Dopo un lungo periodo in cui il gruppo multifamiliare si svolgeva online a causa del covid, circa un anno fa abbiamo finalmente ripreso il gruppo in presenza. Questo passaggio ha rappresentato una grande svolta, facendo emergere tutto il valore terapeutico del gruppo multifamiliare. A partire da quel momento abbiamo potuto osservare la nascita e il consolidarsi del gruppo, dove ogni suo membro è, in potenza, “agente di cambiamento terapeutico” (Canevaro & Bonifazi, 2011).
I primi incontri erano caratterizzati da una grossa dose di imbarazzo e anche da una leggera diffidenza tra tutti i partecipanti che, inizialmente, sembravano quasi costretti a stare in quella situazione mostrando diverse titubanze sull’utilità di quegli incontri. Tale considerazione vale sia per i genitori che per i ragazzi. La diffidenza da parte dei genitori era rivolta non solo agli altri partecipanti ma anche e soprattutto nei confronti dell’equipe curante, questa diffidenza potrebbe essere spiegata dalla sfiducia che avevano nelle cure e nell’assenza della speranza di poter realmente cambiare le cose, a maggior ragione per famiglie che avevano i figli inseriti nel circuito comunitario già da diversi anni.
Nei primi momenti un ruolo di primo piano è stato svolto dalle famiglie e dai ragazzi che erano in struttura da più tempo. Il gruppo ha iniziato a prendere vita e ad animarsi nel momento in cui i ragazzi e le famiglie hanno cominciato a raccontare le loro storie, con una carica emotiva sempre maggiore man mano che il gruppo diventava più coeso. Infatti, abbiamo assistito ad un’evoluzione del clima emotivo, mentre inizialmente gli argomenti trattati avevano uno scarso contenuto emotivo, man mano il gruppo è diventato il luogo privilegiato per esprimere le proprie emozioni e i propri vissuti.
All’inizio vi era una grossa intolleranza alle emozioni, sia da parte dei genitori che, in particolare, da parte dei figli. Abbiamo assistito a momenti in cui i ragazzi, dopo aver espresso contenuti emotivi molto forti, uscivano dalla stanza non riuscendo a tollerare eventuali risposte, a livello metaforico sembrava quasi che lanciassero una bomba per poi fuggire subito dopo cercando di evitare a tutti i costi le conseguenze di quell’apertura, che in quel momento dovevano sembrare loro assolutamente pericolose e ingestibili.
Tuttavia, per non confermare quella loro paura, al loro rientro riprendevamo l’argomento mediando e riformulando le risposte così da rendere il gruppo un luogo sicuro, dove poter esprimere liberamente i propri pensieri e le proprie emozioni senza il pericolo di incorrere in conseguenze negative, anzi avendo finalmente la possibilità di essere capiti, validati e riconosciuti per i propri vissuti. Nel momento in cui i ragazzi riuscivano a sperimentare quella sicurezza riuscivano poi a tollerare maggiormente le emozioni e a stare di più nello “spazio emozionale” (Canevaro & Bonifazi, 2011) venutosi a creare all’interno del gruppo. Gran parte delle multifamiliari, infatti, è stata dominata dalle emozioni che rappresentavano il focus principale attorno cui si sviluppavano le varie riflessioni.
Nel giro di poco tempo abbiamo assistito ad un primo cambiamento terapeutico, esteso poi anche ad altri contesti, nella comunicazione di tutti i partecipanti, i quali riuscivano finalmente ad esprimere in maniera assertiva le proprie emozioni, andando oltre il singolo episodio che emergeva di volta in volta. Il clima emotivo che si è venuto a creare all’interno del gruppo ha permesso l’emergere spontaneo di tematiche molto importanti, quali le mancanze affettive, il bisogno di riconoscimento, la conflittualità, le aspettative genitoriali, il suicidio, l’autolesionismo, tematiche che hanno permesso di rompere tabù, svelare segreti, e attivare riflessioni che hanno rappresentato un arricchimento per ciascun partecipante. Inoltre, il fatto di non avere un tema prestabilito, bensì che fossero proprio i partecipanti a scegliere di cosa parlare ha permesso loro di avere un ruolo attivo nel processo terapeutico, migliorando il loro empowerment.
