LA PELLE DEGLI PSICOTICI: FRAGILITA’ E RICCHEZZA.
Viaggio esperienziale all’interno di un gruppo
L’incontro con il paziente rappresenta per me
il camminare su un ponte tibetano,
con continui aggiustamenti, guardandosi,
rischiando di cadere ogni attimo
al fine di godere della bellezza dell’incontro
e del percorso di avvicinamento fatto.
Un poter guardare finalmente insieme
tutto quello che ci circonda.
Premessa
Questo lavoro nasce dal desiderio di integrare le teorie fenomenologiche e gestaltiche sul paziente psicotico e sull’esperienza terapeutica (Spagnuolo Lobb, 2001d; 2007e; Yontef, 2001; 2002; Conte, 2001; Brownell, 2010; Francesetti, Spagnuolo Lobb, 2014) con la letteratura presente in Gestalt sul modello comunitario (Spagnulo Lobb, 2001, 2007; Argentino, 2001) e la conduzione dei gruppi (Spagnulo Lobb, 2012; Feder, 2006; Hodges, 2003; Laj, Kitlzer, 1999; Perls et al, 1951). In linea con i principi estetici dell’intervento terapeutico e nella nuova visione della diagnosi secondo i principi estrinseci e intriseci (Francesetti, Gecele, 2010), questo articolo vuole dare uno stimolo di riflessione sulle possibili evoluzioni nell’intervento con i pazienti gravi.
Ho inoltre tentato di descrivere ciò che in questi anni ho provato direttamente sul mio corpo, con la consapevolezza della necessaria difficoltà di tradurre in scrittura un vissuto così profondo e intriso di emozioni: il mio continuo aggiustamento estetico, dalla comunità al gruppo, nello stare sempre al punto di confine di un contatto caratterizzato da un dolore,
un’angoscia talvolta insostenibili, e dalla frantumazione del paziente e dalle sue improvvise deflagrazioni.
Questo aggiustamento mi ha permesso di assistere, nel campo esperienziale, attraverso un atteggiamento estetico-fenomenologico, a processi di rottura fertile delle regole da parte del paziente grave. Un now for break, dove da iniziale spettatore si diventa consapevole coreografo di un movimento pieno di talento, già definito l’infinito talento dello psicotico (Zinker, 2002).
Proprio quest’esperienza con i pazienti gravi ha rappresentato per me una fonte inesauribile di stimoli, ricerche e sviluppi teorici, come anche un luogo dove non ho potuto fare a meno radicarmi e sentirne le criticità. Di conseguenza l’intento finale di questo articolo è di trasformare in parole la bellezza che il bisogno di “pelle” e confini crea nel reciproco incontro.
Un incontro che, coerentemente con il concetto di campo (1), permette di comprendere i fenomeni esperienziali emergenti da una dimensione non riducibile al singolo o alla semplice somma degli individui coinvolti ma apre alla possibilità concreta, attraverso l’utilizzo dei racconti dei miei vissuti e quelli dei pazienti, di esplorare le radici teoriche che caratterizzano la psicoterapia della Gestalt.
Un viaggio dunque che attraversa l’incontro con il paziente grave, il suo ingresso in comunità e il suo diventare parte di un gruppo di psicoterapia.
1. L’esperienza del terapeuta con il paziente psicotico: pelle che incontra l’altro
I pazienti gravi sono come foglie fragili, sensibili a ogni anelito d’aria. In loro la mancanza della sicurezza che proviene dal ground dei contatti acquisiti (M. Spagnuolo Lobb, 2011) si somma a un’estrema difficoltà nel differenziare il sé e il diverso da sé. Non hanno ground e vivono in maniera fusionale tanto che il dentro e il fuori, l’Io – Tu non sono chiaramente distinti. Il sé è permeabile a tutto ciò che succede. Tempo, spazio, intenzionalità sono compromessi.
È difficile immaginare quanta sofferenza crei in loro muoversi in un mondo liquido che tutto travolge. Proprio per questo motivo nel lavoro con i pazienti gravi è indispensabile avere delle coordinate chiare, anche se non rigide. Eccole qui di seguito:
a) Lavorare sullo sfondo (ogni elemento è importante e può turbarli)
b) Visione e rispetto del sintomo come doloroso adattamento creativo
c) Necessità di una relazione terapeutica trasparente (un esserci pienamente)
d) Riferimento al ciclo di vita
e) Lavorare sul corpo, differenziando il Korper dal Leib (2)
f) Approccio estetico al fine di cogliere la loro verità e la loro bellezza
g) Utilizzo dello stile ironico
h) Terapia di gruppo in assetto comunitario
La storia dei pazienti gravi è caratterizzata dall’alternanza provocata da continui scompensi e da momenti in cui si apre la possibilità di essere aiutati. Nel primo momento i silenzi sono grida, le voci urla che fanno tremare l’anima, le paure e il semplice fluire della vita scintille di esplosioni incontenibili.
I primi attori ad assistere alla tragicità di questo evento solitamente sono i familiari che con l’ausilio della rete di conoscenze (ove essa vi sia) cercano un luogo dove permettere al paziente di riappropriarsi delle coordinate spazio-temporali perse durante l’esplosione psicotica.
Il mio intervento diagnostico intrinseco (Francesetti, Gecele, 2010) e quindi terapeutico si colloca nella fase successiva, quando il paziente inizia il percorso riabilitativo avendo superato almeno in parte l’estremo disorientamento iniziale in cui il sé non riesce a differenziarsi e la sua funzione-es disturbata non permette di sentire la vita.
L’ingresso in comunità del paziente grave è caratterizzato da un primo incontro di conoscenza che avviene in presenza dei familiari dove oltre a descrivere la comunità terapeutica si concorda il viaggio (percorso riabilitativo) da attuare assieme. Nella mia esperienza, non sempre questo è un momento di piena consapevolezza, visto il sé del paziente (e spesso anche quello dei genitori immersi nel campo psicotico). Pertanto credo che il gancio relazionale dipenda da quello che succede tra terapeuta e paziente, supportato dalla terza parte che è la comunità.
