Vaso di Pandora

Il cuore segreto , la necessità del bene – Parte 2

Continuano qui alcune riflessioni raccolte intorno ai destini diversi in ognuno di noi di uno stato mentale buono e costruttivo. Mi si perdonerà lo stile puramente narrativo o esperienziale e meno collocato all’ interno di corpi teorici.  

Matrimoni bianchi

Una donna con due figli mi fa capire quanto il rapporto col marito sia da sempre un matrimonio fra fratelli: due rapporti sessuali, due figli, circa vent’ anni fa. “In seguito non volevo far soffrire i figli separandomi, mio marito è gentile”. S. è una donna che si è fatta operare al volto tante volte, ma a un certo punto non si è più riconosciuta, non si vedeva più. Quando invece sorride ecco che il suo volto torna in maniera splendida. Tanto era ormai nelle sue espressioni condizionata dalla rigidità dei muscoli della faccia, come una mummia, non mimica, non mobile, quanto il suo sorriso le illuminava il volto, che di colpo diventava aperto e bellissimo, comunicativo. Altrettanto velocemente poi poteva tornare a essere mummia, una mummia arrabbiata e torva.

La donna, che vive all’estero e si reca a Milano solo per le cure, viene per una figlia bulimica grave, con associato consumo di sostanze. Dal racconto emerge che questa madre non ha mai potuto esprimere il suo modo di vivere e che deve aver molto sofferto, assentandosi dai compiti materni, anche complice il fatto che il marito ha fatto da mamma ai due figli e a lei stessa. 


La figlia sembra aver stretto un legame fortissimo col padre, in qualche modo lamentando l’assenza della madre e, seppure in maniera non esplicita, desiderando che fosse più presente e vitale. Dissi così a S. che la figlia aveva bisogno di vedere il suo volto, i suoi sentimenti e come il volto dà luce ai suoi sentimenti. S. si era abituata a pensare di non essere capace di fare la madre, adattandosi all’idea di non essere in grado di esprimere se stessa e le sue parti affettive buone.

Piano piano la figlia comincia a regolare il cibo e le sostanze, ma diventa chiaro che chiede alla madre di esserci, di potersi esprimere e di fare la madre, cosa che ha sempre temuto di fare perché reduce da una esperienza difficile con la sua stessa madre, completamente anaffettiva. S. prova odio verso la madre, o meglio lo provava, e teme che la figlia possa provare lo stesso sentimento nei suoi confronti, il che l’ha portata a evitare di essere madre, astraendosi dal compito.

Molte di queste storie ci dicono quanto numerosi adolescenti non siano ancora staccati, autonomi mentalmente da molti temi o problemi che hanno afflitto i genitori, e che rimangono incastrati in legami malati.

Diventa sempre più necessario, in questa epoca di famiglie traumatizzate in diverso modo senza saperlo, non lasciar perdere le aree che, sia il genitore che il figlio, non sono ancora riusciti a vedere assieme o separatamente, ma che in fondo sono problemi comuni del campo familiare non ancora risolti o modificati. Sono soprattutto casi in cui il genitore ha amato il figlio, trasmettendo di certo amore, ma anche un problema affettivo non “digerito” da lui stesso. Ciò è inevitabile nella vita, ma può anche essere trovato proprio nel modo in cui un figlio soffre o presenta un problema.

In questo e altri modi i matrimoni diventano luoghi difficili, le coppie convivenze inautentiche, la vita pesante. Il cuore segreto di S. stava nel suo trauma con la sua stessa madre e nel non credere che vi fosse una parte buona di sé in grado di esprimere affetti sani, che paradossalmente la figlia, pur con modalità distruttive, induceva a tirare fuori.

Cambiar canale se alla TV si baciano

In gruppi familiari, magari potenzialmente caldi e affettuosi ma ormai aridi e prosciugati, il problema emerge per la comparsa di un sintomo. Un figlio o una figlia che cambiano, sintomi non inventati o per colpa di “cattive compagnie”.

In prima battuta è difficile da capire, non può farlo la famiglia, ma neanche i dottori. In realtà col tempo tutto diventa chiaro. Sono le famiglie in cui si afferma che non c’è stato mai bisogno dello psicologo, o dove tizio o caio non hanno mai avuto grande fiducia nella psicologia.

