I LUOGHI DELLA CURA
Il contributo di Ferro è in sintonia con quanto da me sempre sostenuto e che in estrema sintesi si raccoglie in questa affermazione: l’ambiente curato cura.
Ma che cosa è questo ambiente di cui parliamo, non è solo un luogo ed uno spazio architettonicamente organizzato, nel nostro caso per essere una comunità terapeutica, ma anche e forse soprattutto un tempo in cui poter raccogliere, aiutati, le proprie risorse psichiche che nei nostri pazienti sono fortemente deficitarie; in tal senso il convento può essere considerato il prototipo della comunità. Potremmo allora affermare che la risonanza interna dell’ambiente esterno permette, o meno ai pazienti di avere un substrato utile di coltura sul quale inserire gli specifici interventi psicoterapici residenziali.
La considerazione banale che tutti dovremmo chiederci semmai avessimo bisogno se trarremmo vantaggio da essere inseriti in un ambiente malsano, brutto e decadente non è quasi mai stata presa in considerazione dagli psichiatri; anche la storia recente degli OPG insegna, col paradosso che dei medici hanno accettato e condiviso scelte strutturali, ambientali del tutto anti terapeutiche negando l’evidenza di una contraddizione: si è realizzata la disumanizzazione dell’uomo.
L’esperienza ci insegna che strutture ben curate negli spazi e negli arredi più difficilmente vengono attaccate e rovinate dai pazienti lì ospitati; inoltre il concetto di riparazione così caro alla psicoanalisi e così importante deve avere un riscontro anche nella possibilità concreta di riparare i danni procurati da una crisi pantoclastica di un ipotetico paziente .Ecco che ancora una volta interno ed esterno si confrontano e si compenetrano utilmente accompagnati dalla parola permettendo a logos e pathos di coesistere.
Giovanni Giusto
Gli spazi della cura, ricorda Minkowski, sono “spazi vissuti” irriducibili ai rapporti geometrici perché hanno a che fare con il territorio interno. P.C. Racamier ha sviluppato questo concetto nella sua “terapia istituzionale” dei pazienti psicotici. Ora noi parliamo d’interventi di rete che dilatano notevolmente gli spazi e i tempi della cura. Vengono riproposte le esperienze di W. Tuke e J. Connoly che furono tra i tanti antesignani della psichiatria di comunità e della terapia istituzionale, così W. Bion e G. Polacco William, che aiutano a “pensare i luoghi della cura”, sviluppano il concetto di contenitore/contenuto nella terapia delle psicosi.
S. Freud nello scritto “Il perturbante” esplicita la base dei meccanismi di difesa nei confronti della follia e Edith Stein mette a disposizione “critico” degli psichiatri le sue riflessioni sull’empatia.
I contributi di A. Terranova, Zevi e H.L. Wright ci introducono all’organicità alla natura “politica” dell’architettura e così dagli spazi possibili di cura in psichiatria per favorire – e non limitare – la libertà esterna e interna dell’uomo.
Gli spazi della cura raccontano così i nostri modelli della malattia mentale e della sua cura possibile.
Minkowski nel saggio “Spazio, intimità, habitat” afferma che accanto al tempo vissuto esiste uno spazio vissuto, irriducibile ai rapporti geometrici, irriducibile ad un sapere astratto; esso costituisce il teatro dell’agire e si dispone entro una trama di tensioni, di intenzioni, di percorsi dotati di senso.
“La follia – scrive M. – è l’incrinarsi di questa esperienza di senso: il dischiudersi di spazi immensi ed infiniti, di spazi mobili o distese desolate, di luoghi cifrati di rimandi e tracce note e di luoghi sconosciuti, inospitali o addirittura muti”.
In altri termini la follia è un ordine spezzato nell’abitare e nel vivere lo spazio, nel misurarne e nell’attraversarne le distanze nel nostro agire.
C’è quindi uno spazio sociale ed uno spazio intrapsichico:
– il primo ha a che fare con la rappresentazione psicologica dell’ambiente in cui l’individuo vive ed opera;
– il secondo ha a che fare con il territorio interno, del quale soprattutto dalla psicoanalisi abbiamo imparato come noi ne siamo ben poco padroni, siamo cioè ben poco padroni del nostro mondo intrapsichico.