Descrivo ora ciò che accade in un colloquio d’ingresso in comunità con un paziente grave, l’incontro tra il mio campo e il suo campo. Una lente estetica sullo spazio che si co-crea al confine di contatto: “Siamo in una comunità dentro una riserva forestale, senza cancelli né reti strutturali. Un luogo dove la rete è creata dall’intenzionalità di stare e dall’attenzione nel prendersi cura. Un campo terapeutico ondulatorio costituito da fenomeni interazionali (di confine di contatto) continui e a vari livelli (Robine, 2006).
Provo a respirare ogni volta che un corpo non conosciuto si avvicina alla mia stanza. È sempre una novità incontrare la storia di chi a un tratto della sua vita si è perso per poi non ritrovarsi se non confuso tra gli altri, l’angoscia della sua frammentazione e dell’assenza di pelle o di parte di essa, e la mia paura che tutti possano schiacciare, rubare, non prendersi cura di pezzi così infinitesimali e in apparenza non connessi l’uno all’altro.
Le pareti, in qualche modo, sostengono il mio corpo. Poggio i piedi e sento la sedia che mi ancora al pavimento. La luce penetra dalla finestra dietro di me e illumina il suo viso. Prende forma un campo dove si creano, al momento del nostro incontro, dei ponti che permettono al mio paziente di andarsene quando vuole e di riperdersi tra gli spazi che circondano luoghi che diverranno, per un periodo imprecisato della sua vita e della mia, confini dove poterci incontrare.
Ancora è troppo presto per lui, forse anche per me. Mi respira, mi scruta, se ne va quasi immediatamente.
Rimango in apnea, un po’ disorientato dopo che ha lasciato la stanza, ma qualcosa di corporeo è rimasto in essa. Mi chiedo che cosa ho sbagliato e ripercorro il nostro incontro senza capire cosa è successo. Torna dopo qualche minuto, il suo essere disunito in un milione di piccoli pezzi fa tremare le mie mani che vorrebbero prenderli e ricomporli, ricreando la figura che potrebbe darmi la direzione e liberare il mio respiro. Non voglio che vada, ma non riesco a trattenerlo.
Sento che brucia, c’è troppo dolore in lui, troppa paura in me. Vengo quasi inghiottito dalla sua voragine, è una sensazione di cui è difficile definire forme e contenuti. Sia per me, immagino, sia per lui. Siamo immersi nel campo fenomenologico, dunque esperienziale, che non è realtà meramente soggettiva (Spagnuolo Lobb, 2011) ma una dimensione che sostiene l’emergere di specifiche figure (Francesetti, 2015)”.
La storia condivisa ha origine da quel primo colloquio. Da quell’annusarsi, dal sentire le paure presenti nel campo, dalla creazione attraverso gli occhi e la voce di un filo impercettibile dove il terapeuta inizia a muoversi come un equilibrista e, passo dopo passo, si avvicina ai confini frantumati del paziente, tra mondo interno ed esterno (Francesetti, Spagnuolo Lobb, 2014).
L’esperienza sarà quella di co-creare un campo unico, modulando la presenza e l’assenza, necessaria per respirare e sostenere il vortice che ogni terapeuta a contatto con le esperienze psicotiche si accinge a esplorare. Una sintonizzazione faticosa, unica e irripetibile. Una ridefinizione delle proprie percezioni all’interno di un mondo che non mi perito di definire non troppo dissimile ai quadri di Escher (3).
1.2 Il campo psicotico e il possibile cambiamento
Durante la formazione universitaria e lavorativa le informazioni che acquisiamo sugli psicotici possono preoccuparci ma anche incuriosirci. Risuonano frasi di chi abita quei luoghi ed echi di chi li ha vissuti. Faccio qui alcuni esempi: “Sono persone frantumate destinate alle ricadute”.
“Necessitano di terapie farmacologiche che devono sedarli per evitare acting-out”. “Sono pericolosi”. “Vivono in un mondo loro dove è impossibile entrare finché la terapia farmacologia non fa effetto”. “Possono farti del male in qualunque momento”. “Vivono un’esperienza incomprensibile”. “C’è un’origine multifattoriale del disturbo (disfunzione disattivazione insula, deficit recettori dopaminergici, psicosi unica etc.) impossibile sistemare tutto”.
Di certo questi racconti possono spaventare e scoraggiare chi decide di prendersi cura dei pazienti gravi. Ma lo studio della fenomenologia, dell’estetica in ottica gestaltica e la “masticazione” del modello di G. Francesetti e M. Spagnuolo Lobb (2014, pp. 439-478) possono ridare respiro alla nostra intenzionalità di terapeuti. Riporto alcune loro frasi che ritengo centrali e illuminanti per tutti gli psicoterapeuti della Gestalt, nell’incontro con i pazienti gravi:
“I pazienti gravi vivono in uno stato di emergenza continua poiché non sono in grado di utilizzare quelle certezze di base che consentirebbero loro di dimenticare la percezione di vivere in una situazione di estrema difficoltà, minacciosa per la loro esistenza (…). Hanno una creatività limitata e faticosa (…). Bisogna lavorare sullo sfondo, il campo difficile deve diventare un campo accogliente (…). Avere attenzione e coerenza tra il che cosa e come si comunica (…). Manca in loro la maturazione e la separazione dei confini (…). Compromissione o perdita del senso di essere parte di un mondo comune. Io e tu non sono distinti e non è possibile lo stato della condivisione”.
Queste sono parole che alimentano la speranza di raggiungerli, almeno attraverso un campo accogliente e chiaro.
2. Modello comunitario: parte essenziale del mio ponte
Dopo il ground teorico sui pazienti gravi ritengo utile descrivere il co-terapeuta di ogni psichiatra/psicoterapeuta della Gestalt: la comunità (4).