Il racconto da parte di alcune famiglie della propria storia di cambiamento e dei progressi fatti, ha iniziato a cambiare il punto di vista anche degli altri partecipanti al gruppo, facendo insinuare in loro un barlume di speranza. A quella speranza si sono avvicinati con tanti dubbi, ma sono stati proprio quei dubbi a stimolare la discussione gruppale e a permettere una sorta di identificazione con le famiglie più “esperte” che ha innescato dei processi di cambiamento in ciascun partecipante.
Durante una multifamiliare in cui regnava ancora un clima di diffidenza e tensione, è emerso l’astio di molti genitori nei confronti dei servizi e la mancanza di fiducia nel percorso comunitario. In questo caso il padre di una nostra paziente in carico da più tempo, G., era intervenuto raccontando la sua esperienza comunitaria, condividendo col gruppo le paure e la diffidenza iniziali, come col tempo avesse imparato a fidarsi dell’equipe, a condividere gli obiettivi terapeutici proposti e come questo cambio di prospettiva avesse favorito dei grossi cambiamenti sia nella figlia che nelle dinamiche familiari.
Questo racconto aveva facilitato il processo di rispecchiamento e di identificazione da parte degli altri genitori, che da una parte si erano sentiti compresi e validati nei loro vissuti di paura, e dall’altra avevano potuto vedere nell’altro qualcosa che faticavano anche solo ad immaginare per sé stessi. A partire da questo aneddoto abbiamo potuto assistere ad un progressivo cambiamento di un altro padre di una paziente, M., che inizialmente si mostrava totalmente ostile nei confronti dell’equipe minacciando continuamente di denunciarci e di portare via la figlia. Grazie ai gruppi multifamiliari e al lavoro di contenimento emotivo svolto in parallelo dalla mini-equipe, questo padre ha mostrato una maggiore apertura nei confronti del lavoro terapeutico comunitario, mostrandosi molto più collaborativo. Tutto ciò sottolinea l’importanza del rispecchiamento tra i vari membri del gruppo in quanto può diminuire i vissuti di solitudine sia dei pazienti che dei loro parenti, riducendo la vergogna e lo stigma.
Oltre al rispecchiamento, altri due meccanismi fondamentali che si innescano all’interno della discussione del gruppo sono l’identificazione e la proiezione. Grazie a questi meccanismi, infatti, spesso assistiamo a genitori e figli che riescono ad esprimere i loro vissuti dicendo quello che avrebbero voluto dire al proprio figlio o al proprio genitore, ad altri figli e ad altri genitori. Inoltre, in questo modo diventa possibile parlare anche con l’assenza, con la possibilità di elaborare una mancanza affettiva attraverso la condivisione del proprio vissuto all’interno di un gruppo pronto ad ascoltare, rispettare e validare i contenuti emotivi emersi. In una multifamiliare una ragazza, A., stimolata da una discussione emersa all’interno del gruppo che faceva riferimento ad una conflittualità madre-figlia, coglie l’occasione per parlare anche della sua storia esprimendo il suo vissuto nei confronti della madre che l’aveva abbandonata, dicendo all’interno del gruppo le cose che avrebbe voluto dire a suo tempo a sua madre.
