Vaso di Pandora

L’anno in cui non siamo stati da nessuna parte

Commento all’articolo di G. Romagnoli apparso su La Repubblica – Robinson – del 23 maggio 2020.

Gabriele Romagnoli ci parla del viaggio, e del non-viaggio, nel tempo del corona-virus.

Ci ricorda come la globalizzazione abbia da tempo moltiplicato le occasioni di viaggio, ma lasciandolo come svuotato. Era divenuto, di solito, un trasferimento, fatto di attese nei “non luoghi”: aeroporto e poltrone di aeroplano. All’arrivo, incontri di lavoro e affari non diversi da quelli abituali nella propria città, oppure per il turista il fare  la solita vita, a parte qualche svago in più, una maggior comodità, e il “riconoscere” – più che conoscere – opere d’arte e luoghi di svago  già fruiti nei mass media. Erano rimaste aree alternative, come la gita in montagna o il cammino di Santiago, notevoli  ma  minoritarie.

Oggi, “grazie” al virus, lo spostarsi è di nuovo un percorso più lungo, accidentato, incerto. Si ricorre di più alla fantasia, a quella propria e a quella altrui offertaci dai libri, dalla TV, da Internet; ma lo spostarsi fisicamente tende per ora a tornare  propriamente viaggio, quell’esperienza fondamentale che ha connotato l’esperienza umana da sempre: dal primo spostarsi dei lontani progenitori fuori dall’Africa orientale fino al questa totale colonizzazione della Terra che ci lascia ancora inappagati, tanto che si comincia ad aspirare ai pianeti. 

Inevitabilmente, nei nostri sogni il viaggio ha sempre avuto un fascino inquietante.  

Dante Alighieri nella Commedia ci mostra icasticamente  due tipi di viaggio. Il primo è “la diritta via smarrita”, nella “selva oscura”, dove ci si è inoltrati inavvertitamente in quello che molto più tardi avremmo chiamato  sonno della ragione: “tant’era pien di sonno a quel punto    che la verace via abbandonai”. Non c’è senso, nè direzione, nè via d’uscita, là dove le belve incarnano  una istintualità brutale e fuori controllo: la violenza, l’avidità, l’incontinenza.  Ma se ne esce  con il costante riferimento a una figura che potremmo definire terapeutica, Virgilio: ha inizio allora un nuovo viaggio, interiore ed esteriore al tempo stesso, dotato di  una precisa direzione e fonte di personale maturazione evolutiva (ricordiamo l’analogo spirito che informa la “cerca del Graal”). Contrappunto al viaggio del Poeta è quello di Ulisse che, spinto da un impulso nobile ma non orientato e guidato, finisce in tragedia.

Quindi  c’è viaggio e viaggio. Esso il più delle volte è dotato di un senso, parola questa che come sappiamo trova una accezione metaforica e una concreta: è letteralmente la direzione di un viaggio materiale, orientato a una meta, ma indica anche il valore e significato di un’esperienza dotata di un suo ordine e struttura, di una valenza affettiva, di una intenzionalità.

 Oggi ciò può  ricordarci suggestivamente l’intervento terapeutico psichiatrico, in cui la fondamentale stabilità e affidabilità di una figura di riferimento  è uno dei presupposti che rendono possibile una restituzione di senso tramite un percorso.

Tuttavia, nella cultura contemporanea il viaggio è prevalentemente trattato come fonte e occasione di angoscia. Il Conrad di “Cuore di tenebra” che, lontano dall’ottimismo di un Kipling, ci parla degli aspetti più bui del colonialismo,  narra un viaggio in cui il controllo sulle cose e sui rapporti vien meno, in cui nessuna agenzia riesce ad assisterci come si deve, dominati come siamo dall’esperienza dell’inesplorato e dello smarrimento.

Questa  trova un  punto di riferimento anche in  “America” di Franz Kafka (primo titolo “Il disperso”).  Il protagonista lascia l’Europa per l’America, ma non per scelta: è espulso dal suo mondo, per una “colpa” che riceve una risposta pazzamente sproporzionata, come tante altre nel corso del racconto. Deve inoltrarsi in un mondo estraneo e straniante, dai riferimenti malcerti, carico di minacce, di figure persecutorie, di presenze inquietanti anche per l’apparente gratuità e inopportunità molesta del loro presentarsi; gli giungono anche  offerte, apparentemente benevole,  di un approdo stabile. Ma sono offerte ingannevoli, poichè  di solito l’approdo vien bruscamente meno e talora invece si concreta fin troppo,  prendendo i connotati della schiavitù. Questa trova ampio spazio in un rapporto fra estranei, sprovvisti di un linguaggio comune e di esperienze comprensibilmente condivisibili. Di fatto, il discorso kafkiano è confermato dalla storia dell’umanità e, perchè no, da quella dei manicomi, in cui la differenza di linguaggio è stata “risolta” con la messa a tacere violenta.

La ribellione a questo atteggiamento ha preso anche forme estreme, che potremmo definire come formazione reattiva: il “viaggio” psicotico è stato considerato da alcuni non  momento regressivo e malato ma al contrario una esperienza di valore positivo, da sollecitare se necessario con la droga. Parlo del movimento anticonformistico e irrazionalistico che ha dominato una notevole frangia della vita culturale soprattutto statunitense negli anni sessanta, con autori quali Ginsberg, Kerouac, Burroughs, Corso, Ferlinghetti, T. Leary.

Ben lontano da questa accezione positiva era il pensiero sulla morte di Dio formulato da Nietzsche, che mette in bocca a un uomo folle – ovviamente, lui stesso – le parole: “cosa facemmo noi per sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?”

Egli ha agito questa angoscia con continue peregrinazioni per l’Europa: e del resto, analoghi comportamenti hanno caratterizzato la vita di tanti altri personaggi geniali quanto mentalmente instabili: da   Van Gogh a Rimbaud, da Torquato Tasso a Maupassant a Caravaggio.

E’ possibile che angosce di questo tipo, più o meno latenti, abbiano contribuito a ridurre il viaggio a trasferimento o comunque ad addomesticarlo come abbiamo fatto con tante altre cose.  Certo, resta la nostalgia per il viaggio vero, da placare con esperienze come salire sull’Everest (peraltro anche lui, ahimè, semi-addomesticato) oppure vagabondando con attrezzature rudimentali nei deserti africani o della Mongolia.

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