Antonino Terranova, nell’introdurre il Convegno “I corpi dell’architettura della città” Roma 2001 pone questo interrogativo.
Punti di partenza sono i seguenti:
– il corpo dell’architettura (fisico e disciplinare) si è rotto;
– il corpo dell’arte si è rotto;
– il corpo sociale/politico si è rotto.
Egli ci suggerisce quindi che il corpo dell’uomo psico-fisico-organico si sia rotto. Credo tuttavia che questo elenco di rotture, che può ulteriormente estendersi, non significhi distruzione senza speranza.
Nella condizione contemporanea la rottura – continua Terranova – è piuttosto sinonimo di una decostruzione di codici e di statuti da cui ripartire per indagare nuove forme e nuove figure: figure architettoniche, artistiche, sociali, politiche, estetiche ed anche sanitarie – aggiungo io –.
Tornando allora ai nostri luoghi della cura, dobbiamo chiederci quanto l’immaginario delle malattie mentali incida, ha inciso, inciderà sulle configurazioni dell’architettura degli spazi di cura, quanto l’immaginario della malattia mentale inciderà nella relazione degli spazi di cura con gli spazi della sanità e più in generale con gli spazi della città.
Dobbiamo chiederci allora quanto gli spazi della psichiatria sono stati, sono e saranno una rappresentazione metaforica e simbolica della rappresentazione collettiva delle malattie mentali e di come avvenga in ogni particolare contesto l’incontro dialogico con esse o piuttosto la difesa adialettica dai nostri pazienti.
P.C. Racamier, nel 1970 scrive:
“se io dipingo di un colore piacevole le pareti prima sporche dei locali in cui è ospitato (il paziente), evidentemente io gli comunico un messaggio molto significativo (e se la decisione l’ho presa io stesso anche questo fatto è una grossa comunicazione) dall’altra parte non si dovrebbero dimenticare anche gli effetti diretti di questa stimolazione sensoriale sull’economia dell’Io del malato”.
Non esiste dunque nulla di vivente o inanimato intorno ai nostri pazienti che l’operatore psichiatrico e l’assistenza istituzionale possano tralasciare di osservare con attenzione, perché la nostra cura utilizza oggetti concreti che hanno una loro esistenza qualunque sia l’importanza loro attribuita o negata dai pazienti.
Nel campo istituzionale infatti non viene mai annullato il carattere di realtà di persone, azioni, movimenti, pensieri, spazi di cura e di vita perché in una situazione di assistenza istituzionale nessun “oggetto” viene privato del proprio significato reale, anche perché è proprio il paziente – mi riferisco qui soprattutto ai pazienti psicotici – che di per sé tende a non cogliere il carattere reale degli oggetti come cose altre da lui.
Il mondo intorno a lui è anche un suo mondo interno lì proiettato, è il luogo dove egli si può occultare, fare occultare parti di sé nell’ambiente, a volte parti troppo dolorose delle quali vuole liberarsi, a volte parti ancora sane che sente di preservare così dalla propria distruttività.
Le nostre terapie, i nostri luoghi di cura, dovrebbero allora offrire ai pazienti uno spazio mentale e fisico all’interno del quale opposizioni come simbolico-concreto, istinto-ragione, buono-cattivo, duro-morbido, possano trovare finalmente nuove forme e nuove rappresentazioni in grado di permettere delle ricomposizioni maggiormente condivisibili.
L’attenzione per i nostri “percorsi” terapeutici e per gli spazi della cura ha un valore pratico e clinico-scientifico al tempo stesso perché da un lato i pazienti gravi vanno aiutati lungo percorsi di strutturazione di un rapporto con il mondo in cui si possa gradualmente differenziare un Io e un “Altro da Sé” sul piano di realtà, dall’altro perché questo è l’unico modo valido terapeuticamente e corretto scientificamente per riconoscere gli effetti devastanti delle identificazioni proiettive psicotiche.