La comunità terapeutica riabilitativa diventa per il terapeuta della Gestalt (soprattutto per lo Psichiatra della Gestalt) un’inseparabile compagna, un solido supporto e una memoria inesauribile di storie e vissuti. Permette la narrazione all’interno di essa e del suo campo (costituito dalla struttura fisica, dagli operatori, dai figli degli operatori e da tutto quello che la circonda) delle storie dei campi psicotici e delle acquisizioni su movimento e azione. Un processo di cura che si evolve nel tempo e che si arricchisce grazie all’esperienza di nuovi operatori e nuovi pazienti.
La comunità accompagna e sostiene le molteplici storie dei terapeuti, si prende cura dei respiri interrotti e delle paure. È un ambiente che vive attorno a chi ne fa parte, che si nutre delle relazioni e degli incontri che emergono. In un’ottica intersoggettiva, rappresenta un elemento costitutivo e un saggio protagonista nell’interazione tra i mondi esperienziali che caratterizzano l’incontro con il paziente.
La comunità permette il crearsi del “terzo” (5) che si prende cura dello sfondo attraverso un processo descritto da Margherita Spagnuolo Lobb nel suo modello. Di seguito, sinteticamente, ne elenco le fasi (fasi evolutive che permetteranno una costruzione di un’esperienza del sé ben radicata):
– Il crearsi di un ambiente terapeutico (accogliente, flessibile e rassicurante)
– La differenziazione del sé (integrazione, personalizzazione)
– L’orientamento e ritmo del sé (tempo, rituali, apertura all’esterno)
– La differenziazione dei propri bisogni (cura, regole, condivisione)
2.1 L’esperienza comunitaria: il quietarsi dello sfondo
Il paziente grave, dal momento in cui inizia a sentire il ground della comunità e del modello terapeutico in azione, inizia a riprendere contatto con le funzioni vitali che durante il suo lungo periodo di crisi aveva perso. A poco a poco emerge una maggiore consapevolezza del tempo, dello spazio e della cura di sé. Tutte dimensioni che potrebbero sembrare scontate, ma che non lo sono in chi ha perso (o non ha mai avuto) ogni centimetro della sua pelle e, per chi ogni anelito d’aria è una bufera insostenibile.
Il terapeuta assiste stupito a questa lenta rassicurazione e al quietarsi del suo sfondo.
Come una non pelle da rispettare, da sfiorare con attenzione. Un campo psicopatologico come campo fenomenologico in cui è custodita la sofferenza come assenza. (Francesetti, 2014).
Riporto una la frase di un paziente pronunciata durante i primi colloqui di conoscenza. Frase che mi colpì, trasmettendomi tutta la tragicità del vissuto e chiaro esempio del loro sé frantumato : “Dottore non riesco a sentirla, come se ci fosse un intervallo di tempo tra me e lei, non ho sensibilità agli occhi, mi si bloccano e poi le voci mi fanno confondere quando c’è lei”.
Ogni giorno il terapeuta viene sommerso da deliri di ogni genere, tormentati adattamenti creativi che il paziente attua nel disperato tentativo di conservare realtà percettive che, non avendo ricevuto il giusto sostegno, si sono pian piano sgretolate. Questo non deve scoraggiare il desiderio di cercare e riconoscere il nucleo di verità contenuto nel profondo del paziente (Stolorow, 2014). L’atteggiamento estetico del terapeuta può permettergli di guardare alla vitalità di ciò che accade, far sentire il paziente riconosciuto sia nella sua profonda angoscia che nelle sue parti non psicotiche. L’intervento estetico del terapeuta (Miller 2011, Spagnuolo Lobb, 2011, 2012, 2013, 2014; Robine, 2006b; Francesetti 2012, 2014;), nello specifico con lo psicotico, permette di andare alla radice dell’esperienza, un luogo dove il terapeuta, se non supportato e collegato attraverso la sua vita e le sue relazioni può perdersi e non essere più di aiuto. Un rischio necessario per sentire la tragicità dell’altro che può essere supportato dal nutrimento e dal lavoro sulla consapevolezza che ogni terapeuta deve a se stesso. La capacità estetica va coltivata e custodita e la bellezza si recupera nella pratica (Hillman, 2002).
L’integrazione tra l’evoluzione delle competenze estetiche del terapeuta e l’arricchirsi, giorno dopo giorno, del campo esperienziale tra paziente e terapeuta, mi ha portato a pensare che poco spazio è stato dedicato al terapeuta e a una fase che lo riguarda. Una fase che sopraggiunge e si intercala durante questo delicato processo di presa in cura e costituzione del sé, ossia: la fase della sintonizzazione e della sperimentazione che proverò a spiegare qui di seguito.
2.2 Fase della sintonizzazione e della sperimentazione
La comunità nella sua totalità permette di cogliere i movimenti delle intenzionalità in gioco, affinché l’assenza si riveli nella presenza e si trasformi in bellezza, grazie a una sorta di lente estetica, che dia ordine al caos. Ritengo inoltre sia importante vivere la comunità con una consapevolezza tale che il terapeuta possa riunire le proprie parti e possa così percepire un terreno solido da abitare, uno spazio sicuro. Respirare l’aria piena di emozioni e di sofferenza può infatti permettere al terapeuta di sintonizzarsi gradualmente con il tempo dei pazienti, con la loro velocità e la loro lentezza.
Ecco un esempio di questa sintonizzazione: “Mi libero da ogni tentativo di mascherare la mia ansia, esperienza che mi permette sia di tremare che sbloccare il mio respiro. Provo a concentrarmi sul mio corpo e sul mio ground teorico esperienziale. Qualcosa cambia: emerge in me la curiosità e il desiderio di scorgere la bellezza e la passione per un mondo che da diversi anni ho deciso di co-abitare. Le fasi (il suo percorso in comunità secondo il modello di Spagnuolo Lobb) dei pazienti e l’ambiente comunità s’intrecciano con il mio sentire, il mio orientarmi e il mio momento di vita, in attesa di un punto d’incontro, che possa darmi la consapevolezza necessaria e la spinta per trasformare in azione quello che già accade.
