Le quattro co… più una che definiscono la comunità come terapeutica.
Con -dividere
Com-prendere
Com-patire
Con-fidar
Con-servare
Penso che lo specifico della comunità come dice etimologicamente il temine stesso (cum munis) sia il lavoro in gruppo e col gruppo, il che ovviamente non impedisce la valorizzazione del singolo (anzi).
Quindi chi vuole lavorare in questo ambito deve necessariamente fare i conti co n le proprie capacità e la propria disponibilità a dividere insieme agli altri la fatica che comporta il lavoro con i pazienti psichiatrici gravi da cui deriva la predisposizione a patire insieme ad essi ovvero a fare i conti con le forti emozioni ed a volte le passioni che il rapporto stretto con quella che definiamo follia genera in ciascuno di noi.
L’aspetto terapeutico del nostro lavoro è meglio organizzato se sviluppiamo la capacità di prendere insieme le angosce di frammentazione e di estraneità dei nostri pazienti favorendo un percorso che potremmo definire in un primo momento di disintossicazione e successivamente di recupero di senso e significato.
Per fare questo lavoro è necessario potersi sentire affiancati e non soli e quindi avere la possibilità di fidarsi e affidarsi l’un l’altro mettendo reciprocamente a disposizione le proprie caratteristiche personali e la propria esperienza.
Questa esperienza che ci permette di apprendere e di progredire nello sviluppare un pensiero comune è tanto importante quanto più la si riesce a ricordare e trasmettere e quindi a conservare come preziosa risorsa nell’impresa di cura delle psicosi.
Una sintesi efficace e meravigliosa del lavoro in comunità. Anche com-unicare non è sempre facile.
Con-divido
Dario Nicora
La fatica del lavoro in comunità passa attraverso la comprensione dei propri pregiudizi, riconoscendo di averli, come sosteneva Cecchin. (1997)
La “consapevolezza”dei propri pregiudizi passa attraverso il processo di riconoscimento della relazione tra individuo e mondo esterno: comprendere ciò significa avere “coscienza di sé e delle proprie responsabilità”, avere consapevolezza della propria identità, del proprio ruolo, delle proprie potenzialità. La “consapevolezza” è la capacità di percepire e valutare la realtà e di rispondere agli stimoli che da essa provengono, avendo presente però che occorre andare al di là dell’informazione data, mettendo in gioco la componente soggettiva in un contesto relazionale che rifiuta la ricerca di una sola verità, perché una persona può avere motivazioni diverse e costruire legami differenti da quelli di un’altra per esperienze, vissuti e storie. (Telfener et alii, 2003)
La co-costruzione di una nuova storia avviene in un contesto condiviso.
Paola Buonsanti
fidarsi conoscersi riconoscere ed accettare differenze essere permeabili sensibili ascoltare le proprie emozioni costruire insieme nell’esperienza cambiare vedere il bello della differenza pazientare rigore ricerca comunicazione ecc. ecc. ………………ma sopratutto non pensare di aver trovato la strada giusta la soluzione il metodo e fermarsi.
Com-patire per com-prendere. Proprio la settimana scorsa mi sono arrovellata su questi due verbi. Quando il comportamento disfunzionale mette in scacco l’equipe producendo sentimenti espulsivi, bisogna saper fare un passo indietro, guardando la situazione nel suo insieme, valutando la storia di sofferenza, gli aspetti culturali, il senso e il significato delle parole che possono essere diversi, sforzarsi di trovare un punto d’incontro. Provare insomma ad arrivare all’obiettivo, alla meta, da una strada diversa.
La cura insomma, non deve essere stereotipata, non dobbiamo dimenticarlo!