Se e come è possibile la costruzione di un percorso che abbia come obiettivo la presa in considerazione e il possibile superamento delle difficoltà che riguardano la psicosi, facendo a meno del ricorso all’Ospedale Psichiatrico.
In genere, siamo abituati a ragionare nei termini di strutture che abbiamo o che non abbiamo che ci consentano di farlo, oppure di operatori che sono in servizio oppure no, che il Servizio Pubblico viene deliberatamente lasciato morire, a poco a poco, per dimostrare che non funziona, etc. etc.
E mi riferisco alla funzione di un Servizio Pubblico efficiente e non che miri a tirare a campare che, a volte, come sappiamo, si può avere l’impressione che non venga svolta dal Servizio Pubblico ma che venga condotta da un Servizio privato-convenzionato, come nel caso delle Comunità Terapeutiche del Gruppo Redancia.
Non solo cura degli effetti indesiderati della psicosi
Dunque, come si fa a trattare la psicosi non soltanto per contenerne gli effetti indesiderati, la cui tenuta sotto controllo, comunque, è necessario perseguire, ma anche per comprenderne il senso? Per arricchire le possibilità evolutive rispetto a quelle involutive generalmente dominanti?
Io credo che, per fare questo, sia necessario porre la questione della preparazione degli operatori oltre che delle strutture e del numero degli operatori. Entrambe le ultime questioni, che è sacrosanto porre, a mio parere, non risolvono il problema.
Io penso che il problema principale sia costituito dalla preparazione degli operatori e che questo non sia affatto un problema facile da affrontare.
Io penso che né in ambito psichiatrico né in ambito psicoterapeutico ci si è posti la questione che gli psicoanalisti, a torto o a ragione, avevano individuato fin dall’inizio: che per un operatore fosse necessario aprire una riflessione sulla storia del proprio sviluppo, per prepararsi a capire quelle degli altri, in particolare dei pazienti più gravi.
L’interazione col paziente
Ovviamente si può non essere d’accordo: gli psichiatri, da medici, si sono sempre tenuti lontani da questa possibilità, perché hanno seguitato a pensare alla interazione con il paziente psichiatrico in maniera non molto dissimile da quella con un qualsiasi altro paziente, non come ad uno scambio ma come un rapporto a senso unico: dal medico al paziente e gli altri psicoterapeuti, tendenzialmente, si sono convinti che le loro “idee nuove” permettessero loro di poter fare a meno di accettare che, per crescere, fosse necessario mettersi nella scomoda posizione di paziente.
Tutto ciò, mi riferisco a questi assetti, può reggere quando ci si confronta con i pazienti meno gravi.
Ma quando lo si prova ad utilizzare con quelli più gravi? A mio parere le cose non funzionano.
A quel punto, in genere, si chiede una bella supervisione ad uno psicoanalista. Che, in realtà, non è che ne sappia molto più di loro ma che, da sempre, è abituato a porsi in maniera umile, proprio perché guidato dall’esperienza di “paziente”, che ha vissuto sulla sua pelle le contraddizioni di chi chiede aiuto e si augurerebbe di arrivare a stare, per lo meno, un po’ meno male.
È possibile diventare in grado di confrontarsi con la sofferenza?
La questione che pongono gli psicoanalisti agli psichiatri e a tutti gli altri psicoterapeuti ad orientamento non analitico è la seguente: è possibile diventare in grado di confrontarsi con la sofferenza più grave se non si è sperimentato in precedenza, sulla propria pelle, i termini, sicuramente attenuati ma non così diversi, delle situazioni, difficili perché dilemmatiche, nella quali ognuno di noi può ritrovarsi a vivere?
A cui ne segue un’altra: come si fa a rendere praticabile una via difficilissima da percorrere, quella di prepararsi in questo lavoro passando attraverso l’esperienza propedeutica di capire che cosa vuol dire essere paziente, l’oggetto dell’analisi e, progressivamente, sperimentare che da oggetto ci si può trasformare in soggetto della propria trasformazione?
Io penso che, da un lato l’evoluzione della Psicoanalisi, dall’altro la riflessione che ha portato a profondi cambiamenti nel modo di insegnare ad avvicinare gli operatori alla psicoanalisi, possano esserci di aiuto.
