Donald W. Winnicott, figura di primo piano nel campo della psicoanalisi e noto soprattutto per la sua estesa esperienza clinica con bambini e adolescenti, nel suo libro “Il bambino deprivato – le origini della tendenza antisociale”, a proposito del lavoro con i giovani sfollati da Londra e allontanati dalle loro famiglie di origine durante la seconda guerra mondiale, che si facevano protagonisti di atti delinquenziali scrive:
“Non ci furono miracoli, ma quando si riusciva ad affrontare le crisi, a viverle anziché a reagire ad esse, allora la tensione si allentava e rinascevano fiducia e speranza”.
Sempre più spesso, quando mi trovo a leggere notizie o seguire il modo in cui queste vengono trattate, penso alle parole di Winnicott e alla responsabilità di chi, nel nostro paese, lavora con le parole, le notizie e si rivolge alle persone. Troppe reazioni. E poche riflessioni. Pochi approfondimenti.
La notizia del Papa e della “frociaggine” tra i seminaristi, per come viene trattata, non fa che confermarmi una tendenza alla strumentalizzazione, un reagire che rischia di far perdere un’occasione importante: informare, diffondere consapevolezze e cercare di promuovere ambienti tolleranti e che favoriscano atteggiamenti integrativi e mai chiusi o conservatori.
Pur riconoscendo la scelta assolutamente infelice e sbagliata del termine frociaggine, per cui il Papa si è scusato e sulla quale probabilmente rifletterà e farà riflettere, perché le scelte linguistiche portano e veicolano pregiudizi, credo che serva andare oltre la reazione e promuovere una riflessione.
La notizia
Nell’incontro a porte chiuse con gli oltre 200 vescovi italiani, che lunedì scorso, 20 maggio, ha aperto nell’Aula del Sinodo l’assemblea generale della CEI, il Pontefice si è espresso in richiami verso una maggiore selezione negli accessi ai seminari, in particolare riguardo a seminaristi omosessuali, da lì l’uscita che ha fatto discutere.
Una maggiore selezione.
Come si può non essere d’accordo? Quando in gioco c’è l’obbligo al celibato che per qualcuno può significare legittimare una posizione repressiva di una sessualità vissuta come conflittuale, o peggio malata, da giovani uomini omosessuali, ma anche eterosessuali?
La mia esperienza
Negli ultimi anni, nella mia pratica clinica, ho avuto l’occasione di lavorare in rete con sacerdoti per questa e altre ragioni. Di mezzo, sempre il desiderio. Che spingeva, forte.
Tra gli uomini di fede, ho incontrato persone aperte, a volte più disponibili di colleghi che operano nel campo della salute mentale. Con meno pregiudizi. Ma anche persone chiuse, che volevano nascondere. Tenere segreti. Alimentando dolore.
Ho saputo di uomini che hanno scelto il sacerdozio come fuga da profondi sentimenti di inadeguatezza e difficoltà relazionali. Anche donne. Hanno sofferto tutta la vita.
Sarebbe importante favorire un dialogo tra giovani e adulti, favorire un ambiente in cui i giovani sentano di poter vivere liberamente la loro sessualità, anche omosessuale, bisessuale o transessuale. Diffondere una cultura che promuova la sessualità e il rapporto con il piacere come qualcosa da integrare, nella vita di ciascuno. Invece se ne parla o troppo poco, o troppo e lo si fa con volgarità, superficialità.
A me convince la proposta di Silvia Rivolta di problematizzare, di allargare il campo delle domande e, prima ancora, di ampliare il campo di osservazione dei fenomeni. Senza partire, lancia in resta, per una crociata, in questo caso, per il riconoscimento di diritti. Mi pare che il punto non sia che il Papa e la Chiesa vogliono il mantenimento della tradizione, punto e basta. A me sembra più complessa la vicenda. Papa Bergoglio, detto Francesco ha idee molto interessanti in molti campi: la non accettazione della guerra, la necessità di affrontare il disastro climatico, etc. etc.
Io penso che dovremmo avere pazienza con un’istituzione come la Chiesa, che si porta dietro problematiche millenarie.
Ringrazio il dr. Andrea Narracci per aver colto ciò che mi proponevo con il mio scritto. E lo ringrazio anche per il richiamo alla pazienza che, intuisco, dalle sue parole, non riferirsi a un atteggiamento passivo, rassegnato e accettante aprioristicamente, ma a una posizione che promuova riflessioni e domande, che allarghi il campo di osservazione dei fenomeni anche grazie alla nostra specificità professionale, che tenga conto della complessità e che eventualmente promuova possibilità diverse, più aperte. Concedendo il tempo che ogni istituzione, come la Chiesa, necessita anche solo per affacciarsi a proposte di cambiamento.