Vaso di Pandora

La geniale giovinezza di Blaise Pascal

Commento all’articolo di F. Marcoaldi apparso su La Repubblica il 06/07/2016

Pascal non ha lasciato gran che di sistematico anche perché, genio precocissimo, è però morto prematuramente: i suoi pensieri sono stati raccolti da amici e allievi. Malgrado ciò, la sua impronta sul pensiero filosofico è ampia e fondamentale: i suoi lasciti traversano le più varie correnti di pensiero.

Mentre la scienza moderna nasceva, già ne saggiava sapientemente i limiti, quasi prevedendo i rischi di una sua pretesa onnipotenza. La riteneva non in grado di risolvere gli interrogativi sul senso della vita: questi gli apparivano imprescindibili, ciò che fa di lui un lontano precursore dell’esistenzialismo. “Non so chi mi abbia messo al mondo, né che cosa sia il mondo, né che cosa io stesso”.

Definiva divertissement, in un senso più ampio di quello di “svago”, il nostro divagare da questo problema centrale: ”E’ un oblio e stordimento di sé nella molteplicità delle occupazioni quotidiane e degli intrattenimenti sociali”.

E’ importante capire che la condizione umana è intrinsecamente contraddittoria: “l’uomo è una canna; ma è una canna che pensa…Un vapore, una goccia d’acqua bastano a ucciderlo (viene in mente il Leopardi del dialogo fra la Natura e l’islandese); ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe sempre più nobile di quel che lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità che l’universo ha su di lui, e l’universo non ne sa nulla”.

Questa estrema contraddittorietà verrà, in altri termini, sottolineata anche da Kant: “il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”. Condizione dunque di grandezza ma anche di miseria: sentirsi un niente di fronte al cielo stellato, ma anche unico portatore di quella immensa realtà che è la legge morale comporta uno scarto mai colmabile fra desiderio e realtà, fra ciò che si è e ciò che si vorrebbe e forse si potrebbe essere. Non c’è bisogno di sottolineare quanto a questo pensiero sia debitore Lacan col suo concetto di “mancanza ad essere”.

Blaise Pascal anticipa in qualche modo ancora Kant con la riflessione sull’etica: i suoi principi non sono dimostrabili razionalmente, ma tuttavia sono una necessità, e non possono fondarsi che nella fede in Dio, la cui esistenza a sua volta è dimostrabile solo con le ragioni del cuore. Se mi si concede una sommessa critica, mi pare che la sua riflessione religiosa scada alquanto nel celebre discorso della scommessa, celebre ma che fa torto al suo pensiero più elevato: far notare che conviene scommettere sull’esistenza di Dio, perché se si vince il guadagno è enorme, mi sa di squallido calcolo ragionieristico; chiedo perdono, e riaffermo che malgrado ciò il valore della sua riflessione sulla fede resta intatto.

Oggi a un laico può esser comunque difficile seguirlo sulla strada dell’adesione al cristianesimo, ma si deve riconoscere prezioso il suo contributo alla comprensione dell’universale bisogno di credere, che è risposta anche alla fondamentale tragicità della condizione umana. Interessante anche notare che questo approdo alla fede religiosa è il punto d’arrivo di un percorso analogo a quello seguito, molto tempo dopo, da Kierkegaard: Dio come ente inattingibile dalla ragione ma unica difesa dalla disperazione.

E’ divenuta un classico la distinzione fra esprit de geometrie ed esprit de finesse, espressa in altro modo anche dal celebre aforisma “Il cuore ha la sue ragioni, che la ragione non conosce”. C’è qui un presagio della rivoluzione romantica.

Molto moderno il suo pensiero epistemologico: ci fa notare che neppure nei campi che le sono propri la scienza può pretendere alla “verità” assoluta, poiché inevitabilmente parte da presupposti non dimostrabili. Questi si potrebbero dimostrare solo a partire da altri enunciati – possiamo chiamarli meta–presupposti – che a loro volta necessiterebbero di una convalida; e così via, in una regressione senza fine. L’accettazione dei primi presupposti – esempio classico i postulati della geometria – avviene quindi su una base intuitiva, in qualche modo parente dell’esprit de finesse. Parecchio tempo dopo Pascal, l’elaborazione delle geometrie non euclidee ha messo a fuoco il problema con piena chiarezza: le proposizioni geometriche pur rigorosamente dimostrate non si possono ritenere vere in assoluto, ma solo coerenti con i postulati.

Ma la scienza ai suoi occhi mostrava la corda soprattutto quando si trattava dell’uomo: “Avevo trascorso gran tempo nello studio delle scienze esatte…Quando cominciai lo studio dell’uomo, capii che quelle scienze esatte non si addicono all’uomo”. La sua è evidentemente una lezione ancora valida oggi per noi operatori psi, quale argine a un certo scientismo che pretende essere l’unica o più affidabile chiave di lettura in quanto si appoggia a quei metodi di verifica e quantificazione che si sono dimostrati efficaci nelle scienze naturali. E’ particolarmente significativo che Pascal abbia avuto come suo punto di partenza la geometria e la matematica, praticate fin da adolescente con risultati brillanti, ma poi lasciate indietro quali semplici “mestieri”.

E’ forse a lui che si è ispirato Heidegger nella sua svalutazione della tecnica, che fra l’altro ha inciso nel messaggio inviato agli psichiatri con i “Seminari di Zollikon”, del quale un aspetto centrale è l’invito a non trattare la mente come un oggetto: una delle fonti del modo, condiviso da tanti di noi, di intendere il rapporto con il paziente. Sempre in questa corrente di pensiero, interessa anche notare che la distinzione geometrie – finesse è stata sostanzialmente ripresa da Dilthey e quindi da Jaspers con la distinzione fra lo “spiegare” scientifico-naturale (erklaren) e il comprendere (verstehen) che è centrale nei rapporti personali, terapeutici o meno.

Se tutta la nostra cultura è debitrice a questo pensatore sorprendentemente moderno, è bene non dimenticare quanto lo sia specificamente chi fa il nostro mestiere.

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