Intervento, come era da aspettarsi, di ampio respiro, che spazia dal problema della memoria a quello della morale in politica. La memoria è conservazione dell’identità: i gruppi che perdono quella perdono questa.Ma la memoria è, dice Bauman, un dono ambivalente, poiché può tener vive cose che hanno un valore ben diverso a seconda dei gruppi. Ce lo propone con forza l’Olocausto: la memoria di esso rende il mondo migliore o peggiore? Bauman lascia aperta questa domanda.
Certo è che le vite dei morti per diventare lezioni, devono essere trasformate in storie. Credo si avverta qui un influsso della psicanalisi, per la concezione del processo analitico come narrazione, e soprattutto per il discorso freudiano della memoria come ricostruzione e riattivazione anche patogena di eventi remoti, peraltro modificati e rimaneggiati. Mi sembra però che nella memoria collettiva, che entra in gioco nelle ricostruzioni storiche e nella attività politica, il rimaneggiamento lasci spazio alla arbitrarietà e a manipolazioni orwelliane. Anche la storia dell’Olocausto è stata ed è necessariamente ricostruita da una collettività che aveva trionfato sul nazismo; ma dovremmo forse riconoscere una qualche legittimità anche a quella, pure sentita infame, dei negazionisti che leggono in tutt’altro modo le testimonianze? Sappiamo che si discute anche sulla perseguibilità giudiziaria delle loro posizioni: sarebbe giusto?
Per Bauman già Shakespeare sentiva fondamentale la ricostruzione storica, poichè Amleto morente esorta Orazio a dire la sua storia; aggiungerei che con l’indimenticabile chiusa “ il resto è silenzio” sembra indicare quanto circoscritta e limitata sia la testimonianza storica, e forse la necessità di una selezione. A questa segue l’interpretazione, altro fattore di soggettività e forse arbitrarietà.
L’articolo entra poi nel tema del potere con una suggestiva metafora, paragonando l’opera della memoria storica a quella di un esercito, in cui le storie sono soldati e i narratori sono i comandanti. Dunque il risultato nasce dall’esito di un conflitto: mai c’è una riproduzione pura e originale. Infatti il potere, ma – meno consapevolmente – anche una globale coscienza collettiva, fa ampio ricorso alla manipolazione. Di questa fanno parte due aspetti che l’articolo, rifacendosi a Tzvetan Todorov, chiama sacralizzazione e banalizzazione. Entrambe possono essere trappole. Poiché i gruppi si costituiscono anche condividendo le memorie con un meccanismo di trasmissione della memorie singole, a volte imposte, sia sacralizzazione che banalizzazione separano i gruppi l’uno dall’altro, chiudono l’esperienza al loro interno.
La prima rendendo “sacro” l’evento lo rende unico, non confrontabile con alcunchè ,indiscutibile e impensabile. Per Todorov impedisce lezioni universali da un fatto, e quindi la comunicazione fra passato e presente. Ricordo che la parola sacro accanto all’accezione positiva ne ha una negativa: l’“auri sacra fames” è qualcosa di invincibile , ma anche di maledetto. E’ la sacralizzazione che ha reso intoccabile e quasi non pensabile l’Olocausto: la sua orrenda unicità rende improbabile renderlo lezione per altri eventi. Tuttavia un po’ di sacralizzazione, non troppa, è necessaria per trasformare l’evento in qualcosa di eccezionalmente esemplare.
Quanto al termine “banalizzazione”, esso può ricordare per associazione il discorso di Hannah Arendt sulla banalità del male, in qualche modo anticipato da Dostoevskij che ci presenta il diavolo come del tutto sprovvisto del fascino luciferino che la nostra fantasia gli attribuisce, e anzi come una sorta di parassita di aspetto e fattezze del tutto comuni, che cerca faticosamente di mantenere uno status in qualche modo dignitoso. Per la Harendt le persone come Eichmann sono una sorta di impiegati del male, inquietanti per la piattezza e l’incapacità di pensare (del resto, come gli impiegati del Tribunale di Kafka), e in ciò sta la loro banalità. Anche per lei dunque, come per Bauman, la banalizzazione è il vedere come ripetitive e quindi banali, già viste, situazioni che invece hanno la loro specificità: Eichmann non è un comune impiegato.
