano al suo significato di sintomo. Se non avviene questa operazione perdono la loro terapeuticità acquistando o quella dei controllori o quella dei complici. D’altronde solo con una vicinanza sufficiente è possibile la rilettura del significato di una trasgressione: l’operatore non è solo nello studio o nella riunione ma nel bar e nelle situazioni con il paziente. È una distanza, vicinanza difficile da tenere, conservare, sopportare. Necessita di una coesione e fiducia dei membri dell’équipe divisi in compiti e ruoli diversi ma sempre “con” il paziente, fiducia alimentata dalle supervisioni interne ed esterne, dalle riunioni, ma anche dalla solidarietà che si sviluppa dopo le avventure della terapia vissute insieme. È la stessa solidarietà che fa tenere il gruppo degli ospiti (A., in crisi psicotica acuta si scaglia sui genitori e viene fermato e tranquillizzato da un misto di operatori e pazienti, B. che beve viene stoppato dal compagno quando incomincia a diventare provocatorio nel bar).
Nella casa non c’è nulla di obbligatorio: ci sono diverse attività arte terapia, ceramica, animazione, lettura, ci sono momenti di divertimento, gite o picnic, musei o sagre o mare ecc. momenti di lavoro in giardino-serra ecc., alcuni partecipano a quasi tutto, altri a quasi niente, altri ancora privilegiano un campo. L’unico momento obbligatorio è una riunione settimanale in cui vengono a galla i problemi più grossi, l’umore del gruppo, il clima più o meno distruttivo o costruttivo, di stallo o di crescita, le richieste, i programmi, le lamentele. Sono presenti quasi tutti gli operatori (tranne gli infermieri non in turno ed il personale ausiliario, l’infermiere comunque a turno partecipa). Questa riunione è di nuovo un momento di lettura terapeutica, di osservazione, di rimando di risposte dal contenente al rassicurante, all’evolutivo. Sicuramente può correre il rischio di essere il posto della trasmissione di regole, minacce, aggressioni o menzogne, il posto della paralisi e non dell’evoluzione.
Ogni paziente ha un terapeuta di riferimento (psichiatra) ed uno psicologo. La frequenza e la durata degli incontri individuali è variabile, in genere non più di due sedute settimanali. Gli incontri coi terapeuti sono comunque possibili ogni volta sia vicendevolmente ritenuto opportuno (anche attraverso una discussione).

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