Sarà così possibile, prima di tutto per noi, avere una rappresentazione più completa dei pazienti per iniziare poi il graduale processo di stimolazione, elaborazione, restituzione, e così via, che costituisce elemento fondante la terapia a lungo termine dei pazienti gravi.
Questi interventi inevitabilmente si rivolgono sia verso il milieu famigliare che verso quello istituzionale e infine verso l’ambiente sociale (Ferro e coll.).
Credo che per capire meglio l’importanza dei luoghi della cura bisogna immergerci un po’ nella storia antica della nostra psichiatria, storia che resta “moderna” e può portare ancora non pochi insegnamenti. Ne richiamo qui alcuni, non perché più importanti di altri, ma perché a me più noti e cari.
Michel Foucault scrive nel “Storia della Follia nell’età classica”: “la rispettabile Società dei Quaccheri ha voluto assicurare ai propri soci, che avessero la sventura di perdere la ragione senza possedere una fortuna sufficiente per ricorrere alle fondazioni costose, tutte le risorse dell’arte e tutte le consolazioni della vita compatibili con il loro stato. Il luogo individuato per la cura viene così descritto: “questa casa è situata a un miglio da York in mezzo a una campagna fertile e ridente; non fa pensare a una prigione ma piuttosto a una vasta fattoria rustica; essa è circondata da un grande giardino chiuso, Niente sbarre, niente grate alle finestre”.
Si tratta del “Retreat” della Clinica di York che la “Società dei Quaccheri” edifica nel 1793 ed ha come direttore William Tuke, anch’egli Quacchero.
Come curiosità ricordo che il 1793 è l’anno in cui Pinel entra a lavorare alla Bicetre, a Parigi.
Così, 20 anni dopo Samuel Tuke spiega come nacque l’idea di York: “Nel 1791 una donna appartenente alla setta viene posta in un istituto per insensati nei dintorni della città di York. La famiglia che vive lontano incarica gli amici di vegliare sulla sua sorte, ma la Direzione dell’Asilo rifiuta le visite… alcune settimane dopo la donna muore.”
La società degli amici allora pensò che: “avrebbe avuto un interesse tutto particolare a possedere un’istituzione di questo tipo, sulla quale potrebbe vegliare essa stessa e dove si potrebbe applicare un trattamento migliore di quello che viene applicato di solito”. La Società degli amici si prende cura di se stessa per evitare di essere internata altrove: cerca quindi di avere il meglio come struttura e come direttore, per organizzare appunto una dimora dove assicurare ai propri soci che perdessero la ragione “tutte le risorse dell’arte e tutte le consolazioni della vita compatibili con il loro stato”.
Vediamo qui presente “il prendersi cura di”.
In questo caso gli alienati non sono considerati “altri da noi” (i Quaccheri, i Tremanti peraltro non di rado venivano considerati disragionanti ed anche internati).
La Comunità degli amici vede gli alienati “comunità”, parte di se stessa, quindi anche i pazienti, anche i più gravi sembra non venissero mai considerati alieni, stranieri, ma membri di una comunità.
Le Suore di S. Giuliana a Verona, Ospedale dove ho lavorato nel 1996, edificarono la prima struttura per curare le consorelle che si fossero trovate ad avere bisogno di cure psichiatriche: esse non erano soddisfatte di quanto l’Ospedale Psichiatrico offriva come terapia. Ora S. Giuliana è una delle più belle e valide cliniche psichiatriche del nord Italia ed accoglie pazienti da tutta Italia, ma il modello della cura, dell’attenzione al malato è rimasto quello. Forse semplifico troppo ma i buoni luoghi di cura sono quelli – in ogni disciplina – dove, se fosse proprio necessario, ricoveremmo noi stessi e/o i nostri cari.
John Connolly, scrive nel 1856 nel “Trattato del malato di mente senza metodi costrittivi” “Il vecchio sistema considerava i degenti violenti o importuni alla stregua di belve pericolose. Il nuovo sistema li tiene in conto di persone infelici che soffrono di disturbi mentali e nervosi, che devono essere riportati alla salute, al benessere, alla ragione. …mentre nei vecchi istituti tutto era preordinato per la sorveglianza e il controllo, in quelli nuovi tutto è disposto per la cura della malattia e il benessere del malato”.
