Vaso di Pandora

L’Ambiente curato cura

Recensione di Pasquale Pisseri al Volume 2-2021 della Rivista Scientifica “Il Vaso di Pandora”

I matti sono brutti, sporchi e cattivi.

L’immaginario collettivo tenta di tenere fuori di sé la pazzia, rilegandola in spazi invivibili dal punto di vista sia strutturale che semplicemente ambientale; questo caratterizza la storia di una psichiatria che esclude, che discrimina, che diventa violenta e disumana.

La nostra riflessione vuole proporre il bello, lo spazio vissuto piacevolmente e funzionalmente adatto al benessere fisico e mentale come elemento fondamentale della terapia e forse ancora meglio della psicoterapia residenziale.

Intorno a questo tema ho invitato amici psicoanalisti, architetti, psichiatri, ingegneri “a dir la loro”, mettendola a disposizione di un pensiero condiviso (speriamo….).

Giovanni Giusto

Il volume  tratta dei molteplici aspetti dell’ambiente abitato, e come si applicano a chi offre “cura” in senso non puramente medico ma nella più ampia accezione intesa come “curarsi di qualcuno”: nello specifico, alle residenze e agli altri ambienti psichiatrici. Credo che un buon punto di riferimento sia il termine greco oikos, che significa sia famiglia che casa, indicando come la casa sia fattore di definizione di un gruppo affettivamente legato. D’altronde questo duplice significato persiste anche nell’italiano, in modo molto chiaro nel termine derivato “casata”. L’opposto della casa è il termine coniato da Marc Augè, “non luogo”: area  di spersonalizzazione, di non relazione, di non significatività.  In molti degli esempi che egli cita,  ciò è tollerabile, perché si tratta di luoghi di transito; ma nei manicomi si  viveva.

   Entrando nello specifico:

   Mazzoni ci parla di “empatia degli spazi”, della capacità degli spazi di trasmetterci messaggi affettivamente rilevanti. Ce ne porta ad esempio alcune importanti realizzazioni, iniziando con le cattedrali gotiche, il cui slancio ascensionale esprime una aspirazione alla trascendenza religiosa: mi  pare  divertente ricordare che il termine nasce con accezione dispregiativa: “roba da selvaggi”,  e più seriamente vorrei notare  che analogo slancio in versione laica  potremmo ravvisare nella “scheggia” londinese del nostro Renzo Piano, pure citata da Mazzoni. Questi  prosegue con la  mitica Casa sulla cascata di Wright, volta alla integrazione con la natura; ricercata questa, con modalità diverse, nel recente Bosco verticale di Milano. Diverse, credo, perché qui si tratta di una natura addomesticata, che credo tragga la sua lontana ispirazione dal giardino all’italiana. Del resto anche l’Autore fa notare che questo modello è stato criticato in quanto considera la  natura “come elemento dell’architettura e non come spazio in cui l’architettura si inserisce”. 

   La sua attenzione si rivolge soprattutto alla configurazione esterna degli edifici, il cui messaggio  evidentemente non si rivolge al singolo utente o gruppo di utenti, ma è erga omnes.  Naturalmente, anche la configurazione esterna di un edificio ci dice qualcosa su chi lo abita o comunque lo vive e sull’immagine che di lui ha il progettatore e costruttore, a volte in modo particolarmente evidente come nei manicomi. Ciò vale anche per le notazioni riguardanti l’interno di edifici di fruizione pubblica, come i musei. Viene citato il Museo Ebraico di Libeskind, nel cui interno non vi è alcun angolo, alcuna prospettiva da cui sia possibile avere uno sguardo complessivo e omogeneo dell’ambiente: potrei leggere cio’ come una voluta presa di distanza dal panopticon, modello di arcaiche istituzioni psichiatriche fra cui il primo manicomio di Genova, nonchè dei campi di concentramento: dove il sorvegliante mantiene un costante controllo visivo  sui sorvegliati.

  Schinaia ci ricorda che l’attenzione agli spazi interni e alla loro configurazione non è una novità: nell’ottica del trattamento  morale ottocentesco anche lo spazio abitato faceva parte di quell’insieme di stimoli ben calibrati  che gradualmente doveva riportare l’infermo alla “raison”. Mi pare questo un progetto che potremmo condividere come concetto generale ma non certo nei contenuti, poiché vedeva i cardini della cura nell’isolamento – mettere al riparo da stimoli nocivi – e nella disciplina, che doveva imporre il rispetto della razionalità con il graduale passaggio da tale imposizione esterna a un controllo interno…

