Non c’è dubbio che la condizione di immigrato comporta una complicazione ulteriore nel trattamento della sofferenza mentale, anche dell’adulto ma particolarmente di un minore. Essa incide pesantemente sulla formulazione di un progetto terapeutico adeguato ai minori stranieri soli, poiché come è ben noto l’adolescente o preadolescente è impegnato in una costruzione del Sé fortemente condizionata dagli input ambientali, che nell’immigrazione sono molteplici e particolarmente compositi – spesso contrastanti se non conflittuali.
L’acquisizione di una familiarità con l’ambiente
Come diceva Correale, un ambiente che offre una quotidianità ripetitiva e prevedibile (ma mai ossessiva) consente l’acquisizione di una familiarità con l’ambiente che rafforza il fondo del Sé, vale a dire il modo in cui sperimentiamo il nostro senso di coesione, di continuità e vitalità. E l’esser riconosciuti e accettati è – ce lo hanno insegnato Winnicott ed Erikson, da diverse prospettive – un potente fondamento della identità personale. È una componente utile nell’esperienza delle Comunità Terapeutiche.
I minori stranieri soli non riescono ad inserirsi nella nuova realtà
Tutto l’opposto accade all’immigrato non inserito in qualche modo nella nuova realtà. Eugenio Borgna, rifacendosi in qualche modo al pensiero di Heidegger, ha scritto pagine importanti su certe analogie fra la psicosi e l’esperienza di sradicamento dell’immigrato: sul paragonabile vissuto di estraneità, cioè del vivere in un mondo che si fa estraneo, mal riconoscibile, perturbante. Scrive: “nelle esperienze di sradicamento e di estraneità il mondo perde la sua familiarità non solo geografica ma soprattutto paesaggistica… I contenuti emozionali, affettivi, che connotano abitualmente una situazione geografica trasformandola in un landschaft, in un ambiente a noi familiare, si inaridiscono nelle loro articolazioni spazio-temporali, si fanno incomprensibili e inaccessibili sino a giungere alla trasformazione radicale del mondo. Il tempo perde il suo divenire e slancio vitale. La barriera del linguaggio può separarci dalla nostra patria interiore”.
Malati di estraneità
Le parole “alieno” e “alienato” hanno ovvia radice comune. Di fronte a “malati di estraneità”, condizione di cui la difficoltà di comunicazione verbale è solo uno degli aspetti, il compito del terapeuta si fa più complesso. È d’aiuto un approccio anche antropologico. Infatti, contestualizzare rispetto all’ambiente è compito del terapeuta,ma dovrà farlo rispetto all’ambiente di origine (interiorizzato oppure ancora reale) o rispetto a quello attuale? O piuttosto rispetto a una complessa interazione fra i due?
L’emigrazione rinnova in qualche modo il trauma della prima separazione dalla madre: ciò, forse, di più se l’immigrato proviene da una ambiente sociale più dotato, rispetto al nostro, di valenze materne
Il confine tra psicopatologia e aspetti culturali
Anche sul piano strettamente diagnostico la situazione è complicata: è delicato il confine fra psicopatologia e aspetti culturali. Può esser utile inserire operatori appartenenti a diverse culture, purchè non deresponsabilizzino gli altri sostituendosi a loro e quasi creando una “sezione immigrati”.
Molto complesso dunque il problema diagnosi. Il DSMV vi dedica una corposa sezione, ma ciò non supera il problema, rendendosi utile a finalità statistico – epidemiologiche più che di cura. Infatti ciò è terapeuticamente sterile se sostanzialmente ci si sottrae al rapporto rifugiandosi nel nosografismo, e in conseguente approccio esclusivamente farmacologico.
Una riflessione sui minori stranieri soli
Ma pure la ricerca di una diagnosi può essere di stimolo alla riflessione, anche a livello antropologico. Noi occidentali siamo eredi di quella rivoluzione razionalistica che ha rimodellato il nostro approccio al reale ( ispirando rivoluzioni politiche e avviando la nascita della democrazia moderna ). Il resto del mondo ci ha seguito solo in parte: in piccola parte lo ha fatto quell’Africa profonda da cui proviene tanta immigrazione. Pertanto è possibile che riteniamo psicopatologico ciò che per quel mondo non lo è.
È dunque fecondo l’intreccio con l’antropologia, e anche con una certa letteratura. Val la pena ricordare “Lo straniero” di Camus, che ci parla di una condizione sotto certi aspetti invertita rispetto a quella dei nostri immigrati, Lo straniero, verosimilmente figura autobiografica, appartiene a una collettività di coloni, un tempo dominante, che avverte il disagio crescente della propria posizione: la visione di un gruppo di arabi, con atteggiamento in qualche modo enigmatico, ha un effetto perturbante, che contribuisce a spingerlo a un delitto assurdo (psicopatologico?): l’uccisione di un arabo.