Gilbert Durand, Mimesis 2022
Questo testo vuole esplorare il mondo delle immagini mentali in stretta connessione con il vissuto sociale; parte dalla constatazione dell’attuale nuovo affermarsi dell’immaginario nel vissuto collettivo (non si può non ricordare Hillman).
Il tema riguarda da vicino, è evidente, anche la nostra professione: del resto, l’immagine che costruiva il sogno e la fantasia era un tempo considerata “la matta di casa”, secondo un motto del cartesiano Malebranche ripreso da Voltaire.
A partire dunque dal razionalismo secentesco e dall’illuminismo la nostra cultura, ricorda Durand, aveva parcheggiato l’immagine in un ambito per definizione inferiore, insieme al suo stretto parente: il mito ( quando non relegata in uno spazio decisamente accessorio, quello della “insignificanza ornamentale”).
“Avevamo da tanto tempo opposto un “metodo” razionale, sperimentale, quindi “serio”, alle immaginazioni erranti e folli del poeta, del mistico, del teologo…” Anche ben prima di Cartesio e di Galileo la stessa Chiesa cristiana, con figure come Guglielmo di Occam e Roger Bacon, si era associata talora a questa visione; benchè, nota l’A., nasca dalla forza dell’immaginario la forza dirompente delle religioni che, più di tante altre avventure mentali, hanno informato di sé intere vastissime collettività,.
La critica al razionalismo deterministico non è cosa nuovissima: basta ricordare come Adorno abbia da tempo demistificato la “dialettica dell’illuminismo”. Questo, nato come liberatorio, tendeva però a instaurare una dittatura della ragione, anche nel motto ingenuamente esplicito: la “dea ragione” Questa dittatura è stata di fatto realizzata nel manicomio, non a caso definito da Pinel un “petit gouvernement absolu”).
Non sono mancate reazioni già nell’800 a questa visione totalizzante: l’A. ricorda la reverie romantica, che peraltro non ha arginato l’affermarsi del positivismo.
Tuttavia perfino questo, apparentemente nemico del mito, ne creava uno nuovo: quello del progresso e felicità a portata di mano. Esso si rifaceva, a distanza di millenni, al mito di Prometeo ma senza la sua tragica conclusione. In interessante collegamento, l’A. ci propone anche il pensiero millenaristico dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore che, in ben altra forma, e un bel po’ di tempo dopo, annunciava il sopravvenire dell’Età della Spirito Santo: prefigurazione del mito del progresso?
In prospettiva più generale l’A. tratta, in una “sociologia del profondo” con dimensioni storico – antropologiche, la connessione fra immagini mentali e vissuto sociale, nonché il persistere plurisecolare pur se in un decorso carsico, di miti fondanti; ciò che ci richiama Jung. E’ importante che in una sociologia dell’immaginario i fenomeni sociali siano colti in modo partecipativo, comprendendo le forze in gioco a livello semantico, emozionale, simbolico.
Questo testo ci mostra dunque come il pensiero contemporaneo più profondo sia attratto dalla galassia dell’immaginario. Un inciso che ci riguarda come professionisti: i temi espressi dalla mente psicotica fanno evidentemente parte di questa galassia, e pertanto è anche questa mutata temperie culturale che ci consente il diverso approccio al disturbo.
Emerge un paradosso:la nostra civiltà, armata del razionalismo matematico che ha scomunicato le immagini in un movimento profondo di demitologizzazione e iconoclastia, ha finalmente prodotto un proliferare di immagini, disponibili per tutti, nella fotografia, nella TV e quant’altro. Si potrebbe obiettare che è arbitrario il passare dal concetto di immagine interna a quello di immagine fotografica, o online, o TV: queste certamente fanno parte del non verbale, ma anche – e a pieno titolo – del mondo esterno, di cui condividono replicabilità e forse obbiettività o almeno condivisibilità. Forse, pur non “obbiettive” poiché non riproducono fedelmente l’oggetto ritratto, tuttavia in altro senso lo sono perché una volta stampate o registrate divengono un oggetto come tanti altri: e possono richiamare altri oggetti esterni oppure immagini interiori, di cui costituiscono una sorta di solidificazione.