Anelli concentrici che permettono maggiore protezione e intimità man mano che si riducono di grandezza. È iniziata la fase della sintonizzazione e della sperimentazione”.
La fase della sperimentazione e della sintonizzazione riguarda sia le sensazioni del terapeuta durante il suo stare in comunità a contatto con il processo di cura del paziente, sia la sua l’intuizione sul dare vita a un gruppo, e con chi, e con quali temi e strumenti.
Questa fase dunque non contempla solo l’accordo da parte del terapeuta alle modalità sensoriali più sviluppate dei pazienti, influenzate sia dall’ambiente di provenienza che dall’ambiente nuovo della comunità, ma anche l’integrazione di ciò che è avvenuto fino a quel momento.
Il risultato sarà dato dall’unione degli incontri, degli scambi, dei colloqui (somma dei singoli momenti dedicati ad ogni paziente) intrattenuti con ognuno dei pazienti e dal coraggio del terapeuta nel tradurre in azione. Il now moment da Daniel Stern, l’intenzionalità che mette ordine al caos di Francesetti e il now for next di Margherita Spagnuolo Lobb.
La mia fase di sintonizzazione e sperimentazione trova il suo spazio e il suo tempo come descritto qui di seguito: “Aspetto l’assemblea di comunità (6) per comunicare la data di inizio del mio gruppo “Sogni e immagini”. Non è una sorpresa, avevo già parlato con i componenti del gruppo e mi aspettavano, gli avevo spiegato cosa avremmo fatto insieme. Certo, forse con questa attesa ho creato in loro un po’ d’ansia. Tuttavia era un rischio da correre affinché mi sentissi pronto, e poi era un rischio contenuto, considerando il loro profondo rispetto per la relazione co-creata in questi mesi, anni”.
3. Il gruppo in comunità: anelli concentrici
Una delle fasi fondamentali nel lavoro in comunità è caratterizzata dalla capacità di occuparsi dell’orientamento e del ritmo del sé, occupazione facilitata e amplificata dal gruppo, poiché, diventando un rituale non stereotipato, è come se fosse un micro tempo (protetto e co-creato) nel macro tempo della comunità.
La modalità gruppale (Spagnuolo Lobb 2011, Yalom 1970, Perls 1951) è unica per potenza terapeutica, per capacità formativa, di scoperta e ricreazione di se stessa grazie alla costante presenza di chi ne fa parte (Hodges, 2003). In essa vi è un accordo esplicito del tempo della condivisione dando una coscienza intenzionale all’incontro (Spagnuolo Lobb, 2007). Vi è l’assistenza da parte del terapeuta all’emergere dei bisogni in modo differenziato rispetto alla confusione simbiotica iniziale.
Questa modalità permette di non turbare il loro mondo confuso, la distanza dal fluire della vita, la mia difficoltà nel dare forma alle situazioni. Stolorow (2014) lo descrive come un campo intersoggettivo formato da mondi esperienziali interagenti, Nancy Amendt-Lyon (2007) come uno scambio creativo nella terra di nessuno, dove le persone coinvolte nel processo terapeutico sono curiose e disposte a sperimentare.
Tali incontri terapeutici permettono di lavorare sulla superficie, luogo in cui si sono creati piccoli frammenti di novità che arrivano al profondo dell’altro, ne ammorbidiscono il corpo e lo sostengono nel cambiamento.
Descrivo il mio delicato entrare in questa terra così fertile ma altrettanto sensibile a ogni anelito d’aria: “La mia storia, la mia vivacità e il mio amore per la vita mi hanno permesso di sentirmi libero di farmi guidare dalla bellezza e dalla fiducia del contatto delicato e rispettoso. Sono spinto dalla curiosità e dalla ricerca delle parti sane, di ciò che non si era rotto in tanti anni di scosse. Di quel piccolo pezzo del puzzle da cui ripartire, assieme, posando sul tavolo solido di una comunità con trent’anni di storia e di storie. Comunità che è la mia protezione necessaria per entrare nel mondo dell’indicibile alla ricerca della qualità e delle direzioni che l’energia prenderà in questo mia nuova esperienza gruppale. Ogni anno il gruppo che ho condotto ha cambiato tema, modi e tempi così come la mia vita, il mio sentire e la mia capacità di percepire.
È chiaro, adesso, come la fase della sperimentazione e della sintonizzazione riguardi sia il sentire del terapeuta, durante il suo stare in comunità a contatto con il processo di cura del paziente, che il divenire azione attraverso l’intuizione sul quando iniziare un gruppo, con chi, con quale tema e strumenti”.
La creazione di un gruppo rappresenta così l’armonico divenire della fase della sintonizzazione e sperimentazione, un modello d’intervento non pre-formato ma sentito, che si co-crea nel tempo al confine di contatto tra i vissuti dei singoli pazienti e il vissuto e il momento di vita del terapeuta. Un esperimento unico che stimola la vitalità, l’innovazione e la significatività dando quell’accezione gestaltica alla parola creatività che permette al paziente e al terapeuta di venirsi incontro e influenzarsi reciprocamente (Nancy Amendt-Lyon, 2007).
3.1 Il ponte del gruppo: racconto di una delle esperienze
Il gruppo di cui racconto ha avuto una durata di circa sei mesi, con incontri quindicinali. Costituito da 10 pazienti con diagnosi di psicosi. Tutti avevano avuto un periodo di ricovero e osservazione superiore ai sei mesi ed età media di 35 anni. Il gruppo è stato condotto da me con l’ausilio di un osservatore (per me di estrema importanza nell’essere spesso usato come terzo). Durante le varie sessioni, seguendo le fasi che caratterizzano l’evoluzione di un gruppo di terapia, mi sono preso cura di favorire la creazione di un ambiente che potesse aiutare lo stabilizzarsi dello sfondo e l’acquisizione della fiducia necessaria per la condivisione dei propri vissuti.
