Lunedì 26 dicembre, nel telegiornale di Rai Uno delle ore 20, viene proposta l’intervista all’eroe Silvio X, che con il suo intervento ha immobilizzato chi aveva già ucciso quattro donne e si apprestava a incrementare la strage di altri condòmini del complesso residenziale situato nei pressi del Lago del Salto, in provincia di Rieti.
Alessio Zucchini, il giornalista che lo intervista, chiede a Silvio dove ha trovato la forza per cercare di reagire a quello che stava accadendo. Silvio gli risponde che ha agito d’istinto e che è un miracolato perché un proiettile gli è entrato dalla mandibola e gli è uscito dietro l’orecchio, senza fargli del male, tanto che l’assassino credeva di averlo ucciso.
Poi c’è una bellissima inquadratura sulle villette che sono poste sul pendio che dal Lago sale verso il monte che le sovrasta. Si passa, così, dal vedere delle splendide case di campagna che si affacciano sul lago, in uno scenario da sogno, ad inquadrare il manufatto, lo scheletro mai finito nel quale abitava l’assassino. Il contrasto è impietoso: si passa da dimore calde e accoglienti ad una specie di bunker senza finestre, al piano terra, sovrastato da due piani di cui si riconosce soltanto la struttura portante: i pilastri e il tetto.
Poi il giornalista, attento e curioso, passa a chiedere, a Silvio X, dell’uomo che si è macchiato di questo crimine assurdo. A questo proposito, per la prima volta mi è capitato di aver sentito parlare di una persona e dei segnali che aveva inviato a proposito dello stato di alterazione del contatto con la realtà nel quale si trovava e non, come al solito, di un mostro inspiegabile.
E’ fuor di dubbio che sia colpevole di un atto riprovevole. Questo rimane fuori discussione. Ed è giusto che la Giustizia faccia il suo corso, conseguente al livello di imputabilità che gli verrà riconosciuto.
Il punto che vorrei prendere in considerazione è un altro: l’imputato aveva dato chiari segni di squilibrio, aveva inviato segnali inequivocabili di una sofferenza profonda, probabilmente iniziata o su cui aveva, comunque, sicuramente pesato la vicenda della morte del figlio, dovuta ad un incidente sulla neve, avvenuto quattordici anni prima. Per la prima volta ho sentito parlare di una storia, tragica per il suo epilogo spaventoso, ma piena di sofferenza da lunghissimo tempo.
Che cosa era stato fatto negli anni precedenti per evitare che un bel giorno si arrivasse all’incredibile epilogo che si è verificato?
Non intendo pronunciare nessun atto di accusa nei confronti di chicchessia, credo che il punto sia un altro: che cosa facciamo quando ci troviamo di fronte a un livello di sofferenza così alto? Riusciamo ad occuparcene, in qualche modo, anche se non ci riguarda o preferiamo tirare dritto, rimanendo apparentemente insensibili?
Io penso che quello che è accaduto riguardi la società nella quale viviamo e i livelli di sofferenza che la attraversano. Mi sembra che ognuno dovrebbe interrogarsi in merito a come muoversi se ci si rende conto che il nostro sconosciuto vicino sta dando segni di squilibrio.
Non credo che la strada possa essere soltanto quella di seguitare a pensare che nella testa di quelle persone evidentemente si è rotto qualcosa che va riparato e che l’unica cosa che possiamo fare è dargli dei farmaci che lo tengano buono. Ritengo che la strada sia un’altra di fronte all’insorgenza di qualsiasi tipo di disturbo. Si tratta di decidere di occuparsi di quella sofferenza e di ricostruirne la storia. Si tratta di prendere in considerazione una persona e di capire come sia stato possibile che sia stato così male da essere diventato capace di uccidere.
La Legge per la chiusura dei Manicomi e la Legge per la Chiusura dei Manicomi Giudiziari ci ha messo nelle condizioni di non affrettarci a mettere un bel punto a queste storie da cui, apparentemente, non si poteva più tornare indietro.
Esiste in questo paese la possibilità di riavvolgere il nastro e di capire che cosa è successo tra le persone, oltre che nelle persone che stanno male: non per mettere in discussione la pena a cui sarà sottoposto, perché uno o addirittura più omicidi non possono in nessun modo essere disgiunti dalle responsabilità di chi li ha commessi, ma perché non ci si dimentichi di avere a che fare con un essere umano, per quanto colpevole.
