Nonostante gli sforzi compiuti da ricercatori e clinici la psichiatria moderna presenta zone di ombra difficili da illuminare.
Le diagnosi più importanti non correlano con il funzionamento, è noto che pazienti schizofrenici riescano a cavarsela bene in autonomia, mentre pazienti con i cosiddetti disturbi di personalità possono sviluppare gravi disabilità e cronicità.
Il disturbo bipolare poi è un paradigma misterioso: alcuni svolgono professioni importanti e di grande responsabilità, altri vivono tra una clinica e l’altra, senza mai recuperare.
Lasciando la questione diagnosi e ponendosi nell’ottica di predire l’andamento sulla base del funzionamento, magari selezionando cluster di pazienti sulla base della VGF (Valutazione Globale del Funzionamento), le cose cambiano poco. Pazienti gravi e complessi vengono al CSM una volta al mese e chiedono poco più di una prescrizione. Altri fanno la porta girevole al SPDC, hanno sussidi, SRP (Strutture Residenziali Psichiatriche) innumerevoli alle spalle, quando migliorano sembrano fare di tutto per tornare a stare male.
I fattori da tenere in considerazione
Mi vengono in mente numerosi fattori che ho imparato a tenere in considerazione per inquadrare i pazienti psichiatrici: primo tra tutti, le famiglie. Ma non quanto sono a loro volta compromesse o disagiate ma quanto si coinvolgono nel trattamento, si rimettono in gioco, fanno squadra con il Sistema Curante.
Allora provo a lasciare da parte i fattori fenomenologici e quelli intrinseci alla malattia e faccio una ipotesi ardita.
Vediamo quanti fattori possono riguardare noi, piuttosto che il paziente, la sua famiglia, l’ambiente. Vale a dire quanto di iatrogeno potrebbe esserci nelle ombre della psichiatria.
L’uso dei farmaci nella psichiatria moderna
Cominciamo dalla cosa più semplice, vale a dire i farmaci.
Nel giro di pochi mesi di trattamento intensivo di un quadro scarsamente rispondente un paziente medio grave assume spesso combinazioni di farmaci ben lontane dalle linee guida. Se il paziente non migliora cambia medico (spesso decide la sua famiglia), o pretende altro, inizia il classico sistema di cura da supermercato, pensa di scegliere quello che gli serve, magari con un consulente web che lo assiste, tra balle spaziali e ingenuità.
Ogni psichiatra ha le sue idee e affezioni per questa o quella molecola. Chi spinge, chi frena, chi abbotta, chi usa dosaggi omeopatici. Il primo fattore che può condizionare il destino di un paziente potrebbe essere proprio come viene trattato nella prima fase del disturbo.
A questo si aggiunge che spesso si alternano e sovrappongono trattamenti privati e altri pubblici, che inevitabilmente generano stati d’animo contrastanti tra i differenti psichiatri. Potremmo dire, mutuando dalla psicoanalisi, differenti e problematici controtransfert.
Recentemente è arrivato al nostro servizio un paziente seguito in un ambulatorio farmacologico universitario da oltre 25 anni per un grave disturbo ossessivo compulsivo. È stato inviato da noi perché non può più mantenersi. Non è amministrato. Non ha mai lavorato ne’ fatto una riabilitazione, ci viene inviato perché sta perdendo tutte le autonomie. Ha bisogno di sussidi ed una ricostruzione di una esistenza interrotta.
Possibile che un paziente con buone capacità, intelligente, e molto sintomatico, non sia mai stato avviato ad un percorso riabilitativo o semplicemente risocializzante?
La modalità di trattamento
Poi veniamo alla modalità di trattamento. Attendisti verso interventisti. Prendiamo la prima categoria e troviamo facilmente psichiatri che confidano infinitamente nel tempo, lasciano che passino anni di ritiro, interruzione totale della vita di relazione, conflitti familiari alienanti. Altri che hanno il TSO facile e ricoverano in SPDC persino i ragazzi giovanissimi. Francamente, visto lo stato dei nostri SPDC e la mancanza di reparti dedicati ai giovani e alle prime crisi, ci vuole coraggio a proporre e convalidare un TSO per pazienti con meno di 30 anni. Le esperienze che vivono infatti i pazienti nei reparti psichiatrici ospedalieri, spesso appartati, asfissianti, rumorosi e altamente contenitivi, finiscono per rappresentare un secondo trauma, alla pari con quanto succede ai migranti durante il viaggio della speranza.
L’apartheid sociale
E voglio infine toccare la questione più grossa, in questa breve riflessione che mi richiama alla mente “La povertà della psichiatria” di Benedetto Saraceno.
Penso che uno dei problemi più grandi della psichiatria moderna sia quello di alimentare un apartheid sociale, il tragico terricomio di cui sentii parlare da uno psichiatra burlone il mio primo anno di servizio pubblico. In altre parole di non avere sviluppato percorsi precisi tra trattamenti intensivi ed estensivi, riabilitazione, abitazione supportata, autonomia.