Trovo discutibile anche il disprezzo dell’A. per le statistiche, la cui affidabilità è evidentemente funzione della solidità del dato di partenza e della correttezza metodologica: ma con tutti i loro limiti, nessuno ha trovato uno strumento che le possa sostituire nel valutare la efficacia di un intervento o la correlazione fra diversi fattori, come si evidenzia anche nel campo della salute mentale. Siamo divenuti consapevoli di essere necessariamente bifronti: presuntuoso paragonarci a Giano, ma certo il nostro lavoro ha a che fare col passaggio, col cambiamento, con una “porta” fra immaginario e reale: l’imporre la supremazia del reale non potrebbe essere che un gesto violento, come l’esperienza manicomiale ci ha insegnato; ma rinunciare a ogni forma di quantificazione ci porterebbe alla autoreferenzialità.
Significativi aspetti del cambiamento sono: l’affermarsi della psicanalisi con la sua attenzione alle immagini, in particolare oniriche; e la curiosità per le immagini provenienti da altri contesti geografico-culturali, nonché il connesso pullulare di sette esotiche Si riduce la distanza dai pensieri “selvaggi” dei diversi “orienti” (e meridioni, aggiungo), esplorati e teorizzati da Levi Strauss.
Tutto ciò esprime una rinnovata consapevolezza dello spazio dell’immaginario, ma la fruizione inconsapevole o strumentale di esso è cosa di sempre: in politica, non è certo nuovo l’impiego dell’immaginario nella costruzione della figura del capo onnipotente, anche se non più ritenuta divina o semi-divina; nell’ottica attuale siamo “solo” più consapevoli di questi meccanismi ( e più capaci di controllarli?).
Il cambiamento investe anche la letteratura: l’A. cita opere come “Kafka sulla spiaggia” di Murakami, o “Notti delle mille e una notte” di Nagib Mahfuz: “l’uomo viene tratto in inganno dall’illusione, perché la crede una realtà: tuttavia non c’è salvezza per noi finché i nostri piedi poggiano sul terreno”.
Importanti, forse decisivi, fattori di questi cambiamenti sono le nuove prospettive della fisica, che per secoli è stata modello di un razionalismo deterministico su bse sperimentale. Per l’A., la mitologia dei Lumi è stata annientata dalle trasformazioni non euclidee, non cartesiane, non newtoniane della stessa ragione. Spazio e tempo non più inquadrabili nelle geometrie di Euclide e negli orologi di Newton.
Dunque “ai nostri giorni constatiamo come i due percorsi così lungamente separati abbiano tendenza a riavvicinarsi”. Certo, continua ad essere dirompente la forza di scienza e tecnica, ma queste hanno cessato di essere un capitolo a parte: è entrata in crisi la netta contrapposizione fra scienze naturali, “dure” e scienze umane a suo tempo proposta da Wilhelm Dilthey, insieme alla distinzione fra Erklaren e Verstehen, definito come “il ritrovare l’Io nel Tu”.
Infatti, ricorda l’A., già Kant rilevava che perché la ragione funzioni, è necessaria una preliminare proiezione immaginativa, (che potremmo chiamare ipotesi? Tuttavia, lo specifico di una scienza viene dopo, nel momento della verifica). Di fatto, possiamo rilevare il non raro manifestarsi di sofferenza mentale non solo negli artisti, anche in personaggi protagonisti del pensiero razionale, come il campione di scacchi Fischer o il grande fisico Pauli – di cui va ricordato il sodalizio con Jung.
L’A. giunge audacemente a formulare l’ipotesi di una “realtà comune alla soggettività più intima e all’universo materiale. Quest’ultimo non sarebbe dato che dalla sua capacità di informare il soggetto pensante”. Ciò ricorda il vecchio – ma forse non invecchiato – George Berkeley che ci insegnavano a scuola?