In un altro caso ancora, la madre di un ragazzo, V., che non partecipava mai alle multifamiliari si è trovata a confrontarsi con un’immagine del figlio diversa da quella che aveva lei, grazie all’intervento degli altri ragazzi della comunità che si sono fatti rappresentanti della voce del figlio rimandandole un nuovo punto di vista per meglio comprendere ed empatizzare con il disagio del figlio. In tutti questi casi si innesca una comunicazione indiretta che, tuttavia, facilita l’espressione di contenuti emotivi molto forti che, se espressi in maniera diretta, laddove possibile, sarebbero maggiormente carichi di tensione e conflittualità. Infatti, parlare di certe tematiche è più facile nel gruppo multifamiliare piuttosto che col singolo nucleo familiare in quanto il gruppo rappresenta un contenitore emotivo molto più resistente proprio grazie all’instaurarsi di transfert multipli che permettono di diluire le forti tensioni presenti all’interno della famiglia. Ciò permette di abbattere le resistenze dei familiari che, in una situazione di gruppo, supportati dagli altri genitori, possono riuscire a sperimentare l’assenza di giudizio da parte degli altri partecipanti, equipe compresa, e riuscire a mettersi maggiormente in discussione evitando l’innescarsi di meccanismi di difesa che in altre situazioni, come nei colloqui familiari, potrebbero ostacolare il processo di cambiamento. Il clima di fiducia che si instaura all’interno del gruppo, man mano che aumenta la sua coesione, permette una riflessione sulle modalità comunicative e relazionali di ciascun membro del gruppo, favorendo una messa in discussione di tali schemi relazionali che può innescare una riconsiderazione del problema da un nuovo punto di vista. Inoltre, all’interno del gruppo è possibile anche una messa in discussione dei miti e dei segreti familiari che in molti casi possono aver avuto una grossa influenza sull’instaurarsi del disturbo o sul suo mantenimento.
In questo modo si può assumere una nuova prospettiva sulla patologia, ovvero il problema non è il paziente in sé o il suo disturbo, bensì ciò che ha determinato la situazione di disagio che ha poi permesso il consolidarsi del disturbo. In tale ottica diviene anche più facile abbandonare un ruolo passivo e rassegnato di fronte alla malattia mentale e iniziare a lavorare per una “virtualità sana” (Badaracco & Narracci, 2010), divenendo agenti di cambiamento e intervenendo soprattutto sulle modalità relazionali, che da sempre hanno un ruolo di primo piano nell’instaurarsi del disagio psichico.
Quello che spesso abbiamo notato all’interno del gruppo è una mancanza di fiducia dei genitori nei confronti dei figli, soprattutto nei casi in cui gli aspetti comportamentali del figlio avevano impattato in maniera molto forte sulla quotidianità del nucleo familiare, sia prima che dopo l’ingresso in comunità. Questo aspetto dei genitori è sicuramente motivato da vari fattori, per cui, come hanno detto alcuni genitori in un gruppo, “c’è bisogno di tempo e di dimostrazioni” da parte del figlio per ricostruire quella fiducia. Tuttavia, in questi casi il rischio più grosso è che quella mancanza di fiducia si trasformi invece in una mancanza di fiducia nel cambiamento che, seppure presente solo nei genitori, ad ogni modo potrebbe ostacolare il processo terapeutico del figlio. Infatti, all’interno di un sistema familiare è essenziale che tutte le componenti facciano dei passi per uscire dalla situazione di stallo ed evitare di cristallizzare una situazione patogena e patologica. Diviene quindi fondamentale il concetto di virtualità sana e cioè il credere che “in ciascun paziente e in ciascun legame, anche in quelli più danneggiati e apparentemente irreparabili, permane un nucleo di materiale psichico, la ‘virtualità sana’ pronta a poter essere espressa, solo se vista e riconosciuta.” (Bastianini in Badaracco & Narracci, 2011). Questo concetto dovrebbe essere abbracciato in primis dall’equipe curante, oltre che dai pazienti e dai genitori, in quanto facilita la possibilità di entrare in contatto con le parti “sane” del paziente, con le risorse sia interne che familiari, mettendole al servizio del cambiamento terapeutico.
Durante una multifamiliare era emersa la mancanza di fiducia di una madre nei confronti di sua figlia, N., che nonostante i vari progressi fatti dalla stessa non riusciva minimamente a vederli, rimanendo bloccata sulla sua posizione. Durante quell’incontro anche la ragazza, con una carica emotiva molto forte che esprimeva tutta la sua frustrazione e la sua rabbia per l’atteggiamento della madre, aveva cercato di mettere in luce i cambiamenti e i progressi fatti, cercando di presentare, in tutti i modi, la “nuova sé” alla madre. Tuttavia, rimanevano queste due posizioni totalmente opposte e apparentemente inconciliabili. Solo grazie all’intervento dell’intero gruppo, che ha compreso e validato entrambe le parti, riconoscendo e rinforzando anche i progressi della ragazza, la madre ha iniziato, anche se lentamente e con molta fatica, ad ammorbidire la sua posizione. Il riconoscimento e la validazione sono stati fondamentali per N. che è riuscita a consolidare i suoi progressi evitando di mettere in atto dei meccanismi di autosabotaggio.
