Non importa che sappiate chi è Joker e nemmeno che sappiate chi è Batman.
Un po’ come me, che sono andata al cinema senza sapere un accidenti di niente né su uno ne sull’altro. Ciò che importa è fare i conti con quel nucleo di dolore e follia che alberga in Joker e in ognuno di noi.
Joker è il figlio reietto, dimenticato, abbandonato, molestato, abusato. Eppure non chiede niente, soltanto ‘un dannato abbraccio , un po’ di calore, perché che avete tutti!’ lui è la parte di noi dimenticata e cancellata per pulirci la faccia e apparire decenti e sorridenti al lavoro, con i figli, con le mamme.. ‘non dimenticarti di sorridere’ recita un cartello dove lavorano dei clown e dove lavora anche lui.
‘Happy ‘ lo chiamava la mamma , cioè felice. Perché Joker ride insensatamente e per tutto il tempo ti mette a disagio, ma non ride perché è felice , no, ride perché ha un disturbo neurologico. Eppure non chiede nulla, continua a non chiedere nulla.
È solo, con una madre che gli ha rovinato la vita e che premurosamente accudisce al limite dell’incesto. È povero, è bullizzato, non è nemmeno bello per come i bianchi occidentali intendono il bello. Eppure lui continua ad aderire al copione che gli è stato appiccicato addosso con tutta la violenza del mondo : il copione del Clown, del comico , che DEVE ridere e far ridere . E cerca di farlo bene, se non fosse che ogni tanto quel nucleo di dolore che è tutt’altro che robetta felice, gli scappa dalla bocca con quel riso singhiozzato a casaccio fino a soffocare.
E questo, questo è il sintomo : quello che si affaccia nonostante il maledetto copione che abbiamo dovuto ingoiare a forza e farcelo piacere, finché non arriva lui , il fottuto sintomo. Prima prova ad estirparlo , con 7 diversi tipi di psicofarmaci , con una terapia, essendo ancora più fintamente buono, zitto, contento… e perché? Perché è convinto di avere qualcosa che non va, chiaro, di essere lui lo strano, lo scemo, il pazzo e come tutti quelli che sono cosi, come tutte le volte che anche noi ci mascheriamo da felici e contenti , dentro sappiamo che siamo depressi , schifosamente soli, e forse anche pazzi.
E ad un tratto arriva una sorta di svolta. Joker capisce che tutta quella miseria, quella stranezza e quel “non sapere neanche di esistere “, non è lì a caso solo perché lui è sfigato.
No, tutto quel nugolo di disperazione e ferite lacerate, hanno un quando , un come e un perché. Hanno un cazzo di motivo di essere lì. E da lì , da lì inizia una liberazione. Una liberazione che e ‘ un’ottava discendente, perché come avrebbe profetizzato il miglior trattato di psichiatria , egli decide di passare dalla parte dell’abusatore. E da li non è più lui a tremare non più lui quello spaventato.
Non è più lui quello picchiato e legato al termosifone all’età di 3 anni. Non è lui la vittima tremolante e impaurita. Questa storia parla di abuso . E solo chi è stato invaso costantemente dall’angoscia di un abuso può sapere di che stiamo parlando.
Gli altri non possono nemmeno immaginarlo. Questo è un film sul dolore che parla soltanto a chi ha sofferto. E parla di un dolore che sibila , striscia, bussa, si affaccia e poi esplode.
La liberazione di Joker è illusoria, irreale , ma dentro la sua mente egli danza e si solleva da terra ogni volta che un proiettile parte dalla sua fondina per far fuori tutti i suoi carnefici.
E noi godiamo con lui, siamo contenti che stermini tutti quelli che andavano sterminati. Soffriamo con lui tutto il tempo, e per tutto il tempo stiamo accigliati e con le mani strette sapendo che da un secondo all’altro lui dirà o farà una cazzata. Il suo ridere ci agghiaccia, la sua tristezza ci trafigge, il suo frigo vuoto ci costringe a guardare il nostro vuoto e le nostre notti a sentire il cuore che ci pulsa nelle orecchie.
Per la legge del pendolo, Joker, nato buono, ma sfracellatosi nella sua bontà, passa dalla parte del cattivo.