Dieci anni fa ricevo una telefonata dal padre di un ragazzo di 20 anni, figlio nato in Italia da una famiglia di spagnoli da anni in Italia per lavoro.

La madre a colloquio mi spiega che il figlio ha avuto un’importante diminuzione della vista e dell’udito, con successivi accertamenti che hanno escluso motivi organici. Sento nella sua voce un dolore e una preoccupazione che suscitano immedesimazione, tenerezza e senso di protezione: è l’unico segno di tenerezza che mi sembra di aver sentito in quella persona. Chiedono psicofarmaci per l’immediato, forse per la gravità dei sintomi, ma penso a essere prudente, dando pochi farmaci, e contemporaneamente cerco di fornire qualcosa d’altro che li possa aiutare.

Troppo spesso le prescrizioni farmacologiche sono abbondanti e coprono ogni possibile disagio, e questo è uno degli aspetti che la psichiatria di oggi non riesce a trasformare, ossia l’immediatezza di farmaci e le dosi tendenzialmente elevate, fatto salvo i casi di depressione grave che necessitano immediatamente di un aiuto forte anche farmacologico. Dopo aver visto la famiglia e il ragazzo, la mamma mi appare fine ed elegante, ma allo stesso tempo fredda, il padre invece mi sembra un uomo durissimo e asciutto, pervaso da una maniacale disciplina, anche se impercettibilmente sembra voler bene al figlio, sempre senza mostrarlo.

Non comunicano bene le loro emozioni, penso, e neanche fra loro. Essendo stranieri credo forse che tutto ciò sia legato a usi differenti dai nostri, anche se la madre riesce a dire che A. è stato come un “casus belli”, come collettore dei loro problemi, come a dire che lei e il marito si sono scontrati non direttamente ma attraverso il figlio, dicendo cose differenti al ragazzo e forse provocando in lui un disorientamento.

La madre fra le lacrime dice anche che ha spesso cresciuto il figlio con l’idea di farlo diventare diverso dal padre, quasi per vendetta verso il marito.

A. viene dipinto come un bambino-soldato: non ascoltava ma sentiva solo i precetti familiari sia materni che paterni scissi fra loro, assumendoli in maniera colpevole verso di sé, e poi faceva ciò che gli era suggerito, sebbene con grande sforzo, ma tutto senza relazione. I diktat materni e paterni non erano integrati e arrivavano a lui come staffilate che non riusciva a integrare, con il rischio che la sua mente divenisse scissa.

Quando arriva da me il ragazzo parla a voce alta, elencando con un ritmo incessante tutti i sintomi somatici che passano dalla vista, all’equilibrio, a non sentire ciò che gli viene detto, al non stare in piedi, al doversi appoggiare, a non fare più sport, a non riuscire a fare praticamente più nulla.

In ogni seduta A. dapprima racconta sintomi, angosce e domande, “ma perché ho tutto ciò”, e successivamente fa una comunicazione importante sul piano delle sue emozioni o sulla relazione coi genitori.

Nelle sedute prendono corpo così anche delle comunicazioni che spesso riguardano la famiglia, dapprima la madre, poi il padre e successivamente l’ambiente familiare.

La madre sarebbe stata insoddisfatta del lavoro e avrebbe investito sulla riuscita del figlio, temendo insuccessi scolastici e facendogli sentire il “fiato sul collo”.

A. ha inoltre sempre pensato di essere colpevole degli insuccessi o di ciò che invariabilmente non riusciva a compiere dopo un forte pressing familiare.

Gradualmente emergono però in lui aspetti di emotività sana, soprattutto con gli amici e, sebbene abbia idee “pazze” o gravemente aggressive, temendo che questa parte possa prendere il controllo, troviamo aree di sua identità sane ma ferite: si nota un lento avvicinamento alle ragazze, nonostante un clima familiare impersonale e rigido in cui non si può esprimere affetto per una specie di guerra fredda che ha influito nel suo esistere. 