La psicoanalisi contemporanea
Per quanto riguarda il primo punto, la psicoanalisi contemporanea o, almeno, una parte di essa, reputa:
- che la scissione e la conseguente dissociazione (la “disaggregazione” degli Autori francesi) sia il meccanismo di difesa più usato a scopo difensivo, che ci consente di disfarci di parti di noi che, se rimanessero raggiungibili, recuperabili, risulterebbero troppo dolorose da tollerare; per questo motivo, esse scompaiono dalla possibilità di essere convocate e utilizzate abitualmente, altrimenti la persona non riesce a seguitare a vivere, eppure sopravvivono in noi e possono essere fatte nuovamente vivere attraverso l’uso di meccanismi complessi (per es. il Gruppo di Psicoanalisi Multifamiliare, la psicoterapia psicoanalitica del nucleo familiare, la psicoterapia psicoanalitica individuale), per risolvere le situazioni dilemmatiche che sono alla base delle psicosi;
- i traumi e/o i lutti non elaborati da parte dei figli, dei genitori e di chi li ha preceduti, appartenenti alle generazioni precedenti, a cominciare dai nonni, sono stati reali e non soltanto immaginari;
- la realtà nella quale viviamo è intersoggettiva e contemporaneamente intrapsichica e questi due ambiti sono perennemente in connessione tra loro e risultano capaci di interferire reciprocamente sui modi in cui funzionano i soggetti di entrambi questi mondi relazionali, l’individuo e gli altri per quello che attiene il mondo intersoggettivo e le diverse parti di cui è composto l’individuo, per quello che attiene la sfera intrapsichica;
Psicosi e istituzioni
Per quel che riguarda il secondo: dopo più di dieci anni di riflessioni, il gruppo inter-centri romano, denominato: ”Psicosi e istituzioni” è giunto alla conclusione che il modo per far avvicinare gli operatori alla psicoanalisi consista prioritariamente di due metodi:
- il Seminario Analitico di Gruppo, in cui dopo che un collega giovane ha presentato un caso, si invitano tutti i presenti, più o meno prossimi all’uso del patrimonio psicoanalitico, ad esprimere quello che viene loro in mente, cercando di stimolarli al ricorso alle “associazioni libere”;
- il Gruppo di Psicoanalisi Multifamiliare, in cui oltre agli operatori di un Servizio, almeno di quelli in servizio quel giorno, vengono invitati pazienti e familiari delle famiglie che sono seguite dal Servizio e tutti danno lugo ad una riunione volta a dare voce a ciascuno ed a riconoscere ad ognuno il diritto di esprimere quello che ritiene utile dire a proposito dell’evoluzione della storia delle relazioni familiari di cui fa parte.
Queste due pratiche vanno nella stessa direzione: l’obiettivo è di far toccare con mano che le capacità di avere a che fare con e di riuscire ad ottenere che i membri di quelle famiglie riescano a raggiungere la capacità di parlarsi e di spiegarsi è legata al sentire, da parte degli operatori, di essere importanti nella relazione terapeutica e che, per raggiungere i propri obiettivi, capire meglio come si è fatti diviene la necessità di base da cui, in seguito, possono derivare tutte le altre.
L’importanza di farsi domande
Dalla partecipazione a questi due modi di lavorare, infatti, può scaturire l’esigenza di farsi delle domande: come è che proprio quel paziente, in quel momento della sua vita, ha suscitato un interesse in quella persona che andava al di là di quello per un caso clinico e che, viceversa, è come se lo avesse messo di fronte ad una problematica da cui era, fino ad allora fuggito ma dalla quale, a questo punto, sarebbe opportuno non proseguire a fuggire, ma cominciare ad interrogarsi. Quando facevo la Scuola di Specializzazione, andai a lezione in un altro Istituto. Il titolare di quell’Istituto, apparentemente, non fece nulla di diverso da quello degli altri docenti.
Eppure io uscii da quella lezione con la consapevolezza di aver toccato qualcosa a cui non avrei più potuto sottrarmi. Alcuni anni dopo, quando mi decisi ad intraprendere l’analisi personale che, forse, se tutto fosse andato bene, in primo luogo da paziente e, in seguito, da allievo dell’Istituto di Psicoanalisi, mi avrebbe portato ad aspirare a divenire psicoanalista, mi ricordai dell’accaduto e mi misi a cercare quella persona, con cui, in seguito… feci esperienza della Psicoanalisi.