Provo ora a descrivervi alcuni momenti inziali di questa esperienza gruppale: “Apro gli occhi, siamo in cerchio, la mia sedia mi sostiene e sono consapevole che dovrò prendermi cura delle loro storie, dei loro corpi e dei loro occhi che sin da subito mi cercano incuriositi e speranzosi di essere “riempiti” da qualcosa di nuovo. Una novità che potrebbe confonderli e spaventarli, ma il lungo pre-contatto sull’importanza di questo spazio è servito per ancorare i loro pensieri e le loro angosce. Naturali sensazioni in chi, come già descritto, vive in uno stato di non differenziazione. Mi fido del ground della comunità e di tutti i momenti di ascolto e gioco fatti con ognuno di loro: un contatto creato in modo delicato, vero e profondo. Un campo dove il caos e la disorganizzazione hanno iniziato a tendere verso una “buona forma”. Mi piace sentire la loro curiosità, i loro respiri, incarno nel mio corpo la pesantezza dei loro corpi: rigidi, scomodi, spesso con posizioni frutto della loro vita, dei loro dolori e anni di farmaci. Per me un difficile e doloroso rispecchiarsi. La teoria dei neuroni specchio mi aiuta a capire cosa accade al mio corpo quando vedo i loro movimenti e i loro difficili tentativi di liberarsi da uno sfondo impastato e confuso: figure che, per emergere, devono fare uno sforzo immane che non posso non sentire nell’essere al confine di contatto con loro. Scrive Stern: ‘Siamo in un certo senso costruiti per essere dentro le altre persone e per essere partecipi della loro esperienza’ (2007, pag. 49). Penso a quanto coraggio necessito per entrare in loro e non provare tutto il terrore e il senso di catastrofe imminente, probabilmente il desiderio di scovare la bellezza è il mio primum movens. Probabilmente il mio non esserci (il mio adattarmi con immenso sforzo a un campo difficile) o il mio essere appesantito da altro, permette che io interrompa il contatto con la gravità dei miei pazienti. Qualcuno del gruppo se ne accorge, esce dalla confusione, si sintonizza con me e il mio corpo e mi dice: ‘Michele mi piacciono i tuoi occhi li vedo sinceri, mi riscaldano’. Questo ammorbidisce la mia postura e fluidifica il mio respiro. Solo un esempio di tante altre spontanee interazioni e sintonizzazioni. Quello che Stern definisce ‘menti interdipendenti’ (2007).”
Le loro parole sono così piene di vita, nonostante siano immersi nell’indifferenziazione. Un non avere pelle che permette loro di vedere dentro in profondità: vedono il nostro esserci, sentono il nostro nasconderci e le rigidità. Come scrive Stolorow (2014, pag. 43): «un confine fluido che si forma all’interno di un sistema intersoggettivo». Permeabile al confine di contatto, tra sé e il mondo percepito, ogni elemento esperienziale che appartenga a sé o all’altro è visibile. Come se tanto il terapeuta quanto il paziente fossero impegnati in una sorta di relazione «trasparente» (Spagnuolo Lobb, 2011). Questo si può evincere dal dialogo che riporto: “Ogni seduta successiva ai primi incontri, dopo il giro del mio chiedere “come ti senti oggi”, uno del gruppo si prenderà cura di dirmi: ‘E tu dottore come ti senti?’. Una meravigliosa autoregolazione che permette al paziente di sentire la mia presenza ed essere interessato a me. Esempio di co-creazione improvvisata descritta eccellentemente da M. Spagnuolo Lobb nel capitolo L’incontro terapeutico come co-creazione improvvisata (2007, pag. 65-81).
3.2 Permettersi di dire attraverso l’uso del sogno e delle foto
Ho scelto come strumenti per facilitare il pre-contatto all’interno del gruppo il mondo dei sogni e delle foto. Luoghi dove il paziente grave può permettersi di dire sentendo meno l’obbligo e il dolore di parlare di sé. Qui non si cercano spiegazioni o risoluzioni del sogno, ma il sogno stesso diventa mezzo semplice di contatto. In tal modo il paziente è più disposto a mettersi in gioco utilizzando la costruzione fantastica laddove il ricordo viene meno.
Il sogno è un modo di essere al mondo mentre la foto è uno spaccato di vita. Entrambi fanno accedere alla sfera fantastica permettendo allo psicotico di sentirsi più libero di parlare.
I sogni aprono il loro mondo intimo e riempiono dei vuoti dando dei confini al loro mondo, diminuendo l’angoscia e creando un gancio con la loro realtà e con il loro mondo percettivo.
Nel sogno, come nelle allucinazioni e nelle illusioni, la maggior parte degli elementi si trova nell’ambito della vista, dell’udito e della sensibilità in generale. Il minor numero degli elementi si trova nell’ambito dell’olfatto e del gusto.
Diversi esperimenti possono prendere vita dall’utilizzo delle foto, come strumento dove proiettare i propri vissuti permettendone spesso la semplificazione degli stessi. Lavori individuali o di gruppo che mobilitando la parte creativa, seppur dolorosa, creano un luogo sicuro (ground) dove poter contattare la parte più pura e incontaminata di ognuno di loro.
In modo quasi magico e spontaneo, dopo diversi lavori sulla fiducia e sull’affidarsi alla relazione, il gruppo ha iniziato a raccontare i sogni. Il gruppo ha iniziato a sognare.
