Commento all’intervista di James Hillman
Non posso pretendere di commentare in modo approfondito questo articolo, frutto di una intervista di Hillman stesso – importante quanto atipico seguace di Jung, deceduto da dieci anni – con la studiosa di cultura greca e bizantina Silvia Ronchey, intervista già autorevolmente commentata da Vittorio Lingiardi e Umberto Galimberti; ma mi piace condividere alcune riflessioni che mi ha sollecitato.
Per Freud, “dove c’è l’Es dovrà esserci l’Io”: la nostra razionale consapevolezza dovrà colonizzare quell’area alquanto selvaggia che è l’Es, anche a costo di pagare ciò con il “disagio della civiltà”. Nella sua elaborazione estrema del pensiero junghiano, Hillman si allontana da quella concezione: per lui le aree più profonde della nostra mente sono aree di valori essenziali, di verità rappresentate da immagini in noi profondamente radicate da sempre, espressione del nostro vero essere, di cui le attività immaginative esteriori e le loro rappresentazioni iconiche non sono che un riflesso alquanto pallido. E’ una impostazione che si richiama alla visione platonica, d’altronde esplicitamente richiamata da Hillman anche in questa intervista.
Le immagini sono per lui un concetto chiave: componenti essenziali di quella che egli non teme di chiamare “anima”, vanno a suo avviso salvaguardate da un approccio troppo razionalizzante e di impronta ancora vagamente positivistica, che le snaturerebbe e sterilizzerebbe.
Agiscono a livello non solo individuale, ma collettivo e sociale, con lo strutturarsi di quei miti collettivi che hanno contribuito a ispirare la teoria archetipica junghiana. Essi si dispiegavano nell’antico politeismo, che a differenza del totalizzante monoteismo teneva conto della mutevolezza e complessità dell’esperienza. Gli antichi dei, sostiene Hillman, sopravvivono: Hermes, patrono della comunicazione, è più che mai vivo nel moltiplicarsi dei media.
Le immagini tuttavia non sono innocue: se si impadroniscono della persona si giunge alla alienazione, alla psicopatologia. Ciò lo si scongiura solo comprendendole integralmente.
E’ un pensiero al confine dell’area psicanalitica, anche perché amplia il concetto di analisi,che vuole includere non solo un protratto incontro terapeuta – paziente ma un intermittente processo di individuale esplorazione della ”anima”. E’ un approccio che può dirci qualcosa, confermando l’importanza di un rapporto con il paziente – e con noi stessi – non solo verbale e non troppo razionalizzante; quale si concreta, fra l’altro, in quelle attività artistiche che come verifichiamo quotidianamente sono un importante terreno di incontro.
Arte che cura
Non ho letto l’intervista citata di Hilman, tuttavia, mi piaceva condividere alcune riflessioni che mi ha solleticato invece il prof Pisseri col suo commento. Allora, “Arte che cura” scrive intanto il prof Giusto. Sarebbe interessante riflettere su quanto l’arte sia effettivamente “liberatoria” di un “inconscio rimosso” o se sia manifestazione più di un “inconscio collettivo”. Questione retorica? Ok! Allora, forse più semplicemente l’Arte è “bella o brutta” a seconda dalla sua capacità di sbalordire, di strabiliarci in qualche modo, di “ingenerare” nel nostro “(in)conscio” di spettatori una qualche forma di “straniamento”.
Forse invano cercheremo gli “Archetipi” nei deliri di soggetti gravemente psicotici. È invece più probabile che un certo «inconscio», si esprima realmente nella visione del mondo e nelle illusioni altrettanto deliranti di coloro che avanzano certe argomentazioni strampalate, irrazionali o cosmogoniche per negare le evidenze della pandemia e dei suoi effetti. E propongono cause del contagio altrettanto bizzarre e rimedi miracolosi che al confronto quelli della “nonna” emergono come soluzioni rigorosissime e inconfutabili.
E forse le espressioni artistiche di certi pazienti questo ci insegnano, che bisognerebbe tornare non dico a certe “epoche oscure” di beata ignoranza che lasciavano balenare ad esempio l’idea che l’«anima pesasse 21 grammi». Questo no! Ma ad un tempo almeno in cui l’inconscio non aveva bisogno di certi “professionisti dell’anima” per “manifestarsi”. Guardate come gli archetipi junghiani si sono ridotti in certi pseudo test che più che indagare l’inconscio servono a stilare l’oroscopo del divino otelma.
