Vaso di Pandora

La relazione come “luogo” del prendersi cura

La relazione come “luogo” del prendersi cura

di Maria Froio

“Viandante,
non esiste il cammino,
il cammino si fa camminando”
(A. Machado)

Provo a dare voce a spunti di riflessione sul concetto di “cura” che nascono dalla mia esperienza con il paziente psichiatrico in comunità terapeutica e dalla mia formazione di psicoterapeuta gestaltica.

La comunità terapeutica è luogo di conoscenza e cura intese come esperienza complessa nella quale intervengono sensibilità, emozioni e competenze tecniche, che si intrecciano nell’esperienza umana dell’incontro. Diventano qui essenziali lo spazio e il tempo vissuti con il paziente: stargli accanto e accompagnarlo con attenzione al quotidiano permettono al curante di entrare nella storia della persona e di aiutarla ad aiutarsi. L’esperienza gruppale, in cui si muove la relazione personale, è spazio di condivisione e confronto, un campo di forza. In quest’ottica relazionale l’azione terapeutica non può essere strategia lineare: nell’incontro con il paziente ci si mette in gioco, si convive con l’imprevisto, ci si impegna nell’azione della cura.
Pensare alla salute come stato di completo benessere bio-psico-sociale sottolinea la necessità, in ogni ambito clinico, di un approccio olistico alla persona, unica e complessa, vista “nella” e “con” la sua malattia, iscritta in un percorso evolutivo sia individuale che socio-familiare. La “malattia” ha bisogno di un corpo, di un tempo, ma da sola non esiste: è un’esperienza psicologica da cogliere nei suoi segni così variabili di situazione in situazione. Penso al concetto di autoregolazione organismica, secondo cui l’organismo ha un suo modo funzionale di andare nel mondo che gli permetterà di trovare il suo adattamento. Da qui la lettura del malessere del paziente come una delle possibilità di “essere al mondo” e del sintomo, che è la parte visibile, come qualcosa da conoscere, inserito nella struttura complessiva della persona, l’“apri-porta” per un lavoro esplorativo (“…a che cosa è funzionale il sintomo nella sua vita?”).
Cura” pertanto non può essere solo un atto terapeutico con l’obiettivo della guarigione (“to cure”), ma riassume in sé anche il significato del “prendersi cura” (“to care”), anzi è nel prendersi cura che trova senso il curare.
Pensare “per” il paziente, dalla presa in carico, diviene via via pensare “con” il paziente e questo è più complesso, c’è bisogno di più tempo, pazienza e flessibilità. Il significato della guarigione va ricercato con il paziente stesso nella relazione di aiuto, che rimane al centro dell’intero processo terapeutico. Efficace la metafora del teatro: la relazione è la scena in cui si sviluppa la trama della storia del paziente e ogni passaggio è importante, è co-costruzione di significati.
La relazione che cura è luogo in cui accogliere, contenere e rispecchiare l’esperienza del disagio della persona, costruendo l’alleanza con le sue parti sane. Il senso del curare va oltre una prestazione: è processo, non risultato, evoluzione (abilitazione) e non solo ripristino di una condizione che c’era già (ri-abilitazione), è com-prensione. A volte non sconfigge la malattia, ma aiuta nella costruzione di un suo “senso” e di una sua gestione.
Per aiutare attraverso la relazione bisogna però  “stare” nella relazione, che significa sperimentarsi, essere presente a se stesso e per l’altro, attento a cosa accade nel qui ed ora. Chi cura è responsabile della relazione, se ne prende cura in prima persona, responsabilizza il paziente perché possa vivere attivamente questo spazio e, se vuole e per quanto possibile, “rileggere” la propria situazione, con la consapevolezza di risorse e limiti. Aspetto importante è il riconoscimento delle proprie emozioni: se sono consapevole di ciò che sento posso deciderne che cosa farne.  
Elemento base dell’agire terapeutico è la motivazione al cambiamento, da favorire e sostenere; quella “messa in moto” perché ci sia adesione alla cura, facendo però i conti con la libera scelta del paziente di accettare la relazione e con i momenti di empasse che, se colti ed elaborati, possono acquistare valore e rinnovare l’alleanza.
Delicato l’equilibrio tra vicinanza e distanza, con il paziente psichiatrico ancora di più, per i suoi confini personali disturbati: così può accadere che si sente invaso e invade o, al contrario, si allontana. Troppa vicinanza affettiva può ridestare in personalità fragili angosce insostenibili, accrescendo la paura del contatto; troppa distanza e neutralità emozionale possono trascinare con sé forte senso abbandonico. Il “sentire” è la via empatica in cui armonizzare distanza e vicinanza: sentire il mondo personale del paziente come se fosse il proprio, senza però perdere  questa qualità del “come se”. E’ un lavoro che avviene al confine del contatto, che è lo spazio e la possibilità per l’incontro. E’ un movimento creativo, perché genera nei due soggetti un adattamento nuovo ai propri bisogni e all’ambiente.
Ma cos’è che cura nella relazione? Possono curare le parole, il non verbale, la curiosità (che ha la stessa radice di “cura”!), l’ascolto, il rispetto e la sospensione del giudizio. Può curare il linguaggio metaforico, semplice e immediato, che colora e facilita l’interazione. Può curare l’esperienza del gruppo: per il curante, perché rafforza la sua identità professionale; per chi è curato, perché permette confronto. Tutto questo in  uno spazio sempre in movimento definito passo passo da ogni interazione, nel quale il paziente possa di rimando fidarsi, percepire un futuro per se stesso, allargare la possibilità di nuovi interessi e progetti. Uno spazio in cui il trattamento farmacologico, quello psicoterapico e ogni altro intervento si integrano in opportunità per il benessere della persona.
La pratica della cura non è comunque semplice e credo che sono proprio i pazienti che di giorno in giorno ce la insegnano!