Si è ripreso un contatto in modo sano (quello possibile) con i sensi, si sono sentiti sostenuti in questo e li hanno sperimentati in gruppo attraverso la fiducia nel campo. Si è avuto un passaggio dall’esperienza soggettiva a quella co-creata all’interno di un campo condiviso e influenzato reciprocamente. Un delirio co-costruito innocuo e contenuto. Scrive O. Rossi (2014): «Il lavoro arteterapeutico con il sogno offre la possibilità di ricontattare gli elementi cognitivi, emotivi ed esistenziali costitutivi delle azioni che mi permetto solo durante il sogno». Abbiamo giocato con le parti del sogno e delle foto, a drammatizzarli, a portarli a termine e a costruire storie, l’uso dell’ironia (7) ha facilitato il tutto.
Parti del sogno come parti di sé delle quali il paziente non era consapevole o comunque inattive, di cui si è riappropriato nell’intenzionalità di raggiungere il terapeuta e il gruppo.
Di seguito alcune affermazioni di uno dei componenti del gruppo dopo una sessione di drammatizzazione, esempio del suo iniziare ad affidarsi: “Dottore ma io mi diverto troppo così, e pensare che credevo che dovessimo stancarci e io dovevo pensare troppo, già ne ho troppi pensieri per la testa”. “Questo gruppo mi piace mi permette di rilassarmi e conoscere meglio gli altri, quelli di questo piccolo gruppo… ma non è che può durare di più?”.
Foto, sogni e ironia hanno dato il naturale permesso ai pazienti di risperimentarsi all’interno di un campo più morbido e accogliente, dove la capacita di giocare e scherzare ha rimesso il gruppo in contatto con la propria parte creativa e capacità di adattarsi. L’ironia come modalità per modulare l’energia permettendo di evitare il ritiro dal contatto nei momenti di maggiore pesantezza o impasse senza rimanere incastrati (Melnick, Nevis, 2007). Emerge il mio sentire, un campo più accogliente e disposto a sperimentarsi: “Potevo osare un po’ di più, ne ho sentito la possibilità durante una sessione dove una paziente aveva provato a raccontare un sogno, ma il suo corpo vibrante e le voci del suo campo percettivo bloccavano ogni sua parola creando quell’imbarazzo in cui era solita retroflettere. Spesso aveva verbalizzato come le voci denigravano il gruppo e lei stessa, una lotta continua per il suo difficoltoso adattamento creativo a quest’ambiente così appassionante e così diverso dagli angoli della comunità dove era solita stare. Mi permetto di dirle, dopo essermi avvicinato a lei e provando a sentire il campo tra noi: ‘Sara, ma com’è per te provare a raccontare il tuo sogno poggiando i piedi, poggiando la schiena, guardando il gruppo e provando a respirare?’. Il corpo del gruppo seguiva e sosteneva questo suo essere tra noi, sguardi e respiri accompagnavano delicatamente il suo, anche io mi sentivo sostenuto in questo processo di ancoraggio allo spazio condiviso (…). Un campo fenomenologico corporeo in quanto sempre incarnato, circolarmente percepito e generato dalla corporeità vissuta (Francesetti, 2015). ‘Bihh vero…meglio è, mi sento un po’ meno ansiosa…’ rispose Sara, dopo essersi presa il suo tempo. Era sorprendente per me vedere come cambiava l’espressione del suo viso, il suo respiro e di conseguenza, nuovamente, la forma del gruppo. Come se tutti sentivano la responsabilità del sostenerla e ciò dava morbidezza al gruppo, nonostante i kg di psicofarmaci difficili da escludere ogni volta dai loro vissuti e dai loro corpi”. Questo conferma gli ultimi studi di neuroscienze dove la reciprocità definisce in modo fondante l’esperienza, coniugandola alla prospettiva gestaltica dove il soggetto emerge dal campo relazionale della situazione data. Assume centralità l’importanza del prendersi cura del terapeuta del che cosa e del come le cose vengono comunicate dove il corpo è sentito in quanto sempre incarnato, circolarmente percepito e generato dalla corporeità vissuta. Diventano chiare per lo stesso sia la comprensione nel campo e nell’esperienza e il “dimorare all’interno” di Winnicot (1995), che l’esperienza soggettiva di “abitare il proprio corpo” descritta da Stolorow (1999).
3.3 Il tempo del gruppo, il tempo del terapeuta
Lungo questo percorso si assiste all’emergere dei bisogni in modo differenziato rispetto alla confusione simbiotica iniziale. Il tempo pian piano acquisisce un ritmo, passando da momento individuale, dove le frasi tipiche: “Dottore posso uscire?”, “Dottore ma la pausa caffè?”, vengono sostituite da frasi corali dove si evince che ogni elemento è a sostegno dell’altro: “Dai Giuseppe puoi resistere! Poi ci vai in bagno!”, o “Dottore finiamo tra 50’, giusto?”.
È importante aspettare che i respiri dei pazienti si liberino e si affidino all’atmosfera del gruppo. Ci si deve sintonizzare con loro attraverso il sentire corporeo, il quale permette di cogliere verità nascoste dietro le loro apparenti follie. Ho aspettato il maldestro ma affascinante emergere delle figure da un campo così imprevedibile e agitato. L’incarnare, nel qui e ora, un’esperienza di tempo consapevole, caratterizzata dalla libertà di poter fare e lasciarsi andare al contatto con l’altro. Dal chronos al kairòs.
Rischiavo, assistevo stupito al cambiamento delle distanze, a come i pazienti si sperimentavano nelle sculture e nei giochi di ruolo senza finire invasi o irrigiditi. Il contatto fisico ha iniziato a essere sostegno al loro tremito, al loro freddo diventando una scossa. Per me l’esperienza è stata diventare pelle e confine, sfogliare le pagine del loro dolore.
Lavorare con i loro corpi ha richiesto tempo e fiducia, ma anche in questo caso mi sono lasciato guidare dal gruppo, dal suo tempo e dal supporto della comunità che mi ha “alleggerito” dal campo psicotico che spesso appesantiva il mio campo, dalla sua proprietà unica di setting nel prendersi cura della loro ansia esistenziale di fondo. È stato armonizzare emozioni, sensazioni e percezioni. Un’esperienza unica, un kairòs necessario.
