Vaso di Pandora

Lacan. Nella sfida fra Eros e legge l’unica salvezza è l’amore

Commento apparso su La Repubblica, il 17/02/2016

Un importante cultore di filosofia teoretica commenta il commento di uno psicanalista a Lacan. Non è mia intenzione aggiungere un terzo grado di commento con pretese tecniche, tanto più arrampicandomi su questa piramide di nomi importanti. Ma può essere interessante trarne qualche spunto di riflessione su questo intreccio fra la filosofia e le dottrine psichiatriche, in primo luogo psicoanalitiche – specialmente proprio lacaniane – e fenomenologiche. È un intreccio sicuramente fecondo, anche se costantemente a rischio di confusione.

Nel nostro campo, la presenza di espliciti riferimenti alle istanze filosofiche ha mantenuto uno spazio ben più ampio che nelle altre discipline mediche: è noto che un indirizzo – quello fenomenologico – trae la propria origine proprio da una corrente di pensiero filosofica. Al limite, ciò è vero per ogni indirizzo, poiché la scienza positiva ha certo una sua radice nel lavoro di Galileo (peraltro non privo di implicazioni filosofiche); ma una radice non meno importante sta nel pensiero di Bacone e di Cartesio. Tuttavia, tornando all’indirizzo fenomenologico, la sua matrice filosofica è particolarmente diretta ed esplicita.

Ma anche al di là di esso, il dialogo fra filosofi e tecnici della salute mentale di varie tendenze è particolarmente vivo. Ciò, per lo statuto epistemologico della nostra disciplina, continuamente in discussione e necessitante di chiarificazioni metodologiche; per la relativa carenza di proposizioni verificabili e dimostrabili quali richiede il sapere scientifico, e dunque per la relativa debolezza del paradigma scientifico classico, che nel nostro campo non può pretendere a un primato assoluto; per l’intreccio strutturale delle nostre tecniche – in particolare quelle psicoterapiche – con il rapporto personale, ciò che ci rimanda continuamente a un’ottica antropologica che in qualche modo è una branca del pensiero filosofico.

Questo porta a chiederci che cosa è la filosofia, che cosa è oggi, cosa ci possa offrire anche nel lavoro quotidiano.
Ci sono motivi per pensare che sia continuo regresso, di fronte al continuo progresso delle scienze sperimentali portatrici di dati affidabili, ripetibili, “certi”; anche se, forse, certi solo a partire da determinati postulati. È comunque avventato ritenere che la filosofia sia avviata a scomparire: intanto perché la stessa proposizione “la verità si può raggiungere solo tramite la scienza sperimentale” è una proposizione filosofica. Lo stesso Heidegger ha teorizzato la fine della filosofia, peraltro in un testo di forte spessore filosofico; ma più che altro ha parlato della fine della metafisica, di una filosofia che si metta in competizione perdente con le scienze positive nell’esame delle cose concretamente esistenti, definite “enti”, mentre secondo lui dovrebbe piuttosto porsi il compito di chiarire il senso dell’essere quale fondamento degli enti; senso apparentemente intuitivo ma di fatto sempre sfuggente. Ancora più radicale la posizione di Wittgenstein col celebre aforisma “ Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, volto a denunciare l’insensatezza di molte, se non tutte, domande e proposizioni filosofiche. Superfluo ricordare che anche lui, comunque, è un importante filosofo: solo la filosofia potrebbe suicidarsi ponendo fine a se stessa?

Va comunque riconosciuto che la scienza certo può fornire elementi per aiutarci a perseguire il vantaggio per l’uomo, ma non è in grado di definire qual è questo vantaggio.

All’operare psichiatrico si applica in modo particolarmente pregnante la definizione che Platone ha dato della filosofia: è l’uso del sapere a vantaggio dell’uomo, il perseguimento di una coincidenza fra il fare (orientato dal sapere tecnico) e il sapersi servire di ciò che si fa. Qualcuno – ad esempio Umberto Galimberti – è giunto a parlato di consulenza filosofica quale aiuto a vivere svincolato da una specifica formazione, e Pier Aldo Rovatti riprende il discorso in termini onestamente problematici: “Cominciamo col valutare quanto un filosofo possa occuparsi di qualcuno con lo scopo di migliorare il suo essere nel mondo”. Mi ricorda un Autore un po’ più antico, il Severino Boezio del “De philosophiae consolatione”.

È comunque indubbio lo stato di crisi del concetto stesso di filosofia. C’è ancora qualche sostenitore della concezione metafisica, quella che la considera come architrave di ogni conoscenza, coordinatrice dell’insieme delle scienze particolari, con conseguente negazione di validità a ogni ricerca che sia autonoma da essa.

Husserl si rifà a Cartesio: “tutte le scienze… non sono che membri di una scienza universale che non è altro che la filosofia. Solo nell’unità sistematica di questa esse possono diventare veramente scienze”.
Più modesta la concezione che tende ad attribuirle una qualche funzione di coordinamento e confronto delle singole scienze, senza porla tuttavia in una posizione dominante.

Infine, c’è chi la considera una sorta di coscienza critica della scienza, con competenze epistemologiche e di logica della ricerca scientifica. Filosofia sarebbe il riflettere sull’origine e validità del sapere scientifico.

Personalmente, mi piace ancora la definizione data da Platone. In ogni caso, non si può prescindere da una consapevolezza filosofica, e tanto meno lo può chi s’interessa di salute mentale, concetto tanto complesso e problematico. Ci aiuta a interrogarci sul nostro ruolo; a non appiattirci senz’altro su un paradigma medico utile ma pieno di limiti; a non impegnarci in un semplice corpo a corpo con il sintomo; a non dare per scontato che sappiamo qual è l’interesse del paziente; ad agire non a corto circuito ma in modo riflessivo.

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