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Commenti su "La relazione come “luogo” del prendersi cura"

  1. Mi rendo conto che ogni giorno ci vuole un sacco di buona volontà perché la relazione operatore-paziente possa funzionare,ma la volontà ovviamente non può bastare.In quanto,ciò che“curiamo”al di là della buona volontà di ciascuno di noi non è semplicemente il“corpo di un paziente”;le cose si complicano dannatamente perché il“dolore”che il paziente narra non concorda esattamente con il“male”che ad es.normalmente un medico cerca quando visita il suo paziente. Di cosa mi prendo cura quando“prendo in carico una persona”?Non mi curo certo del suo“male”,concepito come un dato oggettivo individuabile nei confini del corpo che il paziente può tentare di riprodurre a parole ma appunto del suo“dolore”mi interesso che è faccenda un tantino più complessa.Il dolore è un’esperienza soggettiva e si manifesta come una totalità difficilmente isolabile.Oltrepassa i limiti del corpo e satura completamente la vita alterando le relazioni,i sentimenti,le occupazioni,la stima di sé fino a“presentificare”l’immagine della morte che la condizione di benessere offusca e allontana.Per non parlare poi del passato e del presente che si confondono e del futuro che si tinge della”paura della disintegrazione”.Mi ricordo di una persona alla quale,in prima seduta,dopo che mi aveva elencato i propri disagi,risposi:-Credo di aver capito!Quello che lei mi riporta in termini tecnici si potrebbe definire un attacco di panico…-.La pz.con un’espressione imbarazzata e anche un po’delusa mi ripete:-…Lei deve essere proprio bravo…se ha capito così bene…Perché io sto tentando di capirci qualcosa da anni…!.Non rividi più questa pz.Dov’è che avevo sbagliato?In sostanza,credo che quella relazione con quella particolare persona si sia arenata al primo incontro perché si è marcata una distanza irreparabile tra il linguaggio narrativo della paziente e il linguaggio“scientifico”,da me usato forse per darmi un tono.Forse in quel momento non era al suo“dolore”che mi riferivo ma al“male”del suo corpo.Non due persone che cercano di approdare ad una“comprensione”reciproca,ma da un lato lo psicologo(“che ha capito tutto”)che diventa mero burocrate della dottrina che propugna,e dall’altro la paziente,spogliata della sua “unicità” che diviene un oggetto analizzato-omologato.Obbligando il suo dolore nel vicolo cieco dell’oggettivazione specialistica è come se avessi obbligato la paziente inerme ad imbattersi nella morte.Non sto parlando della sua morte come fatto,ma di quella cosa più terrificante che deve essere stata la sua“esperienza del morire”,verosimilmente.Voglio dire che reificando la sua esperienza(la paura di morire, tra gli altri sintomi che mi ha riportato)circoscrivendola ad un“attacco di panico”è come se al contempo l’avessi sminuita togliendo dignità al suo dolore.Da qui probabilmente nasceva il suo sarcasmo.Il tecnicismo“attacco di panico”può andar bene per intenderci tra noi“operatori della salute mentale”,forse,ma non è molto igienico pronunciarlo alla presenza di una persona che sta facendo lo sforzo,cum timore et tremore multo,di sintetizzarti tutta la difficoltà della sua esistenza,io penso.Devo sempre ricordarmi che fondamentalmente è sui simboli che lavoro e devo fare sempre lo sforzo di trovare la”chiave”giusta per tentare di simbolizzare la sofferenza ricercando un’immagine intorno a cui la persona possa riacquistare la sua capacità di simbolizzazione in modo da consentirle di”dare corpo”ad una narrazione in cui possa “rappresentar-si” il significato della sua esistenza e soprattutto trasmetterlo a me come operatore-psicologo,in questo caso.La psicologia,ma credo anche la medicina sotto molti aspetti non sono soltanto affari tecnici.L’esperienza umana,il senso dell’esistenza non si risolvono unicamente in un teoria di riferimento e nemmeno nei processi biochimici soltanto.
    Gli schizofrenici non delirano tutti allo stesso modo anche se i loro deliri hanno degli aspetti comuni sui quali gli antipsicotici agiscono efficacemente.La tecnica e i farmaci sono importanti,ma sfuggiamo alla tentazione di credere che soffriamo tutti allo stesso modo.Non mi piace il termine“guarigione”perché implica il concetto medicalistico della restitutio ad integrum che in psicologia“non sa da fare”,che non si può pretendere.La“cura”non“guarisce”,ma accoglie il dolore per restituirlo“compreso”.Ci prendiamo cura perché strappiamo il dolore alla sua solitudine riportandolo nei pressi di quello spazio umano che è“luogo di comunicazione”,essenzialmente.O almeno ci si prova.Detto questo penso anch’io che lo spazio”Io-Tu”non è l’unico idoneo alla comunicazione del dolore.L’esperienza di comunità mi conferma l’idea che-Noi da sempre“siamo”con gli“Altri”-.Le persone che vivono in comunità hanno spesso perduto questa capacità di“essere”con gli“Altri” e devono allenarsi per riappropriarsene.

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