Vaso di Pandora

La Scuola di Psicoterapia Istituzionale

Venerdì 13 Ottobre scorso si è svolto a Genova, nella prestigiosa sede del Palazzo Tobia Pallavicino, l’Open Day di presentazione di una importante iniziativa: una Scuola di Psicoterapia Istituzionale.

Questa denominazione, che coniuga volutamente due termini un tempo in contrasto fra loro, è già  un programma: indica il superamento, definitivo sul piano concettuale e – si spera ovunque – anche su quello pratico-applicativo, della antica accezione del termine “istituzione”: vista in tempi non lontani  come struttura rigida che privilegiava la norma e il controllo rispetto alle esigenze umane, personali, gruppali, e dunque terapeutiche.

E’ questo centenario modello che ha suscitato, negli anni ruggenti della riforma psichiatrica, comprensibili diffidenze nei confronti di ogni intervento residenziale che non fosse estremamente breve: come molti di noi ricordano, parlarne esponeva all’accusa di voler riproporre i manicomi (nei quali pure, va ricordato, si era pur  tentato di sovrapporre a un progetto assistenziale e di controllo sociale qualche iniziativa di cura: basta ricordare il trattamento morale e, parecchio tempo dopo, i tentativi riusciti o meno di terapie  biologiche). 

 Il tempo ha fatto giustizia del rifiuto a priori della residenzialità protratta: non solo qualche forma di essa si è rivelata strumento insostituibile in non pochissime condizioni, ma va inserita, anche sul piano teorico, nella generale non rara esigenza umana di raggrupparsi, al bisogno, in sistemi di convivenza  più consolidati di quelli abituali, e più atti  a offrire protezione e/o consentire il perseguimento di comuni finalità (si può ricordare il castello, il convento, il kolchoz, il kibbutz).

Rientra in quest’ambito il concetto e la prassi di comunità terapeutica, modello che si ispira a quello anglosassone classico con le debite modifiche imposte dal contesto, in primo luogo dalla attuale (e sotto più di un aspetto benvenuta) impossibilità di selezionare gli utenti-ospiti.

Per psicoterapia istituzionale si potrebbe intendere anche solo una psicoterapia condotta con modalità analoghe a quelle proprie di uno studio professionale: ciò naturalmente è possibile, ma comporta una accezione limitata del termine; anche se ovviamente per condurla bisognerebbe predisporre nell’ambiente istituzionale un setting adeguato. Ben più importante e complesso è porsi il problema di una terapeuticità globale dell’ambiente e dei singoli interventi che vi si attuano.  E’ questo  il tema fondamentale curato da questa scuola, che  si inserirà a pieno titolo nel progetto, già ampiamente sviluppato nella prassi, di una residenzialità – terapia.

Dopo i saluti di  Luca Pallavicini, Presidente nazionale Salute Sanità e Cura Confcommercio, e di Marco Scajola, Psicologo e Assessore Regionale, ha preso la parola Giovanni Giusto, Direttore scientifico Gruppo Redancia. Egli, dopo aver riconosciuto i meriti di Giandomenico Montinari – da considerare fra i preconizzatori di una psicoterapia istituzionale almeno nel nostro ambito regionale – ha introdotto il discorso inquadrando il tema e sottolineando il duplice scopo di questa proposta:  quello generale culturale e quello propedeutico alla formazione di personale preparato particolarmente al lavoro nelle strutture, con specifico riferimento a quelle del Gruppo La Redancia e di Neomesia, sezione del gruppo Kos. Possiamo continuare a chiamarle “istituzioni” senza paura del termine, che va declinato in senso non superegoico-sadico ma superegoico-sano.  Ciò implica una capacità di ascolto atta ad accogliere ciò che un tempo si riteneva l’”incomprensibile” psicotico (ricordiamo criticamente il pur grande Jaspers che sosteneva questa visione); e sul piano macro-organizzativo va realizzato perseguendo sempre più, nelle comunità esistenti o da creare,  l’apertura all’esterno e il collegamento con interventi più “leggeri”.

Ritengo questo aspetto fondamentale: vorrei sottolineare, se ce ne fosse bisogno,  che  da un lato evita una “mummificazione” delle strutture con irrigidimento istituzionale in senso deteriore, e dall’altro meglio garantisce la duttilità e appropriatezza di un intervento che segua l’evoluzione della condizione clinica ed esistenziale. Inoltre, nella attuale benvenuta abolizione di ogni residenzialità giuridicamente coattiva (con l’importante eccezione relativa agli autori di reato), l’inserimento dell’istituzione in un sistema terapeutico più complesso argina il possibile fenomeno di una involontarietà di fatto, dovuta ad assenza di alternative utili e sufficienti.