L’impronta religiosa familiare, di carattere non gioioso ma obbligatorio, faceva sì che i programmi in TV che mostravano un bacio o tenerezze implicassero un immediato cambio del canale, senza poterne discutere. Ciò apre verso un mondo in cui A. non riesce a dire e a essere, in cui parla con difficoltà di affetti femminili, tanto da pensare anche al desiderio di comunicare con le ragazze, ma con un senso di inadeguatezza che appare praticamente quello di un bambino piccolo o con vergogna e inaffrontabilità della figura femminile.

Nei momenti difficili A. afferma di non trovare più la sua voce, la sua identità e non riuscire a capire dove sia finito come persona, temendo di essere omosessuale. In particolare, ora può “vedere” il suo calo della vista e dell’udito come effetti di una colpa primaria, e ciò lo avvicina alle ragazze con meno pesi sulle spalle.

I genitori si resero conto di quanta paura avessero di una loro separazione quando il figlio riuscì a svincolarsi dal ruolo di capro espiatorio di tutto.

Dopo molti anni, la radice sessuale della sofferenza di A. e il bisogno di esprimere la sua soggettività senza pre-giudizi di una famiglia fobica e spaventata dalla separazione, fu chiara e poté portare il ragazzo verso l’autonomia, mentre i genitori affrontarono, non senza fatica, un percorso di sostegno per limitare i danni dovuti all’assenza del figlio che in qualche modo garantiva un loro equilibrio.

Necessità di trasformazione della distruttività in pensiero e affetto

Sono tante le storie che, come queste, ci parlano del campo familiare: esse vanno rispettate come parte della vita che ognuno di noi ha dovuto incontrare, per stare in famiglia, come sentimenti molto delicati o difficili.

La necessità del bene si riferisce sia al fatto che l’obiettivo è trovare i sentimenti di vita e di amore, cosiddetti “di legame”, grazie alla comprensione degli affetti “di amore” traumatizzati e feriti che sono stati schiacciati, allontanandosi dall’idea di una parte cattiva, rimossa per eccesso di distruttività. In questi casi non viene rimosso ciò che non funziona, ma ciò che è funzionante in termini di legame e amore, ma non consentito dal trauma e dal blocco di emozioni avvertite come pericolose per le relazioni salvavita. È come se uno avesse bei quadri, ma depositati in cantina all’umido. 
Una autorizzazione a guardare agli aspetti di valorizzazione, di narcisismo sano e di invito a proporre scenari non colpevolizzanti.

Sarà il desiderio del terapeuta o dell’équipe e il loro amore per le parti ferite nascoste dietro alla distruttività, a produrre un investimento sano sul paziente e a svelare le sue aree relazionali intersoggettive malate. Il bene può corrispondere al raggiungimento di una indipendenza sana, ma anche una buona interdipendenza da amori possibili, sostenibili e nuovi. Il legame col proprio bene e con l’altro passa spesso da separazioni e crescite, ma non ottenute con distruttività replicando legami malati. In sostanza i bisogni primari e i dolori che ci abitavano da bambini, o che ci abitano tuttora, hanno necessità di non essere avvertiti come colpa o ricadere su di noi come elementi ingestibili.

Il male e la colpa troppo forti, ingestibili, e molte delle distruttività vengono evacuate, “prendendocela” con qualcun altro, spesso vicino, spesso implicato, ma senza capire il processo in corso.

Questo meccanismo di distruttività sostenuto da troppo dolore, angoscia o colpa, corrispondono al tentativo di liberarci da un carico troppo pesante e doloroso, di solito neanche percepito o capito. Questi sono rischi importanti per il soggetto che ha un dolore e che diventa ingombro di oggetti pesanti, cattivi, distruttivi verso sé o verso l’altro: nel primo caso prevale la depressione, nel secondo la distruttività e ciò implica la necessità di vedere il bene in sé non come posizione “buonista”, ma come scoperta di aree affettive valide e normali che sono state disabilitate e mortificate da angoscia, dolore e colpa.

Il trauma e il dolore che ne deriva possono generare una sorta di colpa per proprie presunte aree di deficit che spesso sono aree nevrotiche di autoaccusa, con l’equivoco di essere sedotti dalla propria distruttività, quando invece, invisibili, vi sono aree di sofferenza di parti sane traumatizzate eccessivamente e mai soccorse o capite da un altro. Ecco perché occorre che a questo mondo ci sia un altro che veda, capisca e che dia una relazionalità a ciò che è spento o non visibile perché mortificato in noi. Ed è per questo che un vero rapporto d’amore si basa sull’essere veramente nudi l’uno con l’altro.