Con questo non voglio dire che non siano attivi in Italia (e non solo) moltissimi programmi ben definiti. Ne ha parlato il 4 maggio 2024, Chiara Daina sul Corriere della Sera.
Ma una modalità precisa e diffusa e accessibile a tutti i pazienti, con tempi di trattamento intensivo ed estensivo chiari e condivisi, mi risulta poco adoperata. Sarà che opero nel Lazio e che le strutture, un tempo definite Comunità Terapeutiche, ora residenziali (un obbrobrio terminologico) non hanno un sistema di gestione delle accoglienze pubblico, non si conoscono tempi di attesa, gran parte dei trattamenti si avvia sulla base di una specie di personale intesa tra curante, pubblico o privato che sia, e la struttura residenziale stessa.
Ovviamente non sono definiti i tempi, pur essendo siglati nel PTI, nel PTRI, e nel caso del Lazio, stabiliti dal DCA 188 del 2015.
Cioè con ogni paziente si fa un accordo e poi si tratta e si ritratta, tra promesse, bugie e ricatti.
Brutto a dirsi. Ma chi conosce bene il sistema sà di cosa parlo. Molto dipende dal caso, poi dalla simpatia, non manca il peso politico del familiare, del collega e qualche altro fattore difficile persino da immaginare, figuriamoci a smascherarlo. E le regole? In una SRP si concede il cellulare per non più di 2 ore al giorno, in un’altra no, qui il cancello chiuso e l’infermiere versione portiere, altrove porte aperte. Chi usa arte e agronomia chi fattorie, chi lascia che il tempo passi, tra sigarette e caffè.
E per comprendere meglio va considerato che non sempre ad una minore assistenza corrisponde una maggiore libertà. Dipende dal responsabile, ancora oggi una rivisitazione in piccolo della famigerata figura del direttore del manicomio.
E poi cosa accadrà, e cosa accade durante la breve o lunga residenzialità?
L’importanza delle reti sociali
Tutte le reti sociali saltano. Pazienti già molto ritirati e soli perdono le poche relazioni che avevano. Le nuove che fanno sono instabili, poco affettive e con persone, loro malgrado, inaffidabili, attaccate a vite che non governano più.
Per quelli a cui va meglio può iniziare, dopo tanti anni di distacco sociale, un percorso di coabitazione. In casi ottimali si formano gruppi sulla base di affinità. Ma il più delle volte ci si incontra una volta e si inizia a condividere la propria vita, il bagno, magari la stanza e i rumori notturni, il cibo, la tv e anche la malattia. E le case di coabitazione, salvo qualche eccellenza, sono cadenti, piene di fumo e con divani maleodoranti e immancabilmente coperti con teli. Un paziente grave che vive presso una famiglia ospitante nel progetto piemontese chiamato IESA (Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti) diceva che è difficile vivere con i pazienti psichiatrici. Una ovvietà che raramente teniamo a mente, pretendendo da persone fragili, insicure e traumatizzate quello che nessuno di noi sopporterebbe.
Un paziente regolarmente assistito ha dormito per due mesi su una rete rotta, sostenuta da una pila di libri che avevo provveduto a mettere sotto la spaccatura dell’asse. Dopo l’estate il letto era ancora così. Una mescolanza tra la sua psicosi, la sua famiglia e soprattutto, direi, la nostra eccessiva pazienza e tolleranza (come la storia del medico pietoso e delle piaghe…).
L’eccellenza della psichiatria moderna
Potrei tuttavia citare casi di trattamenti eccellenti, ben curati e assistiti con massima efficacia. Il problema, di cui parlavo brevemente con Ludovica Iona, una giornalista molto attenta che sta studiando a fondo la situazione italiana (Podcast Tutta colpa di Basaglia), è che il sistema è tutto a macchia di leopardo, così si dice. Cioè qui va bene e lì no, senza un vero perché. E più che un leopardo sembra un puntinismo di Seurat. Infatti la questione non può risolversi nel solito racconto delle eccellenze. Si devono ridefinire i termini dei percorsi che la psichiatria moderna prevede per curare. Non per contenere, o difendere, e tantomeno per sottrarre al pubblico decoro, per amministrare, o per sostenere.
Curare, una parola importante che la psichiatria rischia di dimenticare, talvolta nei drop out (che magari si sono liberati di noi e stanno meglio), talvolta sui lettini degli psicoanalisti, che per quanto bisfrattati dagli ideologi dell’evidence based medicine, continuano a produrre cura e guarigione, altrimenti chi mai continuerebbe ad andarci? Con quello che costa?
Talvolta nelle straordinarie storie che la salute mentale sa ancora raccontare. Aneddoti, casi singoli, tanti pazienti visti e seguiti bene, con passione, o con i gruppi, o con la psicoanalisi multifamiliare che fa da volano tra i diversi trattamenti. Con dei buoni centri diurni, o con qualche altra fortunata combinazione che fa andare dalla parte giusta chi invece rischiava di finire da quella sbagliata.
E perdersi in uno dei tanti labirinti della psichiatria moderna.