L’impegno si realizza, ha proseguito Giovanni Giusto,  all’insegna di un entusiasmo mai sconfinante nella maniacalità.

Egli, infine, ha annunciato che all’apertura di una scuola a Genova ne seguirà una a Milano e una a Roma.

Di ampio respiro didattico l’intervento di Mario Amore,  Direttore Didattico Scuola di Psicoterapia Istituzionale. Ha sottolineato l’immutato valore di una formazione rivolta alla psicopatologia, alla clinica, alla  diagnosi, agli aspetti psicodinamici, con finalità pratico-professionali. Importante una formazione non a compartimenti stagni, che includa competenze rivolte non solo ai pazienti più impegnativi e bisognosi di trattamento residenziale protratto, ma a tutti i pazienti, gravi e meno gravi. Importante anche l’attenzione agli aspetti etici.  Anche l’operatore, come tutti, deve confrontarsi oggi con una realtà sociale più “liquida” nel senso di Baumann, e con un tempo più accelerato: questi sono aspetti ansiogeni. Specifici, in qualche misura, i problemi dell’età avanzata.

Ovviamente necessaria la competenza psicofarmacologica, certo non da contrapporre alla dimensione psicologico-psicodinamica ma da integrare in modo flessibile.

Condividendo tutto ciò come importante argine al dilettantismo e alla superficialità; ma tornando alle giuste esigenze diagnostiche, proporrei qualche nota sull’esigenza di una riflessione critica quanto alla diagnosi psichiatrica, che non deve favorire una reificazione del disturbo e magari del paziente stesso: a differenza di quanto accade per le malattie somatiche, la nostra diagnosi di solito ha carattere descrittivo, senza definiti e comprovati riferimenti a danni biologici o ad eziologie somatiche e/o psicologiche. Con doverosa prudenza critica, il DSM si autodefinisce non come un vero e proprio sistema di diagnosi ma come “una classificazione dei disturbi mentali progettata per facilitare diagnosi più affidabili”.    

Entrando nella specificità del progetto da definire, il Prof. Amore ha parlato dei parametri e caratteristiche irrinunciabili in una Scuola: permettere di conoscere non solo le varie patologie ma anche i vari orientamenti; consentire di valutare e autovalutare gli interventi; dare adeguato spazio alla psicopatologia; offrire possibilità di supervisioni. In sintesi: “la nostra è una promessa a tutto tondo che non vuole cogliere tutto, però con una cultura sì a tutto tondo”

Panfilo Ciancaglini, psichiatra,  moderatore, ha sottolineato che la Scuola non dovrà insegnare tecniche specifiche ma insegnare a interpretare, sviluppare, costruire dispositivi terapeutici complessi.

Gianluca Serafini, Direttore Clinica Psichiatrica Università di Genova, ha proposto un discorso di psicologia sociale. Partendo dal tragico resoconto del suicidio di un adolescente vittima di cyberbullismo, ha parlato del disagio e solitudine legati a mancanza di riferimenti, di significati e orientamenti socialmente condivisi e capaci di indurre coesione; nonché a tempi che si sono fatti veloci e sfuggenti, nemici della riflessione e della elaborazione.

A me questo tema riporta alla mente “L’era del vuoto”  di Gilles Lipovetsky: “la società postmoderna è la società in cui regna l’indifferenza di massa, in cui domina la sensazione di ripetizione continua e di ristagno, in cui l’autonomia privata è un concetto ovvio, in cui vecchio e nuovo sono ugualmente accolti, in cui l’innovazione è banalizzata, in cui il futuro non è più assimilato a un progresso ineluttabile”.

Prosegue Gianluca Serafini, indicando che si moltiplica il bisogno di formazione e cultura, intesa anche come curiosità, ricerca di risposte: è un bisogno di tutti e specificamente di chi, come noi, è incaricato di un tipo di aiuto particolarmente delicato e complesso. Importanti quindi, al di là delle esigenze legate a un  intervento specialistico, iniziative come questa. Per essere specialistiche le competenze dell’operatore devono essere sistematiche ma anche interpersonali, intese come capacità di perseguire una buona qualità della relazione. Importante l’ascolto, che rende necessario contenere l’impulso a intervenire affrettatamente.

La più tragica è la condizione di chi non chiede aiuto, di un disagio sotterraneo che emerge a tratti, anche tragicamente.

Sul versante “altro” e complementare, divengono illuminanti le neuroscienze: si cita Eric Kandel con i suoi continui rimandi fra dato neurobiologico e dato comportamentale. Esempio di integrazione dei saperi, che va attuata anche e soprattutto nella prassi clinica come guida di una terapia a sua volta proficuamente integrata.   I quadri psicopatologici mutano rapidamente, e ciò contribuisce a  renderla necessaria .