Inoltre, spesso abbiamo assistito ad una deresponsabilizzazione dei genitori nei confronti del disagio del figlio che portava ad una totale delega. Questo atteggiamento rappresenta un grosso rischio soprattutto perché potrebbe innescare una cronicizzazione del disturbo che, soprattutto nel caso di pazienti adolescenti come i nostri, rappresenterebbe una sorta di sconfitta dal punto di vista terapeutico. Per scongiurare questo pericolo è fondamentale stravolgere la visione classica della malattia mentale come di “una malattia incurabile di cui al massimo si poteva riuscire a limitare i danni irreversibili che era in grado di provocare in chi ne soffriva e a contenere la sofferenza di chi aveva la sventura di doversi occupare dei malati” avviando un processo di riconcettualizzazione della patologia mentale (Badaracco & Narracci, 2010) che può ridare agency a tutti i soggetti coinvolti, con ruoli differenti, nella genesi del disagio psichico rendendoli agenti attivi del processo di cambiamento terapeutico. Per fare ciò è fondamentale provare a capire, tutti insieme, l’origine del problema, ridisegnando dalle fondamenta il contesto in cui ci si trova ad operare (Badaracco & Narracci, 2010). In tale ottica può essere utile pensare al disturbo come “un inceppamento sia del processo di sviluppo del singolo individuo che della crescita complessiva del suo nucleo familiare” (Badaracco & Narracci, 2010).
Questa nuova prospettiva permette di abbandonare il confine, spesso ben radicato nella visione comune e alla base dello stigma, tra chi è “sano” e chi è “malato”, in quanto tutti i soggetti coinvolti sono sullo stesso piano, godono della stessa considerazione all’interno del gruppo e possono contribuire allo stesso modo a sviluppare una riflessione su quello che succedeva prima a livello relazionale, accrescendo la comprensione del disagio per poter così venirne a capo. Inoltre, va sottolineato che comprendere quello che succedeva prima è ben lontano dal cercare un colpevole, bensì mira a restituire il “potere di cambiare le cose” a chi si è passivamente rassegnato alla situazione attuale. Il clima di fiducia che si instaura all’interno del gruppo è fondamentale per affrontare queste tematiche senza che nessuno dei partecipanti si senta sotto accusa o giudicato, per tale motivo un intervento sulla singola famiglia non avrebbe lo stesso effetto.
Il rispetto e la parità che si vengono a creare all’interno del gruppo sono fondamentali per “ridare voce a chi l’aveva perduta” (Badaracco & Narracci, 2010), in primis il paziente che, quando si sente rispettato e alla pari con gli altri, soprattutto coi suoi genitori, può esprimere finalmente i suoi vissuti e iniziare così ad elaborarli. La parità permette a tutti di sentirsi in diritto di raccontare la propria storia dal proprio punto di vista, anche ai pazienti che spesso, nella storia della psichiatria, sono stati esclusi da questa possibilità. All’interno del gruppo tutte le storie hanno lo stesso valore e vengono prese in considerazione allo stesso modo, come portatrici di una verità soggettiva che a volte può anche divergere da quella degli altri soggetti coinvolti nella stessa storia. “Con una sola esistenza si potrebbero costruire cento racconti e non mentire mai” (Cyrulnik, 2009).