I pazienti di oggi hanno bisogno di sentire l’amore dei loro curanti in quanto la gente è più sola o resa sola dalla tecnologia e dagli stili di vita.

Altrettanto è importante sviluppare ipotesi sullo stato mentale delle emozioni di chi soffre, emozioni spesso rese nulle e nascoste da un’immagine conformista di generico benessere o malessere.

La colpa che ne viene per molti giovani, immersi in questi legami per il loro distanziarsi da genitori o partner quando stanno meglio, li fa sentire cattivi e colpevoli verso la persona da cui rivendicano una distanza semplicemente più normale.

Ciò fa sì che, a fronte della colpevolizzazione e del sentirsi cattivi, è una necessità importantissima rintracciare il bene nelle parti ferite, ma sane, della persona che si soggettiva, per sostenere e accompagnare i percorsi di decolpevolizzazione e per reperire la soggettività una volta ostaggio di legami malati. Tale atteggiamento di necessità del bene sostiene anche un invito a non sviluppare guerre fra figli e genitori, per comprendere il genitore anche come persona con i suoi limiti e le sue sofferenze. 
In due parole non opponiamoci all’emergere dei sentimenti che avvertiamo, in quanto essi ci guideranno, assieme a qualcuno che li valorizza o legge, verso una “spiaggia” nuova.

Religioni e fraternità di vita e non di morte

Un detto ricorda che “il meglio è nemico del bene” e questo principio è anche ribadito dal sapere religioso popolare che dice che “le strade del paradiso sono lastricate di cattive intenzioni”. Non ambiamo quindi a essere il meglio ma a sentirci bene, e per fare ciò anche staccandoci da indicazioni di scuola, potendo essere eretici.

Francesco d’Assisi doveva la sua eresia, come ricorda Marco Sarno (2016), alla critica del potere temporale e della corruzione della Chiesa, anche sulla base del suo pacifismo e dialogo con l’Islam (mentre erano in corso le crociate), ma anche il religioso arabo mistico e non politicizzato sa che Allah dà vita alle creature facendo sì che esse siano tutte dei soggetti diversi e individuali. Il nome Allah è privativo del nome, il suo nome è portato dalle sue creature che potranno essere libere di essere nel bene a proprio modo: ciò è ben lontano dall’integralismo arabo che vede tutti uguali e che condanna la diversità, schiacciando la persona comune (Villa, 2017).

Questi approcci religiosi sono ben lontani dall’integralismo e vedono una necessità del bene come rinuncia alla guerra, inaugurando un secolo in cui si può preferire un’immagine maschile non guerrafondaia e tendente a un bene del gruppo, rinunciando a fare solo guerra, almeno fra famiglie o in famiglia.

Nella coppia dei genitori spesso l’integralismo, con le tematiche del proprio gruppo familiare di origine non risolte, vengono quasi matematicamente a confrontarsi fra loro con possibili conflitti che hanno bisogno di essere studiati e risolti, piuttosto che presi immediatamente come guerre sante che invariabilmente portano verso la frammentazione. In sostanza le coppie genitoriali vanno verso un conflitto sui figli quando non sono state capaci di affrontare le difficoltà con le rispettive famiglie di origine.

Trovare i vari cuori segreti può essere una via per migliorarci, come pure l’introduzione di un bene fraterno può favorire relazioni con un confronto di gruppo più immediato rispetto a quello genitoriale con posizioni che “cadono sempre dall’alto”.

Essere fraterni equivale allo stare assieme come vasi comunicanti (Kancyper, 2008) e al tentativo di superare le identificazioni dei genitori come pietre o statue non modificabili. Spesso il conflitto fra fratelli è sostenuto sia dal bisogno dei genitori di estendere un controllo personale sul figlio, sia per paura che il gruppo dei fratelli, o un fratello in particolare, sia pericoloso.