In questo variegato panorama di stimoli, prospettive, criticità, è fondamentale una rinnovata attenzione alla formazione. Questa, prosegue il Relatore, trova un approccio più pragmatico negli USA, cui forse dovremmo guardare con più attenzione.

Una cura particolare va oggi rivolta alle sostanze d’abuso, responsabili o corresponsabili di quadri psicopatologici nuovi.

Tutto ciò induce a considerare con grande favore iniziative di formazione come questa.

Marco Vaggi, Consulente psichiatra, conferma la necessaria distinzione di base fra psicoterapia all’interno dell’istituzione e psicoterapia istituzionale. Anche la prima rappresenta una topica importante, in tutti i Servizi residenziali o meno, perché pone specifici problemi di setting. La seconda – istituzione come terapia – è compito ancor più complesso, è campo in parte da dissodare.

Il relatore sottolinea,  anche ricorrendo a una divertente e acuta storiella-apologo tratta da Watzlawick,  la necessità di scegliere e adattare le tecniche al problema, non viceversa: e questo sarà lo spirito che animerà la Scuola. Terapia istituzionale è anche consapevolezza che esistono strumenti che arrivano dove il lavoro del singolo non può: è un lavoro di interazione.  Importante tollerare l’”area scura”, la sensazione di incertezza, di non riuscire a capire. A me ciò fa tornare in mente l’antica e insuperata concezione freudiana, di analisi interminabile. E credo che Marco sia qui aiutato anche dalla sua esperienza alpinistica, che nella costanza dell’impegno insegna a tollerare l’attesa, il possibile protrarsi dei tempi, il rinvio, la pausa di riflessione, l’eventuale rinuncia.

Il Relatore prosegue ricordando come la complessità dei problemi imponga anche condivisione di saperi, con integrazione anche di saperi diversi: compito questo complesso e fondamentale, di fronte a una realtà così ricca di sfaccettature non semplici da ricomporre, perché non solo dissimili nei contenuti ma necessitanti di approcci  epistemologici non omogenei.  Garanzia di efficacia della formazione è che sia legata alla pratica.

Per Milena Meistro, Psicologa, psicoterapeuta, Direttrice Gruppo Redancia, si tratta qui di “ricominciare ad andare a scuola”, esperienza già di per sé rivitalizzante. Ha ricordato la centralità della curiosità, dell’ascolto sostenuto dal desiderio: desiderio di apprendere e comprendere in un continuo rimando fra prassi e teoria; desiderio che è carburante essenziale di ogni tipo di approccio, antidoto alla cronicizzazione del paziente e dell’operatore. Ciò si realizza, nel nostro campo e non soltanto,  in un circuito virtuoso fra teoria e prassi: soprattutto inserendosi attivamente in un gruppo e realizzando una sinergia di attitudini e competenze che comporta capacità anche di mettersi in discussione e di vivere momenti di riconoscenza, in un personale percorso evolutivo; formando un campo istituzionale.  Ciò comporta necessaria attenzione alle dinamiche coinvolte: sono lo sfondo che può facilitare o ostacolare la realizzazione dei compiti, dell’azione di cura: dinamiche che ovviamente riguardano il soggetto stesso che le esplora, ciò che comporta capacità di mettersi in gioco.

La capacità di lavorare in rete deve estendersi ai collegamenti e rapporti con agenzie esterne all’istituzione: altre comunità, reparti per acuti, centri crisi, centri diurni, servizi semiresidenziali…

Questa irrinunciabile cornice generale non esclude, tutt’altro, l’esigenza di specificità tecniche: tecniche psicodiagnostiche e di valutazione, tecniche terapeutico-riabilitative, interventi psicoterapici.

Giandomenico Montinari, Psichiatra e psicoterapeuta, ha brevemente ricordato la sua personale importante esperienza pilota, condotta negli anni ’70 in condizioni imprenditorialmente e culturalmente difficili poiché a quei tempi una residenza di tipo comunitario non era, come oggi, la principale se non unica risposta possibile a una prolungata esigenza di un abitare protetto, ma soltanto una alternativa facoltativa all’imperante soluzione manicomiale. Il suo operato fa parte di una storia che, anche in questo caso, ci insegna qualcosa.  

Credo che iniziative come questa siano un’ottima risposta a chi, periodicamente, invoca impropriamente, quali rimedi a possibili carenze, riflussi e ritorni a una psichiatria di tipo arcaico. Si propone invece qui una delle possibili risposte fattuali, che punta all’affinamento di strumenti di intervento – in questo caso la residenzialità – per una psichiatria che voglia essere accoglienza e terapia.

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