A proposito vorrei offrire questi “21 grammi” di anima ai “trasgressivi-ribelli-” no-vax e ai loro accaniti sostenitori che avranno così un altro “valido” argomento da aggiungere a tutto il loro armamentario farlocco di teorie di stampo biblico-new age. Potrebbero utilizzare l’ottimo spunto del “peso dell’anima” sui social o in qualche manifestazione non autorizzata di piazza e, con il loro solito tono pacato e pacifico, opporlo a quella pletora di – fanatici, decadenti, positivisti, conformisti e pure un poco totalitari – che si affidano ancora “ingenuamente” alla scienza per curare le malattie e le epidemie assortite. Così almeno ci spiegheranno finalmente come farebbe una roba immateriale come l’anima ad avere un peso. Potrei suggerire anche lo slogan per la prossima pandemia: “I vaccini uccidono la tua anima”: “Stateve accuorte”. Ovviamente poco importa che sia vero o falso. Poco importa oltretutto a chi parte da un presupposto che non ha nessuna voglia di sottoporre a prova o di provare a confutare. L’Archetipo illuminista che parla dentro di me mi dice che forse – l’anima ha sì un peso che dipende però dal valore che ciascuno vorrà assegnarle concretamente nella guida della propria esistenza e quotidiana -. Questo solo per dire che accolgo la proposta di un «Archetipo vuoto», nell’accezione di “possibilità preformata”, o di “tendenza innata” a modellare potenzialmente pensieri, comportamenti, visioni del mondo. Quindi un contenitore da riempire diversamente nel corso delle epoche e dalle culture dei diversi popoli. L’archetipo come risultato della – sedimentazione o meglio della evoluzione storica delle “immagini”, si potrebbe dire -. Dunque, gli archetipi sarebbero dei processi definiti culturalmente e non purezze ideologiche, naturali, antropologiche o scientifiche. Quindi, respingiamo qualsiasi ipotesi che proponga l’Archetipo nella forma di “destino” ineluttabile o di tragica fatalità. In sostanza, non si tratta di un monito, una norma morale atavica alla quale sono sottoposto, né di una virtù personale o collettiva da esibire come una medaglia olimpica e da “esportare” a beneficio dei paesi meno “sviluppati” all’occorrenza; ma di un mezzo personale e/o collettivo di espressione (nel bene e nel male), semmai. O così mi piace pensarlo.. Ci siamo ritrovati pertanto una vasta platea, seppure ancora minoranza per fortuna, che ironia della sorte annovera tutti quelli che rifiutano i “feticci della coscienza”. E la scienza come massima espressione e più diretta dell’attività mentale e psicologica umana si ritrova oggi ad essere investita paradossalmente da una parte dello scomodo ruolo “oscurantista” di totem assoluto di questa moderna società della tecnica. Il mondo è davvero sottosopra. Cresceva così in tanti di noi un’attitudine sprezzante e qualunquista. Insieme ad un’inclinazione al sospetto che si univa al contempo furiosamente alla proclamazione di una metafisica ingenua e a un misticismo reazionario rappresentazioni concrete non proprio dell’inconscio, ma di certe “degenerazioni di pensiero incontrollato”, per così dire, di sicuro.
Insomma, eccoli qui i nostri giovani e vecchi furiosi espressioni a loro modo di un “inconscio dadaista” che si scagliano eroicamente contro le “convenzioni” politiche, istituzionali e scientifiche del nostro tempo. Peccato che questi moderni signori e signore della trasgressione fasulla non posseggano nemmeno la parvenza dell’afflato rivoluzionario e antibellico e nemmeno l’umorismo e l’autoironia degli antichi dadaisti dei primi del ‘900.
Comunque se non avete particolari velleità scientifiche e scientiste e nemmeno dadaiste potrebbe essere questa una buona occasione per rivedere “21 grammi” il film di Alejandro G. Iñárritu, al limite.
Non sono tanto sicuro dopotutto che fossero così belli i tempi in cui l’inconscio parlava il suo linguaggio indecifrabile senza bisogno di “levatrici” che ne ufficializzassero il riconoscimento. So però che mi piace quell’inconscio che si esprime da solo tante volte: ad esempio attraverso una fantasia, una leggenda, una favola, un’utopia, un pensiero richiamato da una poesia, un desiderio; o che emerge con lo spavento che ti prende dinnanzi ad un film Horror e che diventa l’allegro pretesto per abbracciarti ancora più forte con chi ami di più. Bello l’intricato mosaico dell’inconscio che riaffiora dal “sottosuolo” di certi romanzi. Oppure che si affaccia dal dipinto di un paziente che non so quanto arrivi a chiarire di sé a se stesso, ma che di sicuro allieta il cammino della sua esistenza e forse anche un po’ della nostra di operatori, qualche volta. Chissà!
Riflessioni acute e molto stimolanti mi pare che lavorare e pensare sulle forme delle aree dei valori essenziali tramite immagini con i loro suoni ,colori ecc proprio per il suo intreccio tra arte e cura è un grande insegnamento di tanti maestri di umanità come appunto Hillman