 Il successivo prevalere della psichiatria organistica ha lasciato a lungo in penombra i fattori ambientali e relazionali, che sono tornati  importanti nella nostra attuale ottica. Malgrado ciò, l’Autore lamenta in molte delle attuali residenze una  carenza di progettualità terapeutica. Essa, credo, è stata certamente reale per parecchi anni, e legata a diversi fattori. Una è la obbiettiva necessità di  far fronte in tempi brevi all’obblgo di fare a meno dei manicomi; un altro è la protratta negazione ideologica della residenzialità, espressa fra l’altro nella formulazione della legge che riservava estrema attenzione al  momento ospedaliero e alla sua tutela giurisdizionale, e nessuna al possibile protrarsi di decorsi invalidanti con lunga perdita di autonomia. La possibile esigenza di una residenzialità non brevissima  si è fatta strada un po’ alla volta per forza di cose, fra l’altro come una necessità teoricamente negata nel momento stesso in cui vi si ricorreva. Si è fatta quindi  di necessità virtù, con ricorso anche a strutture preesistenti e nate con altre finalità, riadattate per quanto si poteva. E’ questa una realtà in fase di progressivo superamento.

  Altra notazione interessante è il possibile paragone – riferimento a un percorso conventuale, e ciò ci riporta al concetto generale di comunità come guscio, o meglio pelle, protettiva. Di fatto, i conventi si sono sviluppati in Europa a partire dall’alto Medio Evo, in un’era di migrazioni turbolente e violente, di mancanza di sicurezza. Tendevano a recuperarla, sia pure in ambiti limitati, insieme a un certo ordine normativo, con un atteggiamento  difensivo da un mondo esterno mal vivibile, a volte prendendo la fisionomia di monasteri-fortezza ma tuttavia aprendosi a quel mondo quando le condizioni lo consentivano. E’ vero quindi che l’esperienza di quell’antico  modello comunitario può essere un termine di raffronto con le residenze psichiatriche di tutti i tipi, nate come risposta alle più  profonde e durevoli condizioni  psicotiche nonché a un diffuso malessere sociale legato a uno sviluppo preindustriale e industriale non esente da ingiustizia e violenza.

Visintini ci parla del gruppo e del suo potenziale terapeutico, partendo dalla classica lezione di Lewin sul gruppo come totalità dinamica  caratterizzata da interdipendenza del compito e del destino; e da quella più recente di McGrath sulla distinzione fra gruppo e massa-folla, tipico luogo questo  di non- pensiero; richiama poi la fondamentale lezione di Bion sugli assunti di base, e i quattro elementi costitutivi del gruppo come definiti da Corbella: il mondo interno individuale, le interazioni interpersonali intragruppali, il gruppo come  totalità, i fenomeni transpersonali; e il gruppo come spazio di costruzione del Sè, in una continua dialettica fra appartenenza -fusione e individuazione. 

  E’ utile notare come chi si occupa di gruppalità lo fa adottando ripetute metafore spaziali: “luogo di cura, accessibilità, luogo sicuro, spazio fisico e mentale, spazio gruppale, campo”: metafore solo in parte, poiché il gruppo ha momenti di aggregazione anche concretamente spaziali. Ha quindi un preciso senso parlarne in un volume dedicato all’ambiente che cura: al vivere in un contesto, fatto di persone ma anche di oggetti veicolanti, volere o no, un messaggio, uno stimolo, un ritorno – risposta al comportamento della persona.   L’ambiente che cura è  fatto anche di muri, oltre che di persone.  Il gruppo offre accessibilità e sicurezza; caratteri che aiutano a definire anche  la casa, che può dare protezione, ma anche contributo a costruzione di identità, in un intreccio di feedback tanto più fecondo quando si lascia qualche spazio alle scelte personali nella costruzione dell’ambiente personale; ciò ha a che fare con la distinzione (elastica) fra spazi comuni e spazi individuali.

   Interessante anche ricordare come Foulkes chiami rispecchiamento il progressivo conoscersi attraverso l’effetto che si ha sull’altro: richiama alla mente il concetto  di neuroni specchio, concetto nato in tutt’altro ambito di ricerca: sono sempre importanti questi canali che si aprono fra contesti e metodologie diverse, che contribuiscono alla costruzione di una visione globale.

Ciò apre la strada al contributo di Federico Russo, che entra soprattutto nel tema di ciò che uno spazio di intervento psichiatrico non deve essere: ha a disposizione l’esempio di Servizi psichiatrici di un tempo non troppo lontano, ed entra con dolore in una descrizione dettagliata. Mette in guardia contro il persistere di un atteggiamento militante che rischierebbe di lasciare  ancora “fra parentesi” la sofferenza personale e il bisogno di cura in senso ampio. Tuttavia, un certo grado di combattività è ancora necessario per difendere chi non sa difendersi da solo, contro l’insidia di un possibile nuovo deterioramento; e questo Russo lo ha ben presente.