Mi piace pensare e credere che dopo un po’ d’incontri, dopo aver sperimentato la sicurezza del gruppo, aver fatto sentire la mia pelle nell’esserci, qualcuno di loro abbia preso contatto con quelle parti sane di sé che sembrano armonizzarsi, funzionare ed emergere dalla frantumazione. C’è vita in mezzo alle rovine e ai terremoti, non bisogna mai smettere di sperare di trovarla scavando con le mani e con la massima cura. La gioia nel sentire il respiro e ritrovare la vita è qualcosa d’indescrivibile.
Vi riporto uno scambio durante un incontro circa a metà del nostro percorso: “Michele posso raccontare il mio sogno di questa notte?”, esordì così Marco dopo qualche minuto. “Certo Marco, ma come sarebbe per te chiederlo di raccontarlo al gruppo?”, dissi, rischiando di bloccare il suo entusiasmo. Tuttavia sentivo che l’intimità nel gruppo era aumentata. “Ah vero… è che tu sei il dottore!”, rispose Marco, imbarazzandosi un po’ ma comunque felice di prendersi il suo spazio con il consenso e la curiosità del gruppo.
3.4 Pezzi di spontaneità: un sogno del gruppo
Descrivo uno dei momenti più carichi d’intensità per la storia del gruppo e mi permetto di parlarvi di Salvatore e del suo delirio di purificazione che spesso condizionava il tempo delle sessioni e metteva a dura prova la pazienza del gruppo. Salvatore doveva bere e lavarsi in continuazione, una pulizia da chi per molti anni della sua vita lo aveva fatto sentire sporco o non lo aveva protetto abbastanza. Non era il primo del gruppo a svelarsi, ma il suo fermare il tempo e rubarlo all’ansia che il più delle volte si impossessava di lui, scosse un po’ tutti.
Salvatore iniziò così a raccontare il suo sogno: “Nuotavo, bellissimo per me che non posso usare le gambe… era un mare caldo ma un po’ agitato, questo non mi spaventava anzi mi faceva sentire la mia forza. Bello sentire le onde, le correnti di acqua che mi spingevano. Che pace quando sono arrivato in una splendida isola”.
Il racconto fu breve, con tante pause, ma fu tanto intenso tale da far provare un fremito lungo il mio corpo attivato dal coraggio e dalla fiducia che Salvo stava donando al gruppo. Salvatore vibrava a ogni parola, come se queste gli uscissero da un processo di spremitura dell’anima. Il gruppo si attivò dinanzi a tutto questo: vidi sorrisi, stupore e soprattutto un movimento in ognuno di essi. Chiesi se erano disposti (come ero solito) a fare un esperimento.
Insieme drammatizzammo il sogno, parteciparono tutti, quasi a voler celebrare il momento: c’erano le onde, le correnti, il calore, le gambe, la paura, il coraggio, l’isola e la felicità. Salvatore si era emozionato e divertito durante questo esperimento. Il gruppo si prese cura di lui, crearono un ground che permise a Salvo, per il tempo del lavoro, di portare sullo sfondo il suo irrefrenabile bisogno di bere riuscendo a stare nell’esperienza e riuscendo a scherzare con il gruppo. Fin quando la sua lotta coraggiosa con il delirio ebbe la peggio, e disse: “Amici, ora devo necessariamente bere, in questa isola ogni tanto fa caldo”. Mi alzai e gli portai un bicchiere d’acqua tra i sorrisi di tutti. La creatività del gruppo si era distesa, anche se sempre faticosa e limitata (Spagnuolo Lobb, 2007), grazie al nutrimento e alla direzione data da un campo accogliente.
Credo proprio che dopo quel sogno qualcosa cambiò. Gli incontri si susseguirono con maggiore fiducia nel potersi sperimentare, il gruppo divenne un luogo aspettato e condiviso anche con da chi non partecipava. Il singolo riemergeva dal gruppo nell’incontro con chi partecipava mostrando così nuove autonomie. I pazienti iniziando a donarsi, avevano reso quello spazio più fertile e sicuro. Una nuova sfumatura aveva arricchito me e la comunità.
4. Il Now for break
All’inizio può essere faticoso riuscire a passare dalla dualità al gruppo. Fidarsi e pensare che altri (pazienti e operatori) possano essere luogo dove essere liberi, per chi non ha la sicurezza del ground dei contatti acquisiti, non è facile.
Così come non è facile l’autoregolazione lenta ma solida, costruita grazie alla presa di consapevolezza da parte dei membri del gruppo del proprio essere presenti e del desiderio di novità. Processi che si intrecciano con la graduale dismissione, da parte del terapeuta, della paura di destabilizzare i pazienti o di dar loro stimoli troppo difficili da gestire durante le settimane e dalla possibilità che il terapeuta si sorprenda di come tali spunti energetici diventino carta velina per altre esperienze al di fuori del gruppo.
Come terapeuta è possibile assistere, e spesso mi è accaduto, a processi di rottura fertile delle regole, un now for break che permette alla tensione avvertita dal paziente di diventare movimento e non sintomo o aggravamento di esso.
L’emergere di gruppi autogestiti, feste notturne, fughe di gruppo, finte crisi psicotiche usate per gioco, sono tutti eventi che fanno tremare l’assetto comunitario e le regole che lo caratterizzano, ma che diventano la manifestazione del ritorno alla vita del paziente grave. In cinematografia, altro efficace strumento capace di agitare lo sfondo, possiamo trovare diversi esempi che descrivono in modo esemplare questo momento di rottura, da Risvegli a Qualcuno volo sul nido del cuculo, da Ragazze interrotte a i più recenti Si può fare e Rosso come il cielo. Tutti film capaci di alimentare la speranza che nutrendo il sé sono possibili risvegli unici e irripetibili.
Il nostro atteggiamento da terapeuti deve guardare al Now for break come a un evento evolutivo secondo i principi estetici che caratterizzano il nostro prenderci cura dando validità all’esperienza.