A questo proposito è indicativa l’esperienza di una ragazza, B., che nel momento in cui ha iniziato a sperimentare il supporto all’interno del gruppo in merito alla conflittualità con la madre, che emergeva con forza in quasi tutti gli incontri, ha potuto poi iniziare ad elaborare i suoi vissuti di inadeguatezza e a non sentirsi più “sbagliata” per i suoi stati emotivi interni. L’estrema rigidità della madre e la sua visione persecutoria del mondo e degli altri avevano influenzato i vissuti della ragazza che aveva poi esordito in una crisi psicotica che aveva accresciuto ulteriormente la sua convinzione di avere “qualcosa che non va”. Spesso quel qualcosa erano le sue emozioni, in quanto all’interno del contesto familiare non aveva mai avuto la possibilità di essere validata per ciò che provava. Durante i gruppi, all’emergere della conflittualità e della sua rabbia nei confronti della madre, B. ha sperimentato l’accoglienza e la validazione di cui aveva bisogno e questo l’ha spronata a portare anche altre tonalità emotive all’interno del gruppo che le hanno poi permesso di andare avanti nel suo processo di crescita e sviluppo.
L’altro aspetto fondamentale del gruppo è che al suo interno è possibile “cercare di capire tutti insieme, genitori e figli, che cosa succede a casa propria, avendo la possibilità di osservarlo a casa di qualcun altro” (Badaracco & Narracci, 2010). Questo è possibile farlo sia distanziandosi e proiettando sull’altro alcune dinamiche relazionali problematiche e sia osservando quelle stesse dinamiche quando vengono agite nel gruppo. Ciò permette di acquisire consapevolezza in una situazione “protetta” e di avviare poi le riflessioni del caso che possono portare ad una messa in discussione di quelle dinamiche disfunzionali che fanno parte della realtà relazionale dei pazienti. Dunque, la stessa conflittualità presente nella quotidianità della vita familiare, se agita all’interno del gruppo, piuttosto che un conflitto da sedare diventa, invece, una grossa risorsa su cui poter lavorare per il cambiamento, a partire dall’osservazione della stessa. Questa osservazione dal vivo permette di andare oltre il filtro dei significati personali del singolo soggetto coinvolto, assumendo un punto di vista globale e complementare sugli schemi relazionali, spesso disfunzionali.
A tale proposito può essere descritto il caso di una madre che spesso durante i gruppi si mostrava polemica nei confronti della figlia, C., dando una sua lettura ai suoi comportamenti. La ragazza per diverso tempo non aveva mai preso parola durante le multifamiliari e sembrava rimanere impassibile agli attacchi della madre. Un giorno però, mossa anche dalla maggiore emotività della madre che era più sul versante tristezza piuttosto che sulla rabbia che l’aveva connotata fino a quel momento, C. aveva trovato il coraggio di parlare esprimendo il suo vissuto e soprattutto le motivazioni alla base del suo comportamento. Questo fattore, assieme alla ridefinizione della problematica all’interno del gruppo, aveva dato la possibilità alla madre di comprendere meglio le emozioni della figlia dando così una rilettura di tutti gli avvenimenti, non più autocentrata e regolata esclusivamente sulla rabbia e la frustrazione ma lasciando spazio anche ad altre tonalità emotive. In quel caso era stato proprio il confronto con le diverse letture date dagli altri membri del gruppo a permettere alla madre di dare un altro significato ai comportamenti e ai silenzi di C. consentendo ad entrambe di entrare finalmente in contatto senza scontrarsi come avveniva in precedenza (incontrarsi senza scontrarsi). Questa apertura ha segnato all’interno della relazione madre-figlia un grosso punto di svolta che ha migliorato significativamente la qualità del loro legame.
Questo è quello che è successo anche alla madre di un’altra ragazza, B., che nel momento in cui si è dovuta confrontare ripetutamente con un altro punto di vista, quello proveniente dal gruppo, si è trovata di fronte alla necessità di riconoscere che esiste anche un altro parere oltre al suo, iniziando a farne i conti, prima con la rabbia e poi, faticosamente, provando a mettere in discussione il suo modo di concepire la relazione con l’altro. Difatti è rimasta nei ricordi di tutti la fatica che il gruppo ha dovuto mettere in campo per cercare di rimandare a questa madre, con tratti psicotici molto importanti, che la figlia, ospite della nostra struttura, era legittimata ad avere un punto di vista diverso dal suo essendo un’altra persona, differenziata da lei.