Penso che la nostra società si sia presa una bella responsabilità decidendo di non far più “sparire” dalla circolazione una sofferenza talmente forte da mettere a soqquadro la vita di almeno una e, generalmente, di più persone. Prima quando uno cominciava a star male, veniva preso, fatto entrare in Manicomio e lì restava, soprattutto se era un malato serio, per il resto della sua vita. Ora, invece, non è più così. Le persone stanno fuori e manifestano la loro sofferenza, che è anche un grande e, a volte, disperato grido di aiuto. Però la società e per lei le istituzioni che la rappresentano, a questo punto, proprio di fronte alle situazioni che non si sa come affrontare non è che possono dileguarsi, sperando che la situazione la risolva qualcun altro.
Si tratta, viceversa, di affrontare la sofferenza e di ricorrere, se necessario, anche ad un Trattamento Sanitario Obbligatorio. Poi, superata la crisi, di far passare il tempo necessario per far star meglio il paziente in un reparto di post-acuzie. Per esempio, durante la permanenza in un luogo di cura deputato a questo scopo, è possibile frequentare un gruppo di psicoanalisi multifamiliare. La partecipazione a questo tipo di incontri può permettere a tutti i presenti, pazienti, familiari e operatori che è necessario che ognuno si impegni a fare qualcosa per far stare meglio i pazienti in primo luogo, ma anche ognuno di loro.
Infine, questo periodo di cure può permettere di formulare un progetto terapeutico o presso una Comunità Terapeutica o presso il CSM dove possono essere sviluppati i tre pilastri dell’azione terapeutica nei confronti della malattia mentale: l’intervento farmacologico, quello riabilitativo da subito e, infine, quello psicoterapeutico, a seconda delle necessità delle singole situazioni.
Queste sono le responsabilità che la nostra società si è presa sulle spalle e che sarebbe opportuno che onorasse.
In sintonia perfetta con tutto il percorso di questo articolo , che ritengo contenga l’essenza del nostro lavoro , vorrei sottolineare l’obiettivo fondamentale dell’ onorare le responsabilità nostre , come società , con cui Andrea conclude . Credo che sarebbe l’impegno più utile per il nostro futuro. Ancora auguri a tutti!
Condivido il comunicare una nostra comune responsabilità nel dover assumerci l’ingrato compito di curare anche con interventi ‘antipatici’ su chi sta male ma di collegarli alle risorse pretenderle comunicare in modo responsabilizzante (e non colpevolizzante al singolo) a chi di questa sanità si deve occupare a chi si accontenta di un generale messaggio di tolleranza a chi favorisce notizie fuorvianti chi annebbia la capacità di riconoscersi e probabilmente capire e soffrire abbastanza con il diverso per intervenire. È il nostro mestiere o dovrebbe esserlo ma è anche di una comunità informata e non spinta ad un egoismo indifferente da conclusioni facili.
Byung – Chul Han, un filosofo sudcoreano e tedesco di adozione, ha scritto “La società senza dolore”: ritiene che abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite. Cita Ernst Junger: “Dimmi il tuo rapporto con il dolore e ti dirò chi sei”. La nostra società sarebbe dunque fondamentalmente “algofobica”.
Apparentemente non è così, considerando l’attenzione ai fatti di cronaca nera che riempiono i notiziari TV, seguiti con protratta attenzione dal pubblico: ma, necessariamente, è una attenzione fatta di distratta curiosità, non di partecipazione.
Naturalmente, non è il caso di rimpiangere una cultura in cui il dolore inflitto diveniva addirittura spettacolo a suo modo educativo, come nei supplizi pubblici ricordati nel classici contributi di Foucault; ma forse val la pena di riflettere su come l'”algofobia” possa orientare nostre scelte e omissioni in modo non sempre positivo .
Lo fa specificamente in quella condizione così tragica che è la sofferenza mentale, e può portarci a negarla in vari modi: focalizzando una attenzione esclusiva a dimensioni da un lato sociopolitiche e dall’altro organico-biologiche; o ricercando un rassicurante e “neutrale” approccio classificatorio; o scherzando fatuamente su di essa come nelle barzellette sui matti.
E certamente contribuisce allo stigma, poichè è una potente difesa da un dolore partecipato e dunque temuto il considerare il folle come fondamentalmente diverso, e inferiore, rispetto a noi.
L’algofobia può ben essere stata una delle motivazioni che hanno spinto all’internamento manicomiale, pozzo senza fondo propizio all’oblio. Da quando vi abbiamo rinunciato, è verosimile che una nuova difesa consista nel “girarsi dall’altra parte”, ciò che forse ha creato i presupposti del fattaccio di Roma, come Andrea Narracci ci porta a constatare.
Con questo, il dolore ha bussato alla nostra porta con eccezionale violenza e prepotenza; ma prima o poi l’attenzione calerà, si rivolgerà ad altri oggetti, amnesia e anestesia faranno il loro lavoro