Quando parla di come ridurre e addirittura abolire l’utilizzo della contenzione scrive ancora: “secondo il medesimo tipo di profilassi e di principi curativi si deve cercare di eliminare al malato di mente ogni motivo di irritazione che si possa aggiungere alle sue già precarie condizioni emotive; lo si dovrà invece circondare di tutto quanto possa agire beneficamente sulla sua mente e lo aiuti a recuperare le funzioni normali”.
Parlando dell’organizzazione delle giornate e delle cure nell’Ospedale di Hanwell da lui diretto (vicino a Londra ) scrive ancora: “è importante che i medici dimentichino le preoccupazioni personali, allorché ha inizio la giornata e siano pronti ad ascoltare con pazienza, ad investigare con imparzialità, a soccorrere con gentilezza, a sopperire infine a tutte le piccole o grandi cause di insoddisfazione, così che i pazienti si sentano tranquillizzati e il personale non si irriti o si scoraggi perdendo la gentilezza e la comprensione verso i pazienti per il resto della giornata… così, giorno dopo giorno si avvertiranno i risultanti dell’azione benefica di questo ritmo; giorno per giorno i disturbi mentali scompariranno, il sospetto verrà dissipato, i pensieri melanconici svaniranno, la fiducia crescerà e si rafforzerà, le propensioni naturali rinasceranno e la guarigione non sarà più lontana”.
Connoly è qui sorprendentemente vicino a Bion, che parla di “rêverie”, come quello stato mentale della madre che le permette di accogliere il terrore proiettato dal neonato.
La mente materna in stato di rêverie compie una funzione che Bion designò con il termine di funzione alfa.
Le nozioni di contenimento e di contenitore-contenuto costituiscono allora un meccanismo universale del pensiero.
I nostri due psichiatri sono molto vicini quando Bion sottolinea che l’oggetto delle proiezioni (la madre, ma anche il terapeuta e l’istituzione di cura) deve possedere sia la capacità di accogliere e trasformare gli elementi proiettati senza lasciarsi travolgere, che quella di restituirli al soggetto sotto forma di oggetti interni più stabili e/o funzioni mentali mature (funzione alfa).
Torno al libro di Connoly dove, in molteplici modi, viene evidenziato come l’abolizione del metodo repressivo, e della stessa contenzione prolungata, la messa al bando della negligenza e della violenza di alcun genere (fisica e/o morale) producevano benefici nei pazienti di ogni classe sociale e facilitava il cambiamento possibile a partire dalle loro strutture di base.
Forse è pleonastico ricordare che Connoly operava senza i presidi psicofarmacologici, così importanti e per noi oggi necessari.
Carlo Livi all’Ospedale Psichiatrico “S. Lazzaro” di Reggio Emilia nella II metà dell’800 crea il museo degli orrori ovvero di quell’insieme di mezzi di contenzione che egli sancisce come definitivamente superati e li colloca appunto in un Museo; Racamier alla Velotte di Besançon, Jammet al Mont Souris di Parigi, luoghi dove ho avuto la fortuna di lavorare, prima di tutto Franco Basaglia, dovunque egli ha operato, e chissà quanti altri che non richiamo o non conosco, hanno prestato un’attenzione particolare agli spazi della cura perché diventassero luoghi della cura, luoghi fisici e soprattutto mentali della convivenza e del rispetto terapeutico.
I luoghi della psichiatria, non di rado, spazi di separazione se non di segregazione, possono divenire luoghi di cura se investiti di una concezione (medico scientifica) del sapere psichiatrico che presupponga progettualità terapeutica, fiducia nel cambiamento e nella positività dei percorsi di cura che andiamo costruendo per e con i nostri pazienti, ma anche per noi stessi.
Connoly, Livi, Basaglia, Racamier e noi ora parliamo prima di tutto di umanità e rispetto.