Infatti, l’altra funzione fondamentale del gruppo multifamiliare consiste nel contribuire al corretto processo, ancora in corso negli adolescenti, di separazione-individuazione. Il genitore deve iniziare a concepire il figlio come diverso da sé così che il figlio possa iniziare a sperimentare la libertà di essere quello che è senza per forza dover incarnare il genitore che lo abita (Badaracco & Narracci, 2010). Emblematico è il caso di una ragazza, A., che spesso riportava un forte senso di colpa, sia nei confronti della madre che nei confronti della sorellina più piccola, ritenendosi la causa del suo malessere. Illuminante è stato quando, durante un gruppo, la madre aveva riportato che da sempre viveva col peso dei sensi di colpa per il suicidio di sua madre, nonna di A., avvenuto quando lei era piccola. Sembrava quindi che la ragazza avesse incarnato il senso di colpa della madre riportandolo nella sua vita, divenendo così il paziente designato, portatore del disagio familiare. Dunque il gruppo multifamiliare permette di rompere le interdipendenze patologiche e patogene (Badaracco & Narracci, 2010) che spesso sono alla base della psicosi. Attraverso la mediazione del gruppo è possibile far emergere le voci di entrambi i soggetti, genitore e figlio, e nel momento in cui l’uno rinuncia alla prevaricazione dell’altro, pretendendo di avere a tutti i costi ragione, si può arrivare ad un riconoscimento dell’altro come entità diversa e distaccata da sé.
Per tal fine è fondamentale lavorare molto sulla comunicazione, permettendo a tutti di esprimersi nel modo migliore, lavorando per il riconoscimento di punti d’incontro e di mediazione piuttosto che sulle contrapposizioni (Badaracco & Narracci, 2010). Inoltre, è importante favorire sempre la circolarità della comunicazione in quanto è solo grazie allo scambio tra tutti i partecipanti, tra le diverse letture e i diversi significati dati ai vari episodi che emergono di volta in volta, che si possono attivare i transfert multipli, fondamentali per il processo terapeutico. Man mano che aumenta la coesione del gruppo possiamo osservare il cosiddetto fenomeno della mente ampliata: “le menti di tutti i partecipanti funzionano come se fossero parti complementari di un’unica mente” (Badaracco & Narracci, 2010).
Nella nostra esperienza clinica, un altro vantaggio riscontrato nei gruppi multifamiliari consiste nell’aver innescato delle riflessioni utili per poi trattare dei temi importanti anche all’interno della terapia individuale coi pazienti, a maggior ragione nel caso di pazienti adolescenti come i nostri che spesso fanno fatica ad aprirsi o ad esprimersi anche per via della scarsa padronanza di linguaggio dovuta alla loro tappa di sviluppo. Il fatto di aver potuto mettere in scena all’interno del gruppo le dinamiche relazionali che hanno contribuito alla sofferenza e al disagio sperimentato e il fatto che il terapeuta ha potuto assistere dal vivo a quelle dinamiche, offre la possibilità al paziente di parlarne meglio all’interno della terapia individuale, sia perché non deve descrivere e spiegare bene le cose, che ormai già fanno parte di una conoscenza e di un’esperienza comune, sia perché viene meno la paura di non essere creduto e sia perché si parte già da una validazione alla base che è avvenuta all’interno del gruppo. Dunque, questo permette di fare delle riflessioni più profonde e di assumere una maggiore consapevolezza necessaria per integrare i vari vissuti e facilitare una ristrutturazione emotiva dell’esperienza.
Durante la nostra esperienza clinica comunitaria abbiamo potuto riscontrare anche il ruolo terapeutico del gruppo multifamiliare rispetto ai vissuti traumatici. Il gruppo diventa il luogo di ascolto privilegiato, il contenitore emotivo di tutte quelle storie che non hanno mai avuto un posto dove poter essere raccontate, e sono quindi rimaste nell’ombra della non esistenza, insieme ai loro protagonisti, privati della luce della realtà. “L’effetto di un episodio traumatico ci invade così tanto che non si capisce più nulla, è un eccesso di verità che ci viene addosso e che non ci permette più di sentire e di sentirci, generando una confusione tale da farci perdere il contatto con la realtà” (Valenti).