Pertanto, pur essendo importante la differenza fra fratelli, i conflitti fraterni possono rappresentare un elemento di prosecuzione degli ideali dei diversi gruppi familiari malati di frammentazione, sempre desiderosi di difendere a spada tratta ciò che pensava il padre o la madre, ma senza comprenderne i motivi e staccandosi veramente da essi per vivere la propria vita.

Studiando le famiglie potremo capire chi è il destinatario dei beni e delle eredità psichiche, oltre che di quelle amorose, ben prima di dare valore alle eredità concrete. Chi avverte di averne avute in misura maggiore può vivere il senso di colpa se vivrà una vita slegata dai legami familiari; spesso invece potrà essere più libero chi non è ostaggio di “ricatto familiare” o di accordi che inibiscono il suo potenziale solo per continuare una tradizione familiare. In parole povere spesso è meglio essere fuori da logiche malate familiari piuttosto che esserne dentro e rimanere inibiti sul piano dell’identità.

Il bene e la “vita nuova” di ognuno di noi può scaturire dall’essere fraterni per ridisegnare i genitori e i ruoli familiari, vivendo la fraternità come un modo familiare per trasformare le figure dei propri genitori. Si diventa genitori trasformando, mediante i rapporti fraterni, il proprio genitore interno, senza perderlo, ma apportando una quota di arricchimento trasformativo personale. È così che passiamo da figli a genitori.

In fondo questo discorso mette assieme l’importanza della famiglia ma anche l’importanza del trovare strade di gruppo e di condivisione fra fratelli biologici e fratelli legati da altri valori, religiosi, ideologici, affettivi o uniti da passioni varie. La famiglia che produce un controllo su questa funzione creativa e artistica dei figli come fratelli, ha la necessità di mantenere un controllo sull’ideologia di sicurezza piuttosto che su quella dell’alterità e dell’apertura al nuovo.

È un tema importante che si verifica quando un figlio o una figlia presentano il o la fidanzata che rappresenta per forza una trasformazione da un modello primigenio a uno successivo. Il gruppo familiare può temere i cambiamenti da meccanismi di controllo che sono spesso resi tali da genitori impegnati nel non cambiamento. Molti genitori possono aver sviluppato infatti modalità di vita tali da proteggerli da personali sofferenze, ma implicanti un’adesione da parte dei figli che lamentano invece la necessità di partire dall’eredità ricevuta per poterla trasformare e farla propria.

Allo stesso modo uno sforzo dei figli potrà essere quello di arrivare a rispettare la posizione del genitore che non ha potuto fare diversamente nella sua vita, spesso non raccontata nei suoi drammi, con la necessità di vedere le figure dei genitori come quelle di vere e proprie persone.

Ciò accade con la maturità, ma l’impegno come terapeuti può essere quello di aiutare figli e genitori ad avere gli uni una identità più strutturata che possa sopportare l’idea di un genitore con fragilità (ma con il diritto all’amore e a non essere oggetto di aggressioni continue), mentre gli altri a crescere come genitori che sostengono le crescite dei figli. Il bene e male del singolo e della famiglia sono da ricollocare nei giusti contenitori, mediante le cure dei disagi psichici, essendo questi ultimi “un eccesso del liquido dei vasi comunicanti che esce dal sistema”, peraltro utilissimi per ripensare alla vita del gruppo familiare.

È sempre nel bene, nell’opportuno, che possiamo inscrivere la rara occasione di raccontare le storie delle nostre famiglie con tutti i dolori connessi e le gioie che possono gradualmente ritornare a essere più libere di circolare come medicina implicita e fisiologica dell’uomo e della donna.

E ancora, è nel bene la possibilità di integrare tutte queste parti senza scindere eccessivamente diversi elementi, come amore, famiglia, figli etc., che rischiano di essere satelliti senza relazione fra loro, anche qui sovvertendo le leggi fisiche che vedono le forze fra i componenti di un sistema legarsi fra loro.

È sempre nell’ambito del cosiddetto bene che perciò abbiamo bisogno di un “altro”, perché da soli possiamo non riuscire a guardare tutti questi temi con una necessaria tranquillità d’animo. 
Un “altro” che possa vederci nudi come siamo realmente, senza copertura, potendo valorizzare il nostro cuore segreto.

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