Vaso di Pandora

Il leone fa solo un salto: La frase di Freud per capire me stesso

Ultimamente mi sono ritrovato a riflettere su due frasi di autori diversi che ho letto in tempi lontani l’uno dall’altro ma che il mio inconscio tendeva continuamente a collegare. Poi un giorno stavo mettendo a posto i lavori del gruppo di psicoterapia che tengo in comunità psichiatrica e mi è caduto l’occhio su un disegno di un ragazzo. Questo ragazzo era sempre molto ritirato e apparentemente calmo, impenetrabile nella sua corazza psicotica, poi un giorno scappò dalla comunità. Nessuno se l’aspettava. Non ci sono state avvisaglie di nessun tipo. L’imprevedibilità del gesto rispetto alla sua totale linearità degli anni precedenti non ci faceva presagire nulla di buono. Infatti pochi giorni dopo lo ritrovarono in un fosso, senza vita.  

Il disegno di Wilson

In questo suo disegno, che avevo dimenticato, di cui non mi ricordo la consegna, lui aveva disegnato un pallone con la mano insanguinata sopra e l’aveva denominato Wilson tratto dal film “Cast Away”. Gettato via è la traduzione.

E allora fantasticando me lo sono immaginato su un isola da solo, con la paura di impazzire, senza nessuno con cui parlare. E nel tentativo di salvarsi della solitudine si crea un amico immaginario, che nel tempo non rimane immaginario ma diventa una parte di sé. Ad un certo punto la pressione diventa insopportabile e lui vuole tornare a casa e scappa dalla comunità. Ma Itaca è lontana, la strada pericolosa e tutto è molto confuso, in mezzo all’oceano ci si può perdere ancora di più, perdendo tutti i punti di riferimento. Forse la salvezza è da un’altra parte, avrà pensato. Nei gruppi quando chiedevo quali fossero state esperienze positive della loro vita, lui riportava un ricordo d’infanzia, una gita al mare con i genitori, in qualche spiaggia a strapiombo sulla scogliera. Una giornata di sole e mare. Un’isola felice.  

E allora ecco il riaffiorare del disegno, sbloccò in me un mio ricordo.  

Freud scriveva “Il leone fa solo un salto”

Il ricordo di una seduta di una serie innumerevoli di sedute in cui stavo cercando di elaborare uno stato di acuta sofferenza. Ad un certo punto in questa specifica seduta dissi: “a me sembra solo di arrancare”. E lui mi rispose: “tutti arranchiamo”. Non so esattamente perché questo passaggio mi sia rimasto impresso. Quello che so e che mi colpí è stato il nesso successivo, mi tornava in mente incessantemente un frase di Freud che avevo letto da poco, in cui scriveva: “il leone fa solo un salto”. Per lui la frase sottolineava la totale dissoluzione che prenderebbe il setting se l’analista si adeguasse alle richieste del paziente. Anche sola una.  

Allora incominciai a mettere insieme i puntini. Ma l’ultimo pezzo del mio puzzle associativo l’ho trovato solo di recente. Stavo leggendo un libro di Winnicott e lui, in “Gioco e Realtà”, scriveva: 

“Quando nell’esperienza individuale, non rimane nemmeno uno spazio per riposare e, di conseguenza, dallo stato narcisistico primario non riesce a svilupparsi un’individualità, allora l’“individuo” si sviluppa come un’estensione dell’involucro piuttosto che del nucleo, come un’estensione dell’ambiente che preme. Ciò che rimane del nucleo si nasconde, e non lo si ritrova che con difficoltà, perfino nell’analisi più spinta. L’individuo allora esiste per il fatto di non essere trovato”.  

L’elaborazione del mio lutto

E allora capii. Come sempre bisogna partire da se stessi per capire l’altro. Nel mio inconscio il lutto della morte del paziente aveva attivato una serie di recrimine persecutorie che avevo su di me. Sul fatto di non aver colto segnali (avevo rimosso il disegno), di non essere riuscito ad entrare in contatto con lui. Ma c’era anche una rabbia inconscia contro di lui per avere rotto il contratto terapeutico (il leone fa solo un salto) e basta una volta sola.

Ma nella mia rêverie nella tranche di analisi c’era anche il mio desiderio inconscio di rompere il mio di contratto terapeutico con il mio di analista da cui non mi sentivo capito (cosa che poi feci). Ma in fondo è l’ultimo pezzo che mi mancava. È capire quanto la mia lunga analisi (per certi versi fallimentare) sia stato un lungo ambivalente tentativo di non essere trovato. E va bene così. Alcuni non vanno trovati. Vanno lasciati andare. Perché quello che si trova è peggio di quello che ci si dimentica.  

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