Sono due facce della stessa maschera. Condannati ad una felicità che ci punta ogni minuto la pistola alla testa, passiamo da una maschera all’altra senza mai trovare pace, senza mai sciogliere davvero il nostro vero sé, intrappolato e legato ad un termosifone dentro una stanza puzzolente e invasa da ratti giganti. E cosi in un mondo gelido , sporco e senza abbracci, noi facciamo del nostro meglio.
Facciamo quel che possiamo per non farci fagocitare dalla nostra voragine di dolore.
Luigi Ferrannini
Bello il film, grande l’interpretazione del protagonista. Siamo tutti dalla sua parte in questa sua brama “adolescenziale” di giustizia. E lo seguiamo attoniti nella sua personale discesa all’inferno. Un inferno da cui sembra non esserci redenzione alcuna. È vero! Chi non ha mai pensato di far fuori i propri piccoli e grandi carnefici facendoli prima soffrire tra atroci torture? Per tutti i cattivi pensieri che ho rivolto a coloro da cui ritengo di essere stato danneggiato dovrebbero darmi i domiciliari quantomeno. Ma fino a quando il pensiero rimane relegato nella nostra mente o impresso su una pellicola cinematografica (pellicola?) va tutto bene. Contesto soltanto l’idea cinematografica che “tutto quel nugolo di disperazione e ferite lacerate…possano avere un quando, un come e un perché…Un cazzo di motivo di essere lì”. Magari fosse così semplice. Cioè a volte forse è possibile risalire alla causa dei nostri mali. Più spesso è un tantino più complessa la faccenda. Più spesso in psicologia non può esistere una “causalità lineare”. E forse è un bene che sia così perché altrimenti la tentazione di giustificare il buon joker per la sua efferatezza sarebbe davvero troppo forte. Confesso che il mio modello di vendetta buono per tutte le stagioni rimane il “Conte di Montecristo” (c’è una versione cinematografica con protagonista Gerard Depardieu imperdibile secondo me). Mi piace quel suo modo di usare la vendetta come mezzo per riscattare non solo le ingiustizie personali subite, ma anche per ripulire il contesto, oggi diremmo il sistema, che ha generato l’ingiustizia. Anche se poi questa pretesa si rivelerà fallace una pura velleità. Se pensiamo poi che le sue azioni provocheranno danni anche agli innocenti e indipendentemente dal suo volere finanche, ci rendiamo conto che un modello di vendetta perfetto non esiste. Ma il pistolotto moralistico temo non avrebbe scoraggiato il clown disperato. Se poi pensiamo al più illustre precedente di Amleto che col furore della sua vendetta provocò una carneficina non ne usciamo raga. È anche vero che Amleto era anche un aspirante suicida a ben vedere. C’è forse in tutti i vendicatori il desiderio inconscio di finire ammazzati? Morti sì ma felici alla fine per aver eliminato preventivamente lo stronzo di turno, si potrebbe dire. Perché l’incubo del dolore questo fa tante volte: ti trasforma in un freddo calcolatore, un “Terminator” spietato capace soltanto di cogliere il peggio della vita. – Sezionar cadaveri e respirarne i miasmi – questo diventa il destino degli oppressi tante volte. Cioè il non riuscire a chiudere i conti col passato. È questa la vera iattura. E non hai nemmeno la possibilità di tirarti fuori dalle macerie di cui il passato ti ha sommerso. A te triste joker nemmeno la nobiltà del perdono ti è stata concessa come accaduto a Edmond Dantès. Tu hai dovuto sprofondare nel tuo dolore. E senza possibilità di scegliere altre soluzioni? Quella di Joker sembra avere tutti i contorni di una tragedia! E allora, che tipo di conclusione estetica, morale e logica possiamo trarre? Forse è soltanto che tutti i personaggi sono arrivati ad un punto in cui sono “destinati” a morire e dunque muoiono. “Destinati” come coloro che sono precipitati in un vortice di situazioni che si sono spinte ad uno stadio tale che peggio di così non si potevano ragionevolmente mettere. E chi lo decide che siamo ad un punto di non ritorno? Qui per il povero Joker di sicuro c’è soltanto – l’eterno ritorno del sempre uguale -, mi pare. Sarebbe stato il finale della perfetta tragedia se anche joker alla fine fosse morto. Ma no! Aspettate! Quella è un’altra storia. Quella è la storia del “senso di colpa” di Amleto. Questa invece è la stagione dove nemmeno l’ombra del senso di vergogna ci balena in fronte.