Solo gli spazi pensati ed attraversati dal nostro interesse dalla curiosità e della nostra progettualità possono divenire luoghi di cura! Essi devono quindi essere attraversati dalla nostra empatia e da quella che Racamier definiva essere una nostra specificità, ovvero saper cogliere la natura psicologica dei fenomeni con i quali ci confrontiamo.
Ricordo come la dimensione empatica è potere “confrontare il mio mondo di valori con quello dell’altro da me…, risvegliare quello che in noi sta dormendo e scoprire quello che siamo e quello che non siamo” (Edith Stein, problemi dell’Empatia, 1917):
Per Edith Stein l’empatia è quindi il “fondamento degli atti in cui viene colto il vissuto altrui”. Questa dimensione è peraltro di grande aiuto alla pratica di osservazione clinica in psichiatria perché ci aiuta a comprendere l’esperienza, il dolore altrui nella loro immediatezza e globalità.
Non bastano, infatti, anche se necessari, sicurezza, belle sedi, bei colori, per fare di uno spazio psichiatrico un luogo di cura.
Nelle esperienze riferite sono in atto meccanismi psicologici di appartenenza e addirittura di identificazione, magari anche discutibili, sempre certamente di empatia che hanno permesso anche l’impiego di una intelligenza e di una cura architettonica.
Empatia, intelligenza terapeutica, cura architettonica sono modalità attraverso le quali gli spazi divengono luoghi di cura, dove anche le emozioni più intense dei pazienti, anche le spinte più rabbiose e/o paurose, le sensazioni meno comprensibili possono divenire percepibili, pensabili sviluppando via, via quella funzione simbolica dell’Io, individuale e nelle istituzioni gruppale, che Bion chiamava appunto funzione alfa. Lo sviluppo di questa funzione nel lavoro istituzionale può – in realtà non sempre questo può accadere – favorire la funzione di apprendimento, conoscenza, possibilità di cambiamento (Knowledge). Lo sviluppo di tali funzioni contrasta, riduce, talvolta interrompe del tutto la produzione massiva da parte dei nostri pazienti di elementi beta come azioni aggressive, rotture dei legami, attacchi panici, blocchi regressivi. Può ridursi così l’utilizzo, nei pazienti psicotici e in quelli molto gravi di quelli che Racamier chiamava i giochi della follia.
Si possono invece leggere i luoghi abituali della psichiatria anche nei casi, non rari, in cui i Manicomi fossero edificati con cura e disponibilità economiche come avvenne nell’Ottocento e nella I parte del Novecento, come spazializzazione di meccanismi di difesa collettivi dal contatto, dalla vicinanza con la sofferenza psichica.
Erano, ed ancora a volte sono, spazializzazioni delle difese dalla crisi della ragione che la follia evidenzia(va), dalle crisi che l’uomo “normale”, l’uomo di scienze non sapevano e, spesso ancora oggi, non sanno tollerare: non sanno avvicinare come esperienza di conoscenza perché le emozioni sono troppo “perturbanti”.
A questo proposito Freud, nel suo scritto “Il Perturbante” ci ricorda che ciò che è perturbante ci risulta tale perché il suo carattere di “non famigliarita” (Unheimlich) deriva in realtà da qualcosa di famigliare (Heimlich) che è stato da noi rimosso ma che c’è nella nostra terra originaria (Heinmat).
Questi meccanismi di “Negazione d’appartenenza” all’altro da noi, il paziente psichiatrico, (accanto ovviamente agli antichi, inevitabili e noti mandati sociali di controllo e separazione) hanno influenzato l’arbitrarietà, l’illogicità, la stupidità e soprattutto l’abbandono di risorse, di pensiero, e di cultura con i quali sono stati edificati, all’inizio, dopo la legge 180, parte dei nostri luoghi di cura pubblici, (ma anche talvolta privati ) e soprattutto gli SPDC.
Anche in questo caso possiamo parlare di un sovraccarico istituzionale di elementi beta che impedivano l’utilizzo del pensiero riflessivo; erano utilizzate piuttosto modalità di pensiero e di azione simili a quelle che la Dr.ssa G. Polacco Williams chiama “sistema difensivo di vietato l’accesso”, “vietato l’accesso” all’empatia ed alla conoscenza.