Conclusioni
Completo questo viaggio esperienziale tra i pazienti, i miei vissuti e questi luoghi abitati con la speranza di essere riuscito a raccontare ciò che, per me, appartiene al mondo dell’indicibile, poiché alto è sempre il rischio che ogni parola e spiegazione perdano di qualche tonalità nel momento in cui abbandonano il mio corpo. Ma è un rischio che mi permette di creare un ponte esperienziale con chi vuole provare a raggiungere il mio sentire, nell’esperienza unica dell’incontro con il paziente grave. Il mio ringraziamento va alla bellezza e al coraggio che ognuno di loro mi ha lasciato e al supporto continuo dei miei maestri e colleghi co-creatori di questo spazio.
Credo nel cambiamento dei pazienti attraverso il riappropriarsi di parti di sé (quelle possibili), e in una maggiore consapevolezza nel loro modo di funzionare. Il gruppo, con la sua preziosa specificità, ha agito sull’insight e sulla capacità di affidarsi all’altro, visto ora come ossigeno e non più come tragico rischio di altre scosse. Il paziente grave, durante questa esperienza, ha potuto, per un attimo, interrompere la drammaticità del susseguirsi dei suoi contatti caratterizzati da bizzarria e ripetitività. Si è riusciti ad ancorarlo alla vita attraverso la sinergia gruppo-comunità. Si è permesso la nascita di germogli di vita in corpi profondamente desensibilizzati.
E infine si è dato il coraggio di rompere i confini attraverso il gesto (now for break).
Mi piace, in chiusura, riportare la frase di J.M. Robine (2006, pag. 35): «Non c’è psicologia, o psicoterapia, dell’uomo che non sia psicologia dell’uomo-nel-mondo», lo stesso mondo dove è intenzionalità mia e della comunità riaccompagnare delicatamente l’altro. Spero di esser riuscito a farvi entrare nel mio gruppo e nella bellezza artistica del co-creare, dove oltre a terapeuta e pazienti si può assistere all’incontro di artisti che si influenzano e stimolano reciprocamente. Artisti che diventano modelli e modelli che diventano artisti all’interno di un processo evolutivo (Rothenberg, 1988).
NOTE
1) La psicoterapia della Gestalt intende il campo come esperienza del confine di contatto organismo ambiente, cioè come esperienza che scaturisce dalla relazione organismo-ambiente.
2) E. Husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser Vortrage, tr. it. cit., p. 119. Ancora Franck commenta: “Questo testo mostra nettamente l’assurdità di tradurre, come si fa spesso e per motivi molto differenti e divergenti, Leib mediante “corpo proprio”́. Nella sfera del proprio, tutti i corpi sono corpi propri e la differenza non è̈ fra due tipi di corpo, ma fra i corpi in generale e il e Leib” (D. Franck, op. cit., p. 94, nota 12). Riferendosi allo stesso passo husserliano, anche Paul Ricoeur sottolinea che “occorre assolutamente rendere mediante carne e corpo la decisiva distinzione fra Leib e Korper (P. Ricúur, Soi-meme comme un autre, Seuil, Paris 1990, p. 373). Cfr. anche P. Ricúur, A l’Ècole de la phénoménologie, Vrin, Paris 1980. Per la traduzione francese che Didier Franck propone dell’intero brano delle Meditazioni cartesiane qui preso in esame, cfr. D. Frank, op. cit., pp. 93-94.
3) I quadri di Escher sono caratterizzati per l’impossibilità che essi presentano, armonie che non trovano soluzioni nel mondo reale.
4) La comunità è La Grazia ed è di tipo terapeutico riabilitativo residenziale convenzionata con l’ASP di Catania. Si trova dislocata all’interno di una riserva boschiva ed è caratterizzata dall’assenza di barriere e cancelli. Negli spazi aperti intorno alla struttura, sono stati costituiti una fattoria didattica e un giardino. Luoghi dove i pazienti e gli operatori diventano tutor per le scolaresche che periodicamente organizzano percorsi didattici nella nostra struttura. La comunità accoglie un massimo di 40 pazienti e vengono inseriti dopo aver fatto un colloquio di ingresso di tipo conoscitivo al fine di valutare se lo stesso è idoneo all’assetto di quel momento e alla specificità della comunità.
5) Il concetto di terzo viene descritto da G.Francesetti e M.Gecele (2010) all’interno della definizione di diagnosi intrinseca: “Questo spazio altro che viene gradualmente costruito con il paziente è qualcosa di cui il terapeuta ha bisogno fin dall’inizio: esso costituisce un ‘terzo’ che dà ancoraggio alla relazione terapeutica (…) nasce dal bisogno del terapeuta di orientarsi (…) nasce dal bisogno del paziente di credere che c’è un luogo da cui partire e quindi anche un luogo a cui poter approdare (…)”.
6) L’assemblea di comunità è una riunione settimanale dove partecipano sia operatori che utenti con l’intento di condividere bisogni e vissuti emersi. Uno spazio sicuro che si ripete da più di 10 anni.
7) L’uso dell’ironia determina una frattura improvvisa e inaspettata del flusso dinamico figura/sfondo, una brusca deviazione dalla direzione che la figura stava prendendo, e si crea una figura inedita. Battute che fanno “tra-ballare” l’altro, lo portano a fermare la sua ansia, il suo non essere presente ai sensi, il suo rimuginare. Rimane stupito dall’intervento paradossale che smuove lo sfondo, sensibilizza le figure rigide e riporta l’altro con i piedi per terra, vicino e curioso. L’umorismo è un processo creativo tra le persone, libera la gioia e concede un sollievo dal dolore e dalla malattia (Zinker, 2007). Concetti sperimentati e sui quali insieme al Dr. Giuseppe Mirone, stiamo scrivendo ulteriore teorizzazioni emerse dall’esperienza di co-conduzione di gruppi.
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