La banalizzazione – ciò che è accaduto si ripete sempre uguale – toglie ogni originalità ed esemplarità all’esperienza, inducendo tediosa monotonia. Ne parla un personaggio di Tolstoi in Guerra e pace, dichiarandosi stanco di sentir parlare di carestia e di fame: “come tutto ciò è stancante, alla fine!” Ma la fame continua, non si stanca. La banalizzazione pur essendo un meccanismo opposto alla sacralizzazione può condurre in analoga trappola, vedendo uguale ciò che uguale non è: l’Autore cita ad esempio l’impropria equiparazione proposta fra l’Olocausto e la pulizia etnica agita sui bosniaci, che ha giustificato l’intervento contro la Serbia.
Un aspetto della banalizzazione è il ritenere infine che tutti i nemici tendono ad assomigliarsi fra loro, nella loro ferocia da punire (magari con interventi altrettanto feroci, ma ciò viene dimenticato). Distinguere fra ferocia e inflessibilità punitiva è prerogativa del vincitore, e ciò introduce al grosso discorso sui rapporti di potere e le valutazioni di moralità o no degli atti. Non è un discorso di oggi, poiché già Tacito icasticamente diceva che “quando si giunge alle mani, giustizia e probità sono meriti del più forte”.
Ciò introduce al tema della coercizione contro un avversario più debole, cui può esser connessa l’esigenza di “venderla” come nobile sacrificio di sé. Ricordo che è un tema trattato da Borges nel breve ma succoso racconto “Deutsches requiem”: l’ex comandante di un campo di concentramento nazista, dove ha perpetrato programmatiche atrocità, ne riparla, ormai da condannato a morte dagli Alleati: ha agito sacrificando la propria personale propensione alla mitezza perché il suo imperativo etico era contribuire a un mondo retto dal dominio violento: cosa che gli appare realizzata anche se la Germania è stata sconfitta.
Se i nazisti sono giunti all’Olocausto, scandalo intollerabile anche per un mondo da sempre retto dai rapporti di forza, è perché erano guidati da una ideologia di questo tipo, cui credo abbia potentemente contribuito il pensiero di Nietzsche. Da “così parlò Zarathustra”: “Miei fratelli in guerra! Io vi amo dal profondo, io sono ed ero vostro simile. E sono anche il vostro miglior nemico… Dovete amare la pace come mezzo per nuove guerre… La guerra e il coraggio hanno fatto cose più grandi di quelle che ha fatto l’amore del prossimo… E se la vostra anima diventa grande, diviene pure spavalda e nella vostra grandezza c’è cattiveria…” L’esortazione all’obbedienza è l’altra componente che ha consentito gli orrori dei lager: “La vostra nobiltà sia l’obbedienza! IL vostro stesso ordinare sia un ubbidire! Per un buon guerriero “tu devi!” suona più gradevole che “io voglio!”. Non sappiamo quanto di queste espressioni siano davvero sue oppure dovute alle manipolazioni della sorella, fervente nazista; certo è che il messaggio è arrivato, sostenuto dal prestigio del nome e ampiamente strumentalizzato.
Ma le radici di questo modo di pensare sono lontane: l’invito alla sottomissione all’autorità costituita è di Lutero, che ha preso le parti dei principi contro la ribellione dei contadini che credevano in una portata rivoluzionaria e sociale del suo messaggio. E quanto al prestigio della violenza possiamo risalire addirittura a Tacito. Egli racconta che per certe tribù germaniche “è da poltroni procurarsi col lavoro ciò che si può acquistare col sangue”. Ma non diventiamo razzisti…
Però l’unicità orrenda di quanto è accaduto non deve farci chiudere gli occhi di fronte a violenze meno gravi ma non di molto. Quale sarebbe la memoria dell’olocausto se i nazisti avessero trovato a tempo la bomba atomica? Immagino che avrebbero processato chi, a guerra già decisa, ha deciso la distruzione – con relativa strage – di Dresda; e non parliamo di Hiroshima. Bauman ricorda Moshe Landau, che presiede il processo a Eichmann e, tempo dopo, la commissione che legalizza la tortura, contro antisemiti “analoghi” ai nazisti. Difficile ma necessaria la ricerca di principi etici universali, e la loro applicazione a singole situazioni. E comunque come condannare i vincitori?
Ok, bravo!
grazie Luigi!