Peraltro gli Psichiatri, che operavano negli SPDC, soprattutto fino all’inizio degli anni ’90, presi dall’affanno di essere come gli altri medici, quelli veri, andavano incontro a goffi tentativi di omologazione e rinnegamento delle proprie specificità con un adesività alla zelig, a modelli che solo in parte erano funzionali al curare in psichiatria.
Nelle esperienze ricordate come edificanti, e io credo ormai anche nelle maggioranza dei nostri attuali luoghi di cura, si può anche rischiare di giungere ad una discutibile “interiorizzazione dell’alienazione” ma comunque, a partire dall’accettazione di una qualche appartenenza con il mondo dei malati, si sviluppano cure e spazi di cura dove vi è la capacità dell’empatia, di un interesse robusto per “l’altro da noi”: l’altro è il paziente, ma siamo anche noi stessi e i colleghi.
Nella reciproca tolleranza delle diversità, che sono anche nostre, nasce la ricerca della giusta dimensione spaziale della distanza terapeutica che non è ne adesività ne separazione fino al rifiuto.
Si tratta dello spazio terapeutico necessario perché vi siano il dia-logo (letteralmente discorso attraverso, componimento a discorso alternato) e i progetti (gettare avanti ciò che si ha intenzione di fare in avvenire).
Potranno nascere così i nostri percorsi labirintici, percorsi architettonici, logistici e soprattutto di cura, dove inevitabilmente la paradossalità dell’ossimoro ci accompagnerà sempre.
Spazi e percorsi di cura che salvaguardino la specificità nostra e dei nostri pazienti, pur stimolando un dialogo con “l’altro da noi”.
Ricordo che per il dialogo occorrono le sponde del fiume unite da un ponte, occorre la tridimensionalità di volumi diversificati ma anche spazi di collegamento, appunto ponti sul mondo e attraverso il mondo.
A proposito di architettura e psichiatria riprendo un lavoro di Bruno Zevi architetto fautore dell’architettura organica, lavoro che porta il titolo “Pensiero einsteniano e architettura” (Relazione del 1979 nel centenario della nascita di Eisten).
Dalla sua relazione “la teoria della relatività implicò un terremoto nella visione architettonica… l’impianto dell’edificio subiva un trauma, si affrancava dalla gerarchia autoritaria del fronte monumentale, dei fianchi e del retro, riflesso tipico dei dislivelli sociali, e postulava l’equivalenza di tutti i suoi aspetti …si tratta di dissacrare l’edificio come entità in sé, valore assoluto, simbolo del potere, e di spostare l’attenzione sulla vita che vi si svolge, una vita troppo spesso imbavagliata, coartata e repressa dallo spazio-scatola… l’architettura – egli ricorda – è in realtà un sistema digente, di comportamenti e non di cose”.
Zevi considera poi H.L. Wright come l’architetto più disponibile a sintonizzarsi con lo spazio –tempo einsteniano: “Nell’edificio organico nulla e completo in se stesso, ogni parte si completa fondendosi nella più ampia espressione del tutto, dove tutte le cose si trovano in un processo di flusso perciò – scrive ancora – il continuum tra edificio ed ambiente, tra spazio interno e spazio urbano o paesaggistico è fondamentale”.
Nell’architettura organica – ricorda Zevi – il concetto di oggetti materiali è sostituito dal concetto di “campo” (conoscenza dello spazio-tempo e della dimensione sociale).
Wright relaziona da un lato l’edificio, lo spazio tempo e le esistenze umane al contesto ecologico, alla globalità dei fenomeni; dall’altro ne propugna la libertà, l’esuberante dispiegamento, il coraggio inventivo.
L’individuo si può così aprire alla riconquista della sua indipendenza mortificata da visioni metafisiche, regolamenti abbruttenti ma anche confusa da miti illuministici. Zevi conclude, ed io concludo con lui: “lottiamo in architettura come in ogni altra disciplina contro i pregiudizi autoritari e sociali, contro gli automatismi acritici e le abitudini acquisite per favorire la libertà esterna ed interna dell’uomo”.