Maurizio Peciccia  esordisce rilevando come sia i dati neurofisiologici relativi al sistema Neuroni specchio sia quelli clinici portano a riconoscere nelle sindromi schizofreniche una carenza dei due processi alternativi e complementari della individuazione e della identificazione con l’altro. Mi si permettano due riferimenti al passato: questa può essere una nuova e pur parziale risposta al problema del “disturbo fondamentale” della schizofrenia; inoltre, una manifestazione estrema di questa difficoltà si è classicamente manifestata a livello clinico nella c.d. sindrome di azione esterna di De Clerambault.  E particolarmente interessante è il fatto che questo filone di ricerche apre  nuove vie all’annoso problema del rapporto fra erlebnis e oggettività biologica, ovverossia fra soma e psiche, che da sempre ha intrigato i filosofi; e che ha interessato anche Freud, come ricorda l’Autore. Questi prosegue ricordando che lo scambio di informazioni interocettive ed esterocettive ha un ruolo primario nel differenziare l’ambiente interno da quello esterno. Credo sarebbe difficile affermare che in questo processo le caratteristiche dell’ambiente esterno siano indifferenti o irrilevanti. E’ anche plausibile ritenere che, nell’ottica psicanalitica cui pure l’A. fa riferimento, la casa abitata abbia una valenza materna.

   Egli si sofferma su un punto cruciale: il contributo del costrutto dei neuroni specchio a quella che icasticamente definisce “nuova concettualizzazione empirica dell’intersoggettività”, che unisce due termini a lungo ritenuti poco adatti a coabitare. Infine, dopo un sintetico excursus sulle proposte psicoterapeutiche a indirizzo psicanalitico della psicosi, cita la Sechehaye: “ricorrendo alla sensorialità cutanea e muscolare per procurare benessere al paziente e attraverso il benessere creare un contatto”. Non mi pare azzardato ritenere che un effetto in qualche modo simile possano avere le stimolazioni prevalentemente visive provenienti da un ambiente curato.

  Cosimo Argentieri   introduce la parte del volume che presenta la concreta esperienza di un gruppo di case di cura guidate nella loro prassi anche dalla attenzione all’ambiente.

  Il primo di questi interventi è di Pamina Vitta che presenta una ricerca empiricamente fondata sui parametri fisiologici comunemente ritenuti indicatori di benessere. Su tale base, propone una serie di elementi favorevoli: la possibilità per il paziente di osservare restando in posizione protetta, realizzata con pareti trasparenti o basse mura divisorie e/o con acconce disposizioni del letto  (ciò che ricorda la generale dialettica fra i due poli : privacy vs comunicazione, comportante necessità di equilibri dinamici); la disponibilità di luce preferibilmente diffusa che rischiari senza offendere;la diversificazione dell’ambiente; l’evitamento di messaggi sensoriali confusivi o ambigui; la disponibilità visiva di ambienti naturali; la sicurezza con esclusione di oggetti pericolosi. Conclude citando varie strutture esemplari sotto questi aspetti .

  Giovanni Ziosi e Martina Puviani si ispirano al pregnante concetto di  “riabilitazione dell’ambiente”, e ci spiegano come lo mettono in atto, fondandosi su una attività pittorica. Non c’è bisogno di ricordare quanto il colore sia legato all’affettività: da un bel po’ di tempo ciò è riconosciuto, fra l’altro, nella teoria e prassi del Rorschach. L’attività proposta  non è fine a sé stessa – ciò che potrebbe avere un paradossale effetto alienante – ma finalizzata a migliorare l’ambiente con passaggio dall’anonimato al significativo e coinvolgente.  Di fatto, essa non si limita al chiuso di un atelier o alla sua sala d’attesa, ma mira a riqualificare vari altri ambienti. L’esigenza clinica di offrire una occasione di coinvolgimento attivo si unisce a quella di migliorare l’ambiente, e non solo quello destinato ai pazienti ma anche quello degli uffici e servizi vari con ricadute estetiche e pratiche, come nel corridoio dove alle decorazioni si uniscono indicazioni direzionali. Se mi si permette un paragone audace, questo ricorda un po’ l’attività artistica dei secoli passati, con il suo forte legame con un artigianato rivolto a esigenze pratiche. Il paziente offre quindi al “sano” qualcosa di valido e utile, e ciò  contribuisce a ridurre lo stigma: si evita l’arteterapia come attività fine a sé stessa che potrebbe perfino avere qualche aspetto alienante. Tutto ciò richiede un sano equilibrio fra progettualità e improvvisazione.

Narracci conclude, definendo il lavoro sull’ambiente come una “introduzione di vita”, e ricordando che  l’importante è avere un’idea e farla vivere.

  Questo libro offre quindi una visione ad ampio raggio dell’intervento sull’ambiente di cura, dai punti di vista: architettonico; storico – antropologico; psicologico – psicodinamico con riferimenti e collegamenti neurofisiologici; pratico – operativo; è un vivace stimolo al nostro operare.

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