Durante una multifamiliare una ragazza, B., parlando del malessere espresso attraverso i tagli, ha riferito “a volte si ha paura e non si dice quando si sta male perché poi diventa reale”, come se fosse proprio il racconto a rendere reale quel malessere. Quando il malessere entra a far parte di una storia raccontata entra a far parte di una realtà condivisa che, di conseguenza, è più difficile ignorare e si è costretti a farci i conti, cosa sicuramente non facile, però questa è l’unica strada possibile per l’elaborazione e l’integrazione di quell’evento con la storia di vita.
All’interno del gruppo multifamiliare sono emerse diverse storie traumatiche di violenze e abusi che spesso erano state tenute nascoste per paura o per vergogna, vissuti che avevano acuito il malessere e rafforzato la distanza dagli altri che non sapevano e non potevano comprendere, relegando le vittime in un mondo parallelo in cui sono le uniche portatrici di una verità che non può essere detta perché spaventerebbe l’altro. “Voi siete esseri umani, poiché avete una famiglia e dei luoghi per parlare. Ma io, se racconto quello che è successo, vi spavento e mi sfuggite. Voi mi credete un uomo, ma io so bene di esserne solo l’apparenza.” (Cyrulnik, 2009).
I genitori fanno fatica ad accettare queste verità e in molti casi preferiscono ignorare, a volte consapevolmente altre in modo inconscio, perché altrimenti dovrebbero chiedersi loro dov’erano, cosa stavano facendo mentre i loro figli supplicavano, nel modo che potevano, il loro aiuto (Grittani, 2021), costringendo sé stessi a fare i conti con le loro colpe e i loro vissuti di inadeguatezza nel ricoprire il ruolo genitoriale.
Guardare finalmente la realtà degli eventi, per quanto traumatici essi siano, permette di mettere in discussione le cose che non sono andate, senza cercare un capro espiatorio, bensì provando a costruire un nuovo equilibrio relazionale più sano e funzionale. Raccontare le proprie storie di sofferenza permette di dare voce a quel malessere, liberandosi dal peso del segreto, “ogni racconto è un’iniziativa di liberazione” (Cyrulnik, 2009), a patto però che ci sia un ambiente che sappia ascoltare, accogliere, comprendere e supportare. Durante una multifamiliare una ragazza, A., ha raccontato i ripetuti abusi subiti da parte del figlio del compagno della madre, raccontando che la denuncia era stata uno dei momenti peggiori di quel periodo in quanto i poliziotti non l’avevano creduta. “Quanto ai sopravvissuti, non sono totalmente morti. Sono soltanto degli spaventapasseri, delle illusioni di esseri umani che potranno ridiventare persone vere a condizione che il loro ambiente li lasci parlare.” (Cyrulnik, 2009).
Il gruppo multifamiliare può essere quell’ambiente e, esercitando tutte queste funzioni, può “ridare vita al mondo interno di questi feriti” (Cyrulnik, 2009). La forza terapeutica del gruppo permette di ridefinire il significato dato agli eventi, ripulendolo dai vissuti di colpa e di vergogna e permettendo una riconciliazione col passato, “come se si riparasse un’ingiusta ferita” (Cyrulnik, 2009).
All’interno del gruppo vengono finalmente scoperte delle ferite, spesso causate da parole di troppo o da parole mancate, ma è proprio grazie al potere terapeutico del gruppo che le parole che hanno più volte ferito possono trasformarsi, invece, in parole che “guariscono”, permettendo di riparare anche rotture relazionali ormai calcificate. “La relazione, che magari ha causato tanto danno e tanto dolore, è anche la condizione necessaria agli esseri umani – per loro stessa natura – per poter guarire.